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Channel: socialismo di mercato – Pagina 73 – eurasia-rivista.org
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DALLA PRIMAVERIZZAZIONE DEGLI ARABI ALL’INNOCENZA DEI MUSULMANI

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Ahmed Bensaada, Global Research, 11 ottobre 2012
 
 
Le scienze sperimentali studiano le proprietà di un materiale spesso sottoponendone un campione a un certo segnale. L’analisi della risposta del campione al segnale determina le caratteristiche del materiale, spesso nascoste. Per quanto sorprendente possa sembrare, è lo stesso nelle discipline umanistiche. A questo proposito, le risposte politiche e sociali suscitate dalla pizza islamofoba intitolata “L’innocenza dei musulmani” sono istruttive in più di un modo. Infatti, anche se di qualità molto scarsa, il “segnale d’interferenza” ha contribuito a portare alla luce alcune interessanti informazioni sui paesi democratizzatori e i paesi arabi “democratizzati”, in grazia della recente primavera.
In primo luogo, a mo’ di prologo, si noti che è inaccettabile che una persona, a prescindere delle sue azioni o appartenenze ideologiche, sia gettata alla folla, torturata in luogo pubblico o linciata da folle isteriche. Inoltre, si noti che non vi è niente di più degradante che gioire per la morte di un essere umano, deliziarsi delle sordide scene di tortura o godere svilendo, insultando o deridendo un cadavere. Solo la giustizia deve essere invocata ed applicata in conformità con le leggi e i trattati internazionali.
 
 
 
Tortura, omicidio e comportamentismo
 
L’aria triste esibita sinceramente dalla Clinton dopo l’esecuzione del suo ambasciatore in Libia,è in netto contrasto con la sua impudente (e sincera) risatina di gioia alla notizia del terrificante linciaggio di Gheddafi. Lasciandosi anche andare ad una efferata tirata indecente “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” riferendosi più al film “Ghostbusters” [1], che a Giulio Cesare [2]. Inoltre, a differenza di quelle del diplomatico statunitense, le immagini della “Guida” libica, massacrata ed esposta come un trofeo di caccia al fianco di suo figlio, sono rimbalzate sui titoli dei giornali, del web e della televisione di tutto il mondo. Due vili eventi simili, ma due trattamenti mediatici contrastanti. D’altra parte, vale la pena ricordare che l’esposizione dei cadaveri di due membri della famiglia Gheddafi non solo è in totale contrasto con le regole basilari della giustizia, ma anche con i principi fondamentali della religione islamica e il rispetto della dignità umana. In termini di giustizia, coloro che hanno torturato e brutalmente assassinato Gheddafi possono essere identificati, perché appaiono apertamente nei video pubblicati su Youtube, e alcuni di loro si sono addirittura vantati delle loro azioni. Tuttavia, nessuno di loro è stato disturbato da una qualsiasi giurisdizione e ciò non ha offeso nessuno, né in Libia, né in occidente o altrove.
Un’altra visione dell’esecuzione di Gheddafi è stata rivelato dall’ex primo ministro libico Mahmud Jibril. Quest’ultimo ha spiegato a Dream TV (Egitto) come l’autore dell’omicidio “sia stato un agente straniero che era nelle brigate rivoluzionarie”. Secondo il quotidiano italiano “Corriere della Sera”, si tratterebbe probabilmente di un agente francese [3], che coinvolge la Francia direttamente nell’assassinio di Gheddafi, oltre agli aiuti militari di quel paese agli stessi insorti che hanno torturato l’ex Guida della Libia.
Nel caso del diplomatico statunitense, la condanna internazionale è stata unanime, cosa abbastanza naturale e di buon senso, in contrasto con l’atteggiamento adottato dalla “comunità internazionale” verso Gheddafi e la sua fine orribile. Inoltre, l’ira degli Stati Uniti è stata sentita dalle autorità libiche, accorse a trovare i colpevoli [4] e a rendere omaggio pubblico all’ambasciatore degli Stati Uniti, alla fine di una cerimonia. [5] Ma al di là di questo macabro confronto sul diverso trattamento di queste due persone brutalmente assassinate, ciò che richiama l’attenzione, in questo caso, è più profondo. In primo luogo, la reazione della piazza verso il video anti-Islam è estremamente virulento, nella maggior parte dei paesi arabi “primaverizzati” rispetto a quelli che non lo sono. In secondo luogo, i classici virulenti slogan anti-americani sono ricomparsi nei paesi arabi “democratizzati”, laddove erano già completamente scomparsi all’inizio della “primavera” araba.
 
 
 
Libia

Questa improvvisa inversione di tendenza nei paesi, “molto grati” verso coloro che li hanno “democratizzati”, ha sorpreso molti, in particolare la segretaria di Stato Hillary Clinton che, come sappiamo, era ampiamente coinvolta in questo compito [6]. “Molti americani si chiedono oggi, e mi sono chiesta, come questo possa accadere. Come questo sia accaduto in un paese che abbiamo aiutato a liberare, in una città che abbiamo aiutato a sfuggire alla distruzione?” Ha detto, parlando della Libia. [7] Ciò l’ha portata a chiedere, specificatamente alle “nazioni della primavera araba”, di proteggere le ambasciate degli Stati Uniti e a por fine alle violenze. [8] Si è lontani dalle dichiarazioni incandescenti del senatore McCain, che visitando Bengasi nell’aprile 2011, aveva espresso la sua opinione sui ribelli libici: “Ho incontrato questi combattenti coraggiosi, non sono di al-Qaida. Al contrario: sono patrioti libici che vogliono liberare la loro nazione. Dobbiamo aiutarli a farlo”. [9] Ancor più lontana la posizione di Bernard-Henri Lévy (BHL), avvocato supremo “della causa della Libia”, che a Natalie Nougayrède ha detto: “Non importa, a mio avviso, il passato “gheddafista” di alcuni membri del CNT, i riferimenti alla “sharia” o la presenza tra i ribelli di ex sostenitori di al-Qaida”. Nonostante le preoccupazioni, nulla ha dissuaso il filosofo, il grande distruttore dell'”islamo-fascismo” ad erigere in blocco gli insorti a combattenti per la libertà”. [10]
In realtà, e anche se lo dicono McCain e BHL, era noto che gli ex membri di al-Qaida non solo erano attivi nella ribellione libica, ma ne erano al comando. [11] Alcuni di loro erano membri influenti del Gruppo combattente islamico (ICG) libico, quando nel 2007, lo stesso Ayman al-Zawahiri (n° 2 di al-Qaida) aveva chiamato i libici a rivoltarsi contro, cito, “Gheddafi, gli Stati Uniti e gli infedeli”. [12] Forse c’è una risposta alla domanda di Clinton. 
 
 
 
Tunisia
 
Anche in Tunisia, la reazione della strada è stata violenta. Nessun diplomatico straniero è stato ucciso, ma dei manifestanti tunisini hanno perso la vita e degli interessi statunitensi sono stati saccheggiati a Tunisi. Come in Libia, l’ira del governo degli Stati Uniti si è sentita e la risposta delle autorità tunisine non si è fatta attendere. Moncef Marzouki, presidente tunisino, ha denunciato l’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Tunisi, vedendovi un atto “inaccettabile” nei confronti di un “paese amico”. In un colloquio con la segretaria di Stato degli USA, ha affermato che “Non confonderemo oggi quest’uomo (il regista del film, ndr) e l’amministrazione e il popolo americani (…)”[13]. Il Primo Ministro tunisino, Hamadi Jebali, a sua volta ha promesso di arrestare tutti i salafiti coinvolti nelle vicende dell’ambasciata statunitense. “Abbiamo le prove, abbiamo la legittimità e il rispetto, che useremo per imporre l’ordine”, si affrettava a sottolineare [14]. In una dichiarazione ad al-Hayat di Londra, il presidente del partito al-Nahda, Rashid Ghannouchi, nel frattempo aveva detto che gli attacchi contro le ambasciate degli Stati Uniti nei paesi arabi avevano lo scopo di rompere il dialogo tra gli Stati Uniti e gli islamisti. [15]
E’ interessante notare la forza e l’unanimità delle posizioni assunte dalle più alte personalità politiche della “nuova” Tunisia contro i salafiti, in netto contrasto con la clemenza relativa, con cui sono state trattate queste persone nei molti casi di violenze che hanno segnato la vita socio-politica della Tunisia dalla caduta di Ben Ali. Questo è ciò che è stato detto nell’editoriale di Ghorbal Abdellatif: “Da un lato [Ghannouchi] ha incoraggiato i suoi “figli” (con la sua compiacenza, le sue parole e il suo silenzio) ad aggredire donne non velate, artisti, giornalisti, docenti universitari, intellettuali, teologi, o altri, esortando i predicatori di odio, che non hanno nulla da invidiare ai loro omologhi occidentali islamofobi, e impedendo con tutti i suoi mezzi di adottare sanzioni nei confronti dei suoi seguaci salafiti. Quando il pompiere è un piromane, è normale e prevedibile che la nazione bruci”. [16]
 
 
 
Egitto

In Egitto, la violenza ha ricordato i giorni peggiori di piazza Tahrir. La zona intorno l’ambasciata statunitense a Cairo ha visto scontri tra manifestanti e le forze di sicurezza che avevano bloccato l’accesso all’edificio con blocchi di cemento. Come in altri paesi, i salafiti sono stati ritenuti responsabili delle violenze. Da parte sua, la televisione ha mostrato i volti di persone arrestate con l’accusa di essere teppisti al soldo di non si sa quale potere occulto. Il presidente egiziano Mohamed Morsi, degli influenti Fratelli Musulmani, ha inizialmente sostenuto le proteste pacifiche contro il video anti-islamico, prima di cambiare idea quando le proteste si sono scatenate per le strade di Cairo. Ha poi condannato con forza gli attacchi brutali contro l’ambasciata statunitense a Cairo. [17]
In una conversazione telefonica con il presidente statunitense, Mohamed Morsi  ha detto, “ho dovuto prendere provvedimenti legali contro tutti coloro che vogliono danneggiare le relazioni tra i popoli, specialmente tra il popolo egiziano e gli Stati Uniti”[18]. Come si può vedere, questa dichiarazione del presidente Morsi assomiglia stranamente quella di Rashid Ghannouchi. Da parte loro, i Fratelli musulmani avevano inizialmente indetto manifestazioni pacifiche in tutto l’Egitto, il 14 settembre 2012, dopo la preghiera del venerdì, per denunciare il video anti-Islam. Il giorno prima, Khairat al-Chater, numero due ed eminenza grigia della confraternita è stato accusato dal portavoce dell’ambasciata degli Stati Uniti a Cairo, di doppio gioco; in uno scambio di sottigliezze su tweeter, il diplomatico ha sottolineato che l’islamista sosteneva la riappacificazione nei suoi micromessagi in inglese, ma chiamava a manifestare in quelli scritti in arabo. [19] Un duro colpo per Khairat al-Chater, che avrebbe dovuto essere il primo “reale” presidente civile d’Egitto.
L’appello a protestare pacificamente è stato poi cancellato dalla fratellanza. Un secondo colpo per coloro che si definiscono “difensori” dell’Islam e del suo profeta, è giunto quando scoprirono, una volta al potere, che i principi religiosi e la ragione di Stato non vanno sempre mescolati.
Al fine di compiacere il governo degli Stati Uniti e rimanere in sintonia con i ritmi post-islamisti della primavera, Khairat al-Chater ha scritto un articolo sul New York Times per offrire le condoglianze della fratellanza, e della sua gente, al popolo statunitense per la perdita del suo ambasciatore in Libia. Aveva inoltre indicato che “la violazione della sede dell’ambasciata degli Stati Uniti da parte dei manifestanti egiziani è illegale secondo il diritto internazionale” e che “il fallimento della polizia (egiziana) nel proteggerla deve essere indagato”, o “Nonostante il nostro risentimento per la continua comparsa di produzioni cinematografiche anti-musulmane, che ha portato alle violenze attuali, non vogliamo che il governo degli Stati Uniti o i suoi cittadini siano ritenuti responsabili degli atti di pochi che violano le leggi che proteggono la libertà di espressione”. [20]
Devo dire che il presidente egiziano e la Fratellanza musulmana da cui proviene, puntano molto su questo caso. E’ davvero il loro primo grande test verso le attività di polizia e protezione degli interessi statunitensi nel paese. In cambio del supporto e sostegno fornito dal governo degli Stati Uniti per l’ascesa al potere della Fratellanza islamica in questo paese [21], gli Stati Uniti si aspettano (almeno) la sicurezza del loro personale e delle loro rappresentanze diplomatiche. Questo è anche il caso di tutti i paesi arabi colpiti dalla famosa “Primavera”, e le cui premature e inattese manifestazioni anti-americane hanno sconcertato il Dipartimento di Stato e la sua segretaria. Nel caso dell’Egitto, la tempistica di questi eventi ha causato ulteriori preoccupazioni.
Infatti, in un articolo pubblicato dal Washington Post, A. Gearan e M. Birnbaum ricordano che “le violente manifestazioni innescate dal video anti-Islam e la risposta inizialmente goffa dell’Egitto, ha temporaneamente interrotto i negoziati [tra gli Stati Uniti e l’Egitto] sul rilevante debito egiziano di miliardi di dollari e sull’accelerazione di altre forme di sostegno, da diversi milioni di dollari” [22]. D’altra parte, la capitale egiziana ha ospitato, l’8-11 settembre 2012, una delegazione molto grande composta da non meno di 118 uomini d’affari statunitensi, in rappresentanza di 50 grandi aziende statunitensi, tra cui IBM, Pepsi, Coca-Cola, Chrysler, Google, Microsoft, Visa, ecc. [23]. La delegazione degli Stati Uniti, la più grande ad aver visitato un paese del Medio Oriente, era stata ricevuta dal presidente Morsi il 9 settembre. Tuttavia, le manifestazioni anti-americane in Egitto hanno avuto inizio l’11 settembre, giorno della cerimonia di chiusura della missione commerciale, cosa che non avrà fornito un’immagine attraente del paese ospitante presso questi affaristi, cui il mercato egiziano sembrava interessare.
 
 
 
La “chiarezza” di un famoso telepredicatore

Il quadro della situazione sarebbe certamente incompleto senza i consigli di Youssef al-Qaradawi, il predicatore stella di al-Jazeera e presidente dell’Unione Mondiale degli Ulema musulmani. Membro influente dei Fratelli musulmani, al-Qaradawi ha dedicato il suo sermone del venerdì, 14 settembre 2012, in una moschea di Doha, alla rabbia dei musulmani di tutto il Mondo. Ha “consigliato” i fedeli che vogliono protestare contro l’offensivo film prodotto negli Stati Uniti, ad “abbandonate le violenze e a non assediare l’ambasciata degli Stati Uniti”. [24] Questa posizione molto “civile” e così benevola verso gli interessi statunitensi, contrasta nettamente con gli appelli all’omicidio di  Gheddafi e le esortazioni alla jihad contro il regime di Bashar al-Assad. Ricordiamo che ad al-Qaradawi, di origine egiziana e in possesso di un passaporto diplomatico del Qatar, è stato vietato di entrare in Francia da Sarkozy in persona, nel marzo 2012 [25], che il suo visto per la Gran Bretagna è stato rifiutato nel 2008 [26], ed è considerato persona non grata negli Stati Uniti. [27]
Infine, possiamo dire che il video incendiario “l’Innocenza dei musulmani”, ha rivelato apertamente che il rispetto per la dignità umana è un concetto molto relativo, al contrario di ciò che viene spesso presentato nelle cerimonie pompose dell’occidente o altrove. D’altra parte, ha dimostrato che i governi islamici attualmente al potere nei paesi colpiti dalla “primavera” araba, si comportano come vassalli del “grande amico” Stati Uniti, pur di rimanere nelle sue buone grazie e non aggravare la sua ira. Ciò suggerisce che la “primavera” araba non ha in realtà cambiato per nulla la fedeltà dei leader di questi paesi verso gli Stati Uniti. Tuttavia, vi è un aspetto importante del problema posto dal video anti-Islam che gli occidentali (e gli statunitensi in particolare) non sembrano capire: non sono solo i salafiti che si sentono insultati da questa pizza. La stragrande maggioranza dei musulmani di tutto il mondo lo è, anche se questa maggioranza non ha dimostrato, né gridato, né distrutto. 

 
 

Ahmed Bensaada, http://www.ahmedbensaada.com/
 
 
1 – “We came. We saw. We kicked its ass.”(Siamo venuti. Abbiamo visto. L’abbiamo preso a calci). Frase del film Ghostbusters: Dedefensa, “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” (ma “il troppo è troppo”…) 21 ottobre 2011, http://dedefensa.org / article-_we_came_we_saw_he_died_mais_assez_c_est_assez__21_10_2011.html
2 – “Veni, Vidi, Vici” (Sono venuto, ho visto, ho vinto). Famosa frase pronunciata da Giulio Cesare.
3 – Lorenzo Cremonesi, “Un agente francese dietro la morte di Gheddafi”, Corriere della Sera, 29 settembre 2012
4 – AFP, “Libia: 50 arresti dopo la morte dell’Ambasciatore degli Stati Uniti,” Jeune Afrique, 16 settembre 2012
5 – RFI, “la Libia rende omaggio all’ambasciatore americano ucciso a Bengasi,” 21 settembre 2012,
http://www.rfi.fr/afrique/20120921-libye-rend-hommage-ambassadeur-americain-tue-benghazi
6 – Ahmed Bensaada “Arabesco americano: il ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte di strada araba”, Edizioni Michel Brûlé, Montreal (2011); Éditons Synergy, Algeri (2012)
7 – IIP Digital, “Dichiarazione della Clinton sulla morte di americani in Libia”, 16 settembre 2012, 
http://translations.state.gov/st/french/texttrans/2012/09/20120912135851.html
8 – Joe Sterling e Greg Botelho, “Clinton chiede ai paesi della primavera araba di proteggere le ambasciate, e fermare le violenze”, CNN, 14 settembre 2012
9 – John McCain, “Dichiarazione del senatore McCain a Bengasi, in Libia”, Senato degli Stati Uniti, 22 aprile 2011
10 – Natalie Nougayrède “BHL alfiere libico” LeMonde.fr, 8 novembre 2011
11 – Jean-Pierre Perrin, “Abdelhakim Belhaj, il ritorno di al-Qaida”, Libération, 26 agosto 2011,
http://www.liberation.fr/monde/01012356209-abdelhakim-belhaj-le-retour-d-al-Qaeda
12 – Ibidem.
13 – AFP, “Video anti-Islam: Il mondo arabo ha vissuto un venerdì sanguinoso” LeParisien.fr 14 settembre 2012
14 – Digital Tunisia “Tunisia: Jebali promette di fermare i salafiti coinvolti nelle vicende dell’ambasciata degli Stati Uniti (
http://www.tunisienumerique.com/tunisie-jebali-promet-darreter-un-a-un-les-salafistes-impliques-dans-les-evenements-de-lamabassade-us/147147)”, 28 settembre 2012
15 – Bissan al-Sheikh, “Ghannouchi ad Al-Hayat: l’attacco all’ambasciata è una cospirazione per fermare il dialogo degli islamici con gli americani”, al-Hayat, 30 settembre 2012, 
http://alhayat.com/Details/439628
16 – Abdellatif Ghorbal, “I figli di Ghannouchi non sono tunisini”, Leaders, 19 settembre 2012,
http://www.leaders.com.tn/article/les-enfants-de-ghannouchi-ne-sont-pas- tunisino? id = 9325
17 – Catherine Le Brech, “L’atteggiamento di Mohamed Morsi sul movimento dopo le violenze”, FranceTV.fr 14 settembre 2012, 
http://www.francetv.fr/geopolis/lattitude-mouvante-de-mohamed-morsi-apres -la-violenza-8516
18 – Le Nouvel Observateur, “Mohamed Morsi condanna l’attacco contro la missione degli Stati Uniti a Cairo”, 13 settembre 2012
19 – Benjamin Barthe, “Battibecco su Twitter tra l’ambasciata americana e la Fratellanza musulmana egiziana”, LeMonde.fr, 13 settembre 2012
20 – Khairat al-Chater, “‘Le nostre condoglianze’, dicono i Fratelli musulmani”, The New York Times, 13 settembre 2012
21 – Ahmed Bensaada, “L’Egitto: elezioni presidenziali sotto un’alta influenza”, Le Quotidien d’Oran, 28 giugno 2012
22 – Anne Gearan e Michael Birnbaum, “Gli aiuti degli Stati Uniti in Egitto in fase di stallo,” The Washington Post, 17 settembre 2012
23 – Camera di commercio statunitense, “Missione del Business USA in Egitto. Elenco delle società degli Stati Uniti partecipanti”, 
http://www.amcham.org.eg/us_delegation/list.asp
24 – AFP, “Al-Qaradawi: Sono in errore coloro che uccidono gli ambasciatori e rispondono con la violenza agli insulti contro l’Islam,” Elaph, 14 settembre 2012, 
http://www.elaph.com/Web/ news/2012/9/761750.html
25 – Malbrunot , “Sarkozy contro l’arrivo di Youssef Al-Qaradawi”, LeFigaro.fr 26 marzo 2012
26 – BBC News, “Religioso musulmano non ammesso nel Regno Unito”, 7 feb 2008
http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/7232398.stm
27 – Middle East Online, “Qaradawi ‘persona non grata’ in Francia”, 26 marzo 2012, 
http://www.middle-east-online.com/english/?id=51397
Copyright © 2012 Global Research


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com


RIYAL: UN MODELLO DI SALVAGUARDIA DELL’IDENTITA’ ECONOMICA DELLO STATO

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Le grandi autorità dell’informazione in campo economico hanno più volte espresso preoccupazione per la situazione economica della Repubblica Islamica dell’Iran [1]. L’economia iraniana, per quanto colpita in maniera continuata dalle sanzioni economiche volte ad impedire la produzione in proprio e lo sfruttamento dell’energia nucleare [2], si sta rivelando un’economia “dura a morire”. I dati che emergono dall’ultimo incontro del D8 (ovvero “Developing 8 Countries”, cioè il vertice delle 8 nazioni islamiche in via di sviluppo) tenutosi il 21 novembre 2012 sono infatti decisamente confortanti per l’Iran e per il suo futuro economico [3]. Osservando l’Iran da un Occidente intriso dei concetti di “globalizzazione” e “libero mercato”, l’Iran è senza dubbio un’economia in perdita, se non fosse che gli scopi dell’Iran e degli altri paesi del D8 sono diametralmente opposti rispetto ai canoni di espansione occidentali. Un esempio su tutti: mentre in Europa si parla di “spread” e di valori arbitrari come il rapporto debito pubblico / PIL, nelle conferenze dei paesi del D8 si parla di cooperazione economica per risolvere le differenze tra le nazioni, cooperazione in campo energetico per la ricerca di nuove fonti di energia alternative e sviluppo economico [4].  Una volta comprese queste basilari differenze di approccio economico, si può ben intendere perché il cambio Euro/Riyal – Dollaro/Riyal sia portato rispettivamente a valori come 15.930,8195 e 12284 e di conseguenza perché il Riyal sia così svalutato rispetto alle altre valute di riferimento [5]: l’Iran e gli altri paesi del D8 sono portatori di un modello economico diverso rispetto a quello occidentale. Un forte indizio di questo fatto si trova  nelle dichiarazioni di Mahmud Bahmani, presidente della Banca Centrale iraniana: “L’Iran ha preso tutte le misure per eliminare le monete dominanti – dollaro ed euro – dalle proprie riserve di moneta straniera, così come per il commercio internazionale. Si può commerciare senza dipendere da queste valute”[6].

Stiamo assistendo, quindi, alla creazione di un’economia “parallela” basata su interscambi commerciali e relazioni multilaterali in assenza di una moneta unica di riferimento? Se le cose stessero effettivamente così non ci dovremmo meravigliare della scarsa eco che godono i meeting del D8 e delle varie “cumbres” dei BRICS presso i media occidentali. Il Riyal è quindi una valuta scomoda? La risposta è si, se teniamo conto che quando ancora era agganciato alla sterlina britannica (1932) il rapporto GBP/Riyal era di 59,75 e con l’aggancio al dollaro americano il valore di conversione USD/Riyal era di 32,25. È forse una coincidenza che a partire dal 1979, anno della rivoluzione iraniana, a solo 4 anni dall’uscita dall’ombrello del dollaro, il Riyal fosse stato svalutato addirittura al valore di 0,0141 USD [7]? [8] Nonostante la svalutazione del Riyal e la perdita dei poteri d’acquisto continuamente sbandierati dai media [9], possiamo affermare che l’Iran grazie alle sue abbondanti riserve auree e alla vendita del petrolio è un’economia in salute [10]: il paese figura nella classifica economica mondiale al diciassettesimo posto relativamente alla parità del potere d’acquisto e al ventiseiesimo posto per il valore di mercato. Nonostante le sanzioni il PIL iraniano è destinato a crescere a 1.006 miliardi di dollari entro la fine del 2012.

La modifica dell’articolo 44 della costituzione iraniana, ha dato origine ad un notevole sviluppo del settore legato alle attività private e non governative. Le percentuali confermano un trend di crescita: il mercato dei capitali è efficiente e sviluppato, i FDI (Foreign Direct Investments) sul territorio della Repubblica Islamica hanno conosciuto una crescita del 120% per tutto il 2009 e il 2010. La crescita di esportazioni dall’Iran (escluso il petrolio e i suoi derivati) ammonta al 24% e al 31%, rispettivamente per il 2009 e il 2010 [11]. In aggiunta a questo bilancio estremamente positivo, il ritorno al sistema del baratto per certi beni e servizi potrebbe essere una soluzione efficace per venire incontro alle esigenze dei paesi coi quali l’Iran intrattiene relazioni commerciali preferenziali [12].

Tutto ciò potrebbe portare all’origine di due sistemi economici paralleli transnazionali (uno capitalista e il secondo basato sui dettami del socialismo)? La rapida espansione delle economie del sud america, i nuovi traguardi della finanza islamica e la riscoperta del socialismo economico potrebbero essere motivo di richiamo per le economie occidentali straziate dalla crisi? Qualora lo scenario restasse allo stato attuale, il Riyal potrebbe essere preso a modello per la rinascita dell’Europa e per l’avanzata di un’economia transnazionale in grado, comunque, di salvaguardare le realtà nazionali.

 

Fonti:

[1] http://online.wsj.com/article/SB10000872396390444657804578050843318501614.html

[2] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-10-02/sanzioni-crolla-moneta-iraniana-064038.shtml?uuid=AbTIawmG

[3] http://www.developing8.org/Memberiran.aspx

[4] http://www.developing8.org/MissionStatement.aspx

[5] http://it.finance.yahoo.com/valute/convertitore/#from=EUR;to=IRR;amt=1

http://it.finance.yahoo.com/valute/convertitore/#from=USD;to=IRR;amt=1

data di riferimento: 26 novembre 2012 ore 16:10

[6] http://actualidad.rt.com/economia/view/79164-iran-moneda-regional-ayudara-hacer-frente-amenazas-economicas-occidente

[7] Iran’s Exchage Rate Freeze: Is it Appropriate? Is it sustainable?. Online Museum of Persian Currency & Coins, 9 luglio 2003.

[8] http://en.tpo.ir/UserFiles/File/Mehr%20&%20Azar.pdfhttp://www.indexmundi.com/iran/inflation_rate_(consumer_prices).htmlhttp://www.payvand.com/news/08/oct/1285.html

[9] http://www.lindipendenza.com/iran-bancarotta-rial/

[10] http://actualidad.rt.com/economia/view/79164-iran-moneda-regional-ayudara-hacer-frente-amenazas-economicas-occidente

[11] http://www.developing8.org/Memberiran.aspx

[12] http://www.wallstreetitalia.com/article/1332632/iran-theran-per-petrolio-accettiamo-monete-locali-e-baratto.aspx

“IL NUOVO EQUILIBRIO DEL TERRORE IN MEDIO ORIENTE”

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NEW YORK – Nella guerra tra Israele e i Palestinesi, durata una settimana, sono lentamente ma indubbiamente emersi dei segnali  di un nuovo “equilibrio del terrore” , guardando al miglioramento della capacità di Hamas di colpire Israele con i razzi a lungo raggio di fabbricazione iraniana Fajr-5.

Oggi, rispetto alla precedente guerra del 2009, quando Hamas poteva contare solo su missili a corto raggio molto più imprecisi, che si erano abbattuti nella zona meridionale di Israele prima che venisse osservato il “cessate il fuoco”,  si può vedere come la brigata missilistica di Hamas sia andata incontro ad un evoluzione in termini di disciplina e di complessità, con 15.000 soldati che operano attraverso una rete di gallerie.

Risulta quanto meno strano che Hamas abbia imposto le proprie condizioni per una tregua, nonostante  le micidiali ondate di bombardamenti aerei israeliani che hanno avuto come conseguenza la morte ed il ferimento di centinaia di civili nella zona intensamente popolata di Gaza, descritta dal professor Noam Chomsky in una sua recente visita [1] come “la più grande prigione all’aria aperta del mondo”.

Gli abitanti di Gaza vivono in condizioni sempre più terribili e degradate come risultato diretto della punizione collettiva che Israele vuole infliggere alla popolazione governata da Hamas che ora, come condizione di resa, chiede la sospensione del blocco messo in atto da parte di Israele.

Questa richiesta non è nulla di irrazionale od offensivo ed è supportata dalla comunità internazionale che condanna la sofferenza dei civili all’interno della striscia di Gaza. Israele è totalmente contrario a qualsiasi richiesta avanzata da Hamas e perciò è molto più probabile che il primo ministro Benjamin Netanyahu decida di inviare i carri armati dentro Gaza per l’inutile ricerca degli arsenali missilistici di Hamas. In questo scenario, la guerra diventerebbe ancor più complicata e il finale potrebbe essere un vero e proprio “pantano” come era successo nel 2009 con l’operazione, durata quindici giorni, il cui obiettivo dichiarato era quello di “distruggere le infrastrutture di Hamas”.

Se l’abilità militare di Hamas ha sorpreso gli Israeliani, l’incremento della capacità missilistica costituisce una sorpresa ancor più grande che porta a conseguenze che non favoriscono Israele in termini di politica dell’equilibrio regionale.

Nonostante la presenza dello scudo di difesa missilistica denominato “cupola di ferro”, secondo i rapporti, a malapena il 60% dei missili lanciati viene intercettato; allo stato attuale Israele sta mostrando un volto vulnerabile senza precedenti, molto lontano da quello dell’ “invincibile” Israele ostentato dai propri politici.

Lo scopo di Israele sembra essere quello di dividere Gaza, mascherandolo come un semplice obiettivo di guerra e anche di distruggere la connessione con l’Egitto, visto che è proprio da lì che provengono i razzi. Questo ambizioso obiettivo darà luogo ad una guerra di logoramento.

Il fatto è che Israele non può controllare completamente il proprio spazio aereo e difendersi dai razzi di Hamas che ora minacciano gran parte del territorio israeliano, non essendo in grado di ripetere una nuova e costosa occupazione di Gaza. Tuttavia questo fatto non sarebbe qualcosa di totalmente negativo in una prospettiva di pace, dal momento che la precedente volontà di “dominio totale” da parte di Israele era un richiamo al precedente status quo, che impediva ad Israele di muoversi verso una pace completa.

L’ “equilibrio del terrore” che si è creato ora è profondamente asimmetrico a vantaggio di Israele e tuttavia dal momento che è annoverata in questo equilibrio anche la vulnerabilità geostrategica menzionata in precedenza, la nuova equazione contiene una potenziale variabile per arrivare a delle strategie di pace più concrete. I leader politici israeliani potrebbero trovarsi impreparati per questo nuovo sinistro scenario e i consiglieri militari dovrebbero far luce sul nuovo stato delle cose; in altre parole, la nuova variabile è la capacità di Hamas di colpire nel cuore di Israele e che diventerà sempre più precisa negli anni a venire.

Per ora sussiste comunque una mancanza di continuità tra la politica e le azioni militari israeliane e nel caso in cui i politici, di malavoglia oppure no, raggiungessero un accordo, si potrebbe evitare lo scoppio dell’ennesima guerra che potrebbe logorare l’economia (per esempio impoverendo il turismo israeliano).

Ora diamo spazio alla domanda più scottante: cosa potrebbe perdere o guadagnare Israele dalla sospensione del blocco richiesta da Hamas? La risposta è data dall’imposizione di specifiche scadenze. Nel tempo, una Gaza più prospera e meno devastata dalla dilagante povertà, malnutrizione e mancanza di acqua e da altre carenze potrebbe essere più disponibile a mantenere la pace per tenere al sicuro le sue care conquiste, piuttosto che una Gaza in cui dilagano fame e miseria senza possibilità di reagire.

Sfortunatamente, molti leader israeliani non riescono a capire l’interdipendenza profonda e le conseguenze politiche, convincendosi che per ottenere più sicurezza sia sufficiente utilizzare il pugno duro e mettere in ginocchio i Palestinesi.

La “strategia di forza” risulta fondamentalmente sospetta soprattutto alla luce del fatto che il nuovo “equilibrio del terrore” è molto di più di una conseguenza del passato.

Probabilmente ciò di cui ha bisogno Israele, più di qualsiasi altra cosa, è una ideologia post-sionista non imprigionata nell’arcana ideologia espansionista del XIX secolo, ma ben in sintonia con i requisiti di sopravvivenza nel contemporaneo contesto della globalizzazione e della regionalizzazione: ciò implicherebbe meno arroganza e fissazione per la superiorità militare [2] ma un’ammissione di vulnerabilità che possa, a sua volta, dar spazio all’impulso, fin ora assente, di comprendere ed aver compassione per la sofferenza dei palestinesi, percepiti come “diversi” e fino ad ora destinati unicamente all’oppressione.

 

 

Kaveh L. Afrasiabi Doctor of Philosophy, è autore di “After Khomeini: New Directions in Iran’s Foreign Policy” (Westview Press). È autore di  “Reading In Iran Foreign Policy After September 11” (BookSurge Publishing , October 23, 2008) e di “Looking for rights at Harvard”. Il suo ultimo libro si intitola “UN Management Reform: Selected Articles and Interviews on United Nations” , CreateSpace (November 12, 2011).


Note: 

[1] “Impressions of Gaza” – 4 novembre 2012

[2] “Israel ranked as the most militarized nation”, Asia Times Online, 15 novembre 2012

 

(Traduzione di Marco Nocera) 

VLADIMIR POZNER, IL BARONE SANGUINARIO, ADELPHI, MILANO 2012

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In un discorso tenuto ad Amburgo il 28 aprile 1924, Oswald Spengler rievocò la figura del barone von Ungern-Sternberg, che quattro anni prima aveva allestito un esercito “con il quale in breve tempo avrebbe avuto saldamente in pugno l’Asia centrale. Quest’uomo – disse Spengler – aveva legato incondizionatamente a sé la popolazione di vaste regioni, e se avesse voluto prendere l’iniziativa e la sua eliminazione non fosse riuscita ai bolscevichi, non ci si può figurare come risulterebbe già oggi l’immagine dell’Asia”1. Il barone Ungern-Sternberg era già passato alla storia. E alla leggenda.

Dal noto libro di Ferdinand Ossendowski Bestie, uomini e dèi2 alle biografie romanzate di Vladimir Pozner3 e Berndt Krauthoff4, che attrassero rispettivamente l’attenzione di René Guénon5 e di Julius Evola6; dal film sovietico Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Aleksandr Zarchi e Josif Chejfiz (con Nikolaj Cerkasov nei panni dell’eroe negativo Ungern) ai fumetti di Hugo Pratt7 della serie “Corto Maltese”; dai romanzi di Jean Mabire8 e di Renato Monteleone9 fino alla pittura dell’artista siberiano Evgenij Vigiljanskij, la leggenda del “barone sanguinario” ha continuato ad esercitare il suo fascino. Nella Russia postsovietica, dove Leonid Juzefovich10 ha pubblicato la più recente biografia del Barone, il mito di Ungern è particolarmente vivo presso le correnti eurasiatiste e neoimperiali, che guardano a questo personaggio come ad un loro precursore11.

Secondo la Grande Enciclopedia Sovietica, Roman Fedorovic Ungern von Sternberg nacque il 10 (22) gennaio 1886 nell’isola di Dago (oggi Hiiumaa Saar, in Estonia) e morì il 15 settembre 1921 a Novonikolaevsk (oggi Novosibirsk). Altre fonti, invece, lo fanno nascere il 29 dicembre 1885 in Austria, a Graz; per quanto riguarda la morte, oscillano tra il 17 settembre e il 12 dicembre del 1921 e propongono ora Novonikolaevsk ora Verkhne-Udinsk (Ulan Ude, tra la riva sudorientale del Baikal e il confine mongolo).

In ogni caso, la famiglia del barone Roman Fedorovic (imparentata tra l’altro con quella del conte Hermann Keyserling) apparteneva alla nobiltà baltica di lingua tedesca ed era presente sia in Estonia sia in Lettonia: nel 1929 un esponente della famiglia rievocava le sue vicissitudini a Riga, nel periodo dell’invasione bolscevica12.  Il Genealogisches Handbuch des Adels si occupa estesamente degli Ungern-Sternberg13, individuandone il capostipite in un Johannes de Ungaria (“Her Hanss v. Ungernn”), la cui esistenza è attestata in un documento del 1232. Sul dato dell’origine magiara si innestarono alcune leggende: una ricollegava gli Ungern agli Unni, un’altra li faceva discendere da un nipote di Gengis Khan che nel XIII secolo aveva cinto d’assedio Buda.

E appunto dal fondatore dell’impero mongolo Roman Fedorovic avrebbe ereditato un anello di rubino con la svastica, mentre, stando ad un’altra versione, glielo avrebbe consegnato il Qutuqtu, il Buddha Vivente di Urga, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo.

Compiuti gli studi al Ginnasio di Reval, il Barone frequentò la scuola dei cadetti di San Pietroburgo; nel 1909 trascorse un breve periodo con un reggimento di cosacchi di stanza a Cita, in Transbaikalia, poi si diresse verso la Mongolia.  Qui, grazie all’affiliazione buddhista che gli era stata trasmessa dall’avo paterno, Roman Fedorovic poté entrare in rapporto col Buddha Vivente.  Nel 1911, quando i Cinesi vengono cacciati dalla Mongolia e il Buddha Vivente diventa il sovrano del paese, il Barone riceve un posto di comando nella cavalleria mongola. In quel periodo, un oracolo sciamanico gli rivela che in lui si dovrà manifestare una divina potenza guerriera.

Nel 1912 Roman Fedorovic è in Europa.  Allo scoppio del conflitto, abbandonando Parigi  per accorrere sotto i vessilli dello Zar, il Barone conduce con sé una fanciulla di nome Danielle, la quale perirà in un naufragio sul Baltico. Nel 1915 combatte in Galizia e in Volinia, riportando quattro ferite e guadagnando due altissime onorificenze: la Croce di San Giorgio e la Spada d’Onore. Nel 1916 èsul fronte armeno, dove ritrova l’Atamano Semenov, che aveva conosciuto in Mongolia. Nell’agosto del 1917, dopo essere andato a Reval per organizzarvi alcuni distaccamenti di Buriati da impiegare contro i bolscevichi, Ungern raggiunge Semenov in Transbaikalia; qui diventa il capo di Stato Maggiore del primo esercito “bianco” e organizza una Divisione Asiatica di Cavalleria (Aziatskaja konaja divizija) in cui confluiscono mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, perfino tibetani, coreani, giapponesi e cinesi. La Divisione Asiatica di Cavalleria opera per tutto il 1918 nei territori orientali della Siberia, tra il Baikal e la Manciuria.

Dopo l’evacuazione giapponese della Transbaikalia, la successiva occupazione cinese della Mongolia e l’instaurazione di un soviet “mongolo” sotto la direzione di un ebreo di nome Scheinemann e di un pope rinnegato di nome Parnikov, il generale Ungern si dirige verso la Mongolia  alla testa dei suoi cavalieri. Il 3 febbraio 1921 investe Urga, costringendo alla fuga la guarnigione cinese, facendo a pezzi un rinforzo nemico di seimila uomini e spazzando via il soviet locale. Il Buddha Vivente Jebtsu Damba, liberato dalla prigionia e reintegrato nel suo regno, conferisce a Ungern, che d’ora in poi sarà Ungern Khan, il titolo di “Primo Signore della Mongolia e Rappresentante del Sacro Monarca”. Il terzo gerarca del Buddhismo lamaista riconosce in Ungern una cratofania procedente dal suo medesimo principio spirituale.

Ungern aveva dichiarato fin dal 25 febbraio 1919, alla Conferenza Panmongola di Cita, la propria intenzione di restaurare la teocrazia lamaista, creando una Grande Mongolia dal Baikal al Tibet e facendone la base di partenza per una grandiosa cavalcata verso occidente, sulle orme di Gengis Khan. Il vero scopo di Ungern Khan non era infatti una pura e semplice distruzione del potere sovietico, ma una lotta generale contro il mondo nato dalla Rivoluzione Francese, fino all’instaurazione di un ordine teocratico e tradizionale in tutta l’Eurasia. Ciò spiega da un lato la scarsa simpatia di cui Ungern godette presso gli ambienti “bianchi”, dall’altro, il vivo interesse che il suo progetto suscitò anche al di fuori delle cerchie lamaiste, in particolare presso gli ambienti musulmani dell’Asia centrale.

Rivestendo la tunica gialla sotto il mantello di ufficiale imperiale, alla testa di un’armata a cavallo che innalza come propria insegna il vessillo con lo zoccolo e lo svastica, il 20 maggio del 1921 Ungern Khan lascia Urga e penetra in territorio sovietico presso Troickosavsk (Kiakhta), travolgendo le difese bolsceviche. Quindi impartisce l’ordine apparentemente insensato di eseguire una conversione verso occidente e poi verso sud, in direzione dell’Altai e della Zungaria.  La sua intenzione, secondo quanto lui stesso dichiara al suo unico amico, il generale Boris Rjesusin, è di attraversare il Hsin Kiang per raggiungere la fortezza spirituale tibetana. “Egli – scrive Pio Filippani Ronconi – mosse solitario verso una direzione che non aveva più rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensì di ricollegarsi, prima di morire, con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo”14.

Il 21 agosto il predone calmucco Ja lama, dopo avere ospitato Ungern nella propria yurta, lo consegna ai “partigiani dello Jenisej” di  P.E. Shcetinkin. Il generale Bljucher, comandante dell’esercito rivoluzionario del popolo della repubblica dell’Estremo Oriente e futuro Maresciallo dell’URSS, cerca invano di convincerlo ad entrare nell’esercito sovietico. Il 15 settembre Ungern viene processato a Novonikolaevsk dal tribunale straordinario della Siberia. Riconosciuto colpevole di aver voluto creare uno Stato asiatico vassallo dell’Impero nipponico e di aver preparato il rovesciamento del potere sovietico per restaurare la monarchia dei Romanov, è condannato a morte per fucilazione. Dopo la morte di Ungern, l’anello con la svastica sarebbe entrato in possesso di Bljucher; in seguito alla fucilazione di quest’ultimo, avvenuta nel 1936, esso sarebbe passato nelle mani del Maresciallo Zhukov.

Va detto però che per parecchi anni circolò intorno alla morte di Ungern Khan una versione molto diversa. “Negli anni Cinquanta – scrive Sergio Canciani in Roulette russa, Castelvecchi Rx, Roma 2012, p. 160 – alcuni giornali viennesi scrissero che von Ungern, nemmeno tanto invecchiato, sarebbe stato riconosciuto da un reduce della Legione Ceca mentre beveva uno schnaps al Café Mozart, di fronte all’Albertina, sempre impettito come si addice a un ufficiale di sangue baltico-prussiano”.

Sulla fucilazione di Ungern si era mostrato incredulo già René Guénon, nella citata recensione del libro di Pozner apparsa sul numero di “Études traditionnelles” del gennaio 1938. La traduciamo qui di seguito.

Claudio Mutti

 

 

Questo libro è un racconto “romanzato”, dipinto “a tinte fosche” per via di un evidente spirito di ostilità partigiana, della movimentata carriera del barone von Ungern-Sternberg, del quale si era già trattato, d’altronde in maniera diversa, nell’opera di Ferdinand Ossendowski Bestie, uomini e dèi

La cosa davvero alquanto curiosa, è che allora l’esistenza stessa del personaggio sia stata messa in dubbio da alcuni e che la medesima cosa avvenga adesso; tuttavia egli apparteneva ad una famiglia baltica molto famosa ed imparentata con quella del conte Hermann Keyserling, una lettera del quale viene d’altronde riprodotta in questo libro.

Può non essere privo d’interesse, per coloro che avranno avuto modo di questo personaggio, rimettere le cose al loro posto e chiarire una storia che sembra essere stata confusa a bella posta. A tal fine citeremo dunque, in quanto ci sembra che ne forniscano l’idea più corretta, i passi principali di lettere scritte nel 1924 dal maggiore Antoni Alexandrovicz, un ufficiale polacco che, come comandante dell’artiglieria mongola, nel 1918-1919 era stato agli ordini diretti del barone von Ungern-Sternberg.

“Il barone Ungern era un uomo straordinario, una natura molto complicata, sia sotto il profilo psicologico sia sotto quello politico. Per renderne in maniera semplice i tratti caratteristici, li si potrebbero riassumere così: 1) era un avversario accanito del bolscevismo, nel quale vedeva un nemico dell’umanità intera e dei suoi valori spirituali; 2) disprezzava i Russi, che ai suoi occhi avevano tradito l’Intesa, avendo infranto durante la guerra il giuramento di fedeltà allo Zar, poi a due governi rivoluzionari ed avendo poi accettato il governo bolscevico; 3) non stringeva mai la mano ad un Russo, frequentava solo gli stranieri (ed anche i Polacchi, che stimava per la loro lotta contro la Russia) e tra i Russi preferiva la gente semplice agl’intellettuali, ritenendola meno corrotta; 4) era un mistico e un buddhista; accarezzava l’idea di fondare un ordine di vendetta contro la guerra; 5) aveva in mente la fondazione di un grande impero asiatico per la lotta contro la cultura materialista dell’Europa e contro la Russia sovietica; 6) era in contatto col Dalai Lama, col “Buddha vivente” e coi rappresentanti dell’Islam in Asia ed aveva il titolo di prete e di Khan mongolo; 7) era brutale e spietato come solo un asceta e un settario possono esserlo; la sua mancanza di sensibilità oltrepassava l’immaginabile e la si potrebbe trovare soltanto in un essere incorporeo dall’anima fredda come il ghiaccio, ignaro di dolore, di pietà, di gioia, di tristezza; 8 ) aveva un’intelligenza superiore edestese conoscenze; non c’era argomento su cui non fosse in grado di esprimere un parere ponderato; con uno sguardo, giudicava il valore di un uomo che incontrava… Ai primi di giugno del 1918, un lama predisse al barone Ungern che alla fine di quello stesso mese sarebbe stato ferito ed avrebbe incontrato la fine dopo che il suo esercito fosse entrato in Mongolia e che la sua gloria si sarebbe diffusa nel mondo intero. Infatti, all’alba del 28 giugno, i bolscevichi attaccarono la stazione di Dauria… e il barone fu ferito da una pallottola al fianco sinistro, al di sopra del cuore. Anche per quanto riguarda la sua morte, la predizione si è realizzata: morì nel momento in cui la gloria della sua vittoria riempiva il mondo intero”.

L’ultima frase è forse eccessiva, a giudicare dalle discussioni cui facevamo cenno all’inizio; quello che sembra certo, però, è che non venne affatto catturato dai bolscevichi e, benché ancora assai giovane, morì di morte naturale, contrariamente alla versione di Vladimir Pozner. I lettori di quest’ultimo potranno anche vedere, in base a queste indicazioni autentiche, se un personaggio di tal fatta potesse essere, come viene insinuato, un semplice agente al servizio del Giappone, o se invece, più verosimilmente, non fosse mosso da influenze di tutt’altro ordine; a tale proposito, aggiungeremo che egli non era esattamente quello che si potrebbe chiamare un “neobuddhista”, perché, secondo informazioniche abbiamo avute da un’altra fonte, l’adesione della sua famiglia al buddhismo risaliva alla terza generazione. D’altra parte, è stato recentemente segnalato che nel Castello di Ungern si sono prodotti dei fenomeni di “infestazione”; non potrebbe trattarsi di qualche manifestazione di “residui psichici” in relazione più o meno diretta con tutta questa storia?

 

 

NOTE:

1. O. Spengler, Forme della politica mondiale, Ar, Padova 1994, p. 63.
2. F. Ossendowski, Bêtes, Hommes et Dieux, Plon, Paris 1924.
3. V. Pozner, Le mors aux dents, Denoël, Paris 1937.
4. B. Krauthoff, Ich befehle. Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg, Carl Schünemann Verlag, Bremen 1938.  Questo libro, come pure quello di Pozner, rielabora i dati forniti da un testimone: Essaul Makejev, Bog voiny, Baron Ungern (Il dio della guerra, il Barone Ungern), Shangai 1926.
5. R. Guénon, Rec. in  “Études traditionnelles”, gennaio 1938; poi in: R. Guénon, Le Théosophisme, Editions Traditionnelles, Paris 1978, pp. 411-414.
6. J. Evola, Rec. in Esplorazioni e disamine. Gli scritti di “Bibliografia Fascista”, vol. I, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1994, pp. 249-253.
7. Il Barone Ungern è anche uno dei personaggi principali del romanzo di Hugo Pratt Corte Maltese. Corte Sconta detta Arcana, Einaudi, Torino 1996.
8. J. Mabire, Ungern, le dieu de la guerre, Art et Histoire d’Europe, Paris 1987.
9. R. Monteleone, Il quarantesimo orso, Gribaudo, Torino 1995.
10. L. Juzefovich, Samoderzhec pustyni (L’autocrate del deserto), Ellis luck, Moskva 1993.
11. Ungern Khan: un “eurasista in sella”? Questo il titolo che Aldo Ferrari ha dato a un paragrafo del suo studio sulle correnti eurasiatiste russe, che si conclude riconoscendo come il barone Ungern-Sternberg “sia divenuto nella cultura russa post-sovietica una sorta di personaggio totemico della rinascita eurasista, perlomeno della sua tendenza radicale ed esoterica” (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 240). Aldo Ferrari cita poi queste parole dell’esponente più noto dell’eurasiatismo russo odierno, Aleksandr Dugin: “In Ungern-chan si unirono nuovamente le forze segrete che avevano animato le forme supreme della sacralità continentale: gli echi dell’alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla Tradizione Orientale, il significato geopolitica della Mongolia, patria di Gengis Khan” (A. Dugin, Misterii Evrazii, Moskva 1996, p. 96). (Già nel 1991, con lo pseudonimo di “Leonid Ochotin”, Aleksandr Dugin aveva pubblicato sul n. 1 di “Giperboreja”, pp. 87-92, un articolo su Ungern Sternberg: Bezumny bog voiny). A paragone di questa immagine di Ungern Khan, appare alquanto infelice, perché riduttivo e banale, il titolo sotto il quale sono stati raccolti in Ungheria alcuni scritti di autori vari concernenti il personaggio in questione:  Az antikommunista. Roman Ungern-Sternberg bárórólVálogatott tanulmányok [L’anticomunista. Sul barone Roman Ungern-Sternberg. Studi scelti], Nemzetek Európája Kiadó, Budapest 2002.
12. A. v. Ungern-Sternberg, Unsere Erlebnisse in der Zeit der Bolschewiken Herrschaft in Riga vom 3. Januar bis zum 22. Mai 1919, Kommissions Verlag von Ernst Plates, Riga 1929.
13. Genealogisches Handbuch des Adels, bearbeitet unter Aufsicht des Ausschusses fur adelsrechtliche Fragen der deutschen Adelsverbande in Gemeinschaft mit dem Deutschen Adelsarchiv, Band 4 der  Gesamtreihe, Verlag von C.A. Starke, Glucksburg/Ostsee 1952, pp. 457-479. Nel 1884 apparve in Germania una pubblicazione specificamente dedicata agli Ungern-Sternberg (Nachrichten uber des Geschlecht Ungern-Sternberg), che riproduceva stemmi, insegne e firme autografe dei vari membri della famiglia.
14. P. Filippani Ronconi, Un tempo, un destino, “Vie della Tradizione”, n. 82, aprile-giugno 1991, p. 59.

L’INDIA NUOVA

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Siamo abituati a giudicare l’Asia come un continente eternamente immobile. Crediamo che il progresso, le riforme, la moda e tutti i mutamenti che avvengono giorno per giorno siano fenomeni appartenenti in maniera pressoché esclusiva al nostro mondo occidentale. È inutile mostrare l’infondatezza di queste opinioni relative all’Asia. Anche in Asia la vita cambia, la società si trasforma ed esperienze nuove modificano il modo di pensare della gente, come in ogni altro paese. Quello che differenzia nettamente l’Asia dagli altri continenti è solo una più viva e feconda comunione con la tradizione, con quel patrimonio di orientamenti e di esperienze che è stato accumulato dalla vita millenaria della razza. Il passato è più accessibile in Asia che altrove. Ma ciò non significa affatto che i paesi asiatici vivano con lo sguardo all’indietro, col pensiero rivolto alle glorie tramontate, ignorando il presente e disinteressandosi del futuro. Siccome il senso dell’eterno è più vigoroso e più totale nelle culture asiatiche, va da sé che il valore da esse attribuito alle realizzazioni effimere e alla vita limitata al presente sia molto inferiore a quello che a ciò attribuiscono gli occidentali. L’Asia ha conservato sempre un certo disprezzo per le occupazioni mondane, concentrando tutta la sua energia sulla comprensione dell’anima e sulla realizzazione della felicità eterna risultante dalla conoscenza e dalla contemplazione. Tuttavia non si può dire che la vita moderna dei paesi asiatici più famosi non sia percorsa da influenze e riforme che danno loro un aspetto di stupefacente novità.

L’India, per esempio, attraversa oggi una rivoluzione politica e sociale che la differenzia molto dall’India di trenta o quarant’anni fa. Quello che impressiona un viaggiatore europeo è proprio questo ritmo nuovo, rivoluzionario, pieno di speranze e di obiettivi che si intrecciano e si sovrappongono al vecchio ritmo di vita asiatico, lento e contemplativo, spregiatore delle riforme e cultore soltanto della tradizione.

Il movimento del Mahatma Gandhi è riuscito a elettrizzare un paese intero, grande come un continente, che comprende le razze e fedi più diverse che si possono trovare al mondo. È vero che il Mahatma Gandhi non è ancora vittorioso, ma le grandi riforme e le grandi rivoluzioni sociali non si giudicano tanto dal loro successo, quanto dalla loro fecondità. E non c’è dubbio che il movimento di Gandhi – che non è tanto politico, quanto etico e sociale – sia riuscito a dare all’India un’anima nuova, un nuovo ideale sociale, e a creare una vita civile di uno stile sconosciuto ad altri paesi. Ciò che Gandhi, un vinto, è riuscito a creare, vale molto più che non le creazioni effimere e straordinarie di tanti trionfatori moderni.

È sbagliato credere che l’India nuova sia tutta quanta attraversata da un entusiasmo nazionalista e politico. La lotta nazionale dell’India contro il giogo britannico è più una mistica, un movimento profetico e missionario, che non una lotta politica. Un giovane studente indiano ha risposto così alle mie domande sul senso e sul carattere del movimento nazionalista:

– Ma la politica, in India, non è politica. La nostra lotta per l’indipendenza, per lo swaraj, è la conclusione necessaria di tutta la nostra metafisica. Sapete qual è il principio fondamentale della metafisica e della mistica indiane: che nessuno può essere redento per il tramite di un altro, che nessuno può arrivare alla verità e alla libertà per il tramite di un altro. La nostra lotta viene vista col medesimo criterio fondamentale della nostra coscienza filosofica: come l’anima non può conseguire la liberazione, la mukti, se non col proprio sforzo, così l’India non può liberarsi se non col proprio sforzo. Non aspettiamo l’aiuto dall’esterno. Nonci può essere dato, questo aiuto. Nessuno può intervenire nel destino di un altro. Non solo non ne ha il diritto, ma nemmeno può farlo. Lo sapete dalla nostra filosofia. Allora, come ritiene l’Inghilterra di poter intervenire nel destino dell’India senza che si produca una illegittimità che abbia conseguenze fatali?

– Problemi di questo genere la Gran Bretagna non se li pone nemmeno – risposi.

– Tanto peggio per lei, perché considera il suo dominio un atto celeste.

– Ma non vi ha dato, forse, un’amministrazione migliore? – chiesi.

– Bene, ma questo non ha nulla a che fare con l’India. Noi non chiediamo un’amministrazione eccellente. Noi chiediamo un’amministrazione nostra. Sappiamo che sarà peggiore, più inefficiente, piena di difetti e di abusi. Ma sarà nostra. L’amministrazione britannica ci castra, crea in noi una coscienza di schiavi, ci rende vili. Dopo cent’anni di dominio inglese, nonostante tutti i treni, le industrie e le città moderne costruite dagli inglesi, il popolo indiano è sulla soglia della degenerazione. Il buon livello di vita non significa nulla per un popolo reso schiavo. Coloro che giudicano in altro modo, sono già schiavi.

– Ma l’India – interruppi – l’India non ha una coscienza nazionale.

– Qui da noi la questione nazionale non si pone così come da voi in Europa. Per gl’Indiani, l’India non è un paese o una nazione. Qui ci sono tante razze, tante religioni, tante caste. Un europeo vi si perde come in un caos e si domanda: qual è l’India? Ebbene, sahib, per noi l’India è la Madre. Anche il nostro grido rivoluzionario e il nostro inno nazionale cominciano con le parole “Bande Materam!”, “Inchino alla Madre!” Chiedi a qualunque povero, in qualunque angolo dell’India, che cos’è quella che lui chiama India, e lui ti risponderà: “La Madre”. La nostra lotta non è astratta nel suo principio, né limitata nelle sue rivendicazioni. La nostra lotta è una crociata per la liberazione della madre dalla schiavitù. Perciò non è una lotta politica, ma una mistica; arriviamo alla libertà, come dice il Mahatma, attraverso la purificazione, attraverso la rinuncia all’individualità, attraverso la non violenza e l’agonia. La nostra politica è un apprendistato ascetico. I nostri politici cominciano la loro carriera con una rinuncia totale alla funzione, agli averi, alla gloria, ad ogni proprietà terrena. I nostri capi sono più poveri di noi. A noi non occorrono dei geni politici, né una tattica politica. Il Mahatma non è un genio, è un santo. Egli non possiede un metodo tattico, ma ha la sincerità. Ciò è stato riconosciuto anche dai nostri avversari più accaniti. Egli è l’unico che sia riuscito a dare un ruolo centrale alla sincerità nella lotta politica.

Quello che mi ha detto lo studente bengalese può essere verificato da chiunque legga una storia più particolareggiata e sincera del movimento nazionalista indiano. In effetti, i suoi capi hanno dato per primi l’esempio della rinuncia, della sobrietà, del sacrificio totale per il destino del paese. Tutto il mondo conosce la vita ascetica del Mahatma Gandhi; dalla sua autobiografia, recentemente tradotta in diverse lingue europee, si vede a quali limiti egli abbia spinto l’austerità e la purezza della sua vita quotidiana. Non è, come potrebbe essere un capo politico europeo, un uomo dai costumi severi per le grandi occasioni. Non recita, non dirige quelle magnifiche processioni soltanto per conservare e incrementare la sua popolarità. Anche i suoi avversari si sono convinti della sua sincerità e del profondo amore per gli uomini che sta alla base della sua lotta per la liberazione dell’India. Le fonti d’ispirazione del Mahatma Gandhi sono i Vangeli e i libri scritti da Lev Tolstoj nella vecchiaia. L’esempio della sua vita ha conquistato l’India più che non i suoi discorsi. Quello che impressiona un asiatico e in particolare un indiano, non è tanto la profondità del pensiero o la bellezza dell’espressione, quanto la coerenza della vita con le parole. Questi esempi vivi hanno infiammato l’India e hanno portato nelle prigioni decine di migliaia di persone. L’India nuova è stata plasmata con l’esperienza vissuta, con la sofferenza, con l’agonia, non con le parole. Noi conosciamo pochissimi personaggi ed episodi della grande epopea dell’India contemporanea, ma il loro numero è enorme. A ingrandire e ad alimentare giorno dopo giorno il movimento nazionalista è l’esempio dei capi. I capi del movimento indiano sono i più poveri di tutti. Alcuni, come Motilal Nehru, grande oratore e giurista morto poco tempo fa, erano ricchi come maragià. La ricchezza di Motilal Nehru ammontava ad alcuni miliardi. Era padrone di un territorio esteso quanto un paese, sulla riva del Gange, mentre ad Allahabad aveva una villa che era un palazzo, dove era solito offrire banchetti con champagne e corone di fiori e ospitava i più illustri funzionari britannici. Motilal Nehru faceva una vita da miliardario europeo, si abbigliava unicamente con abiti europei e si faceva confezionare smoking e frack a Londra. Dopo avere abbracciato le idee di Gandhi, rinunciò alla vita lussuosa e stravagante e, come un qualunque contadino, indossò l’abito bianco di canapa tessuto per lui da sua moglie; fece dono di tutti i suoi averi al Congresso Nazionalista Indiano e trasformò la villa di Allahabad in quartier generale del Congresso. Suo figlio Jawaharlal Nehru, al quale si rivolgono oggi tutte le speranze dell’India nel caso di un fallimento del piano gandhiano, conduce la medesima vita austera e disinteressata; viaggia in tutti i paesi per studiarne gli usi e i sistemi sociali, ma viaggia sempre in terza classe e mangia nelle trattorie meno costose, come l’ultimo studente.

Questi esempi costituiscono l’asse dell’India nuova. Intorno ad essi vengono tessuti i nuovi ideali, vengono canalizzate tutte le energie giovani, si radunano tutte le speranze di un popolo di diverse centinaia di milioni. La propaganda nazionalista ha luogo attraverso gli esempi, mai con la violenza. Il boicottaggio delle merci inglesi è una tattica meravigliosa. In pochi anni, le industrie inglesi di Manchester hanno perduto somme enormi, a causa del boicottaggio indiano. Mi viene in mente un fatto impressionante, a proposito di questo boicottaggio. Il Mahatma Gandhi, osservando quanti milioni vanno quotidianamente in fumo con l’acquisto delle sigarette e considerando che questo vizio costoso è allo stesso tempo nocivo alla salute, ha chiesto all’India di rinunciare al fumo; quelli che non sono in grado di astenersene, fumino solo tabacco indigeno. Gli indiani sono un popolo di fumatori, come tutti gli orientali. Tuttavia, il giorno successivo all’articolo di Gandhi, in una città grande come è Calcutta, non si poteva più vedere un solo indiano con la sigaretta in bocca. Intanto, a casa, le donne hanno compiuto l’opera, non con la violenza, ma dichiarando lo sciopero della fame finché mariti, fratelli e figli non avessero rinunciato definitivamente al fumo. Alcuni giorni dopo, le fabbriche inglesi di sigarette cominciarono a licenziare i loro dipendenti. Nelle prime settimane, le perdite toccarono un quarto di milione al giorno… Questo potere dell’azione e dell’esempio lo si avverte in tutti i settori della nuova India che sta nascendo. Le sofferenze e le delusioni attuali non frenano l’entusiasmo degli indiani, non li stancano, non li deprimono. Gli indiani, il popolo che più di tutti ha sofferto dopo la guerra, è l’unico popolo che non si lamenta. Ha una sorta di orgoglio virile della sofferenza, che potrebbe servire da esempio anche per altri paesi che si lamentano continuamente della crisi e del disastro.

Questo entusiasmo, questa gioia del sacrificio, il disprezzo della sofferenza fisica e la serenità nella sofferenza morale costituiscono la sostanza stessa del pensiero di molti filosofi indiani contemporanei ed alimentano incessantemente la fonte della loro ispirazione e della loro creazione. Rabindranath Tagore mi diceva una volta, sulla terrazza della sua villa di Shantiniketan, che ciò che più lo addolora nell’Europa attuale è la sofferenza e l’ignoranza dei lavoratori. “Il vostro lavoro sembra una maledizione – mi diceva. – Il nostro lavoro è gioia, è libertà, è gioco, ossia creazione. In Europa, il lavoro attanaglia e procura dolore. Voi credete che la verità sia sempre solenne e che la gioia sia frivola. Ma l’India vi può insegnare qualcos’altro: che il primo e ultimo dovere è la realizzazione di sé e che questo è gioia, danza ed estasi”.

Senza dubbio, Tagore esprime un’intuizione poetica. Nondimeno, nell’India moderna si trova dappertutto questa gioia del sacrificio di sé, del lavoro, della sofferenza. Forse la più grande lezione che l’India potrebbe darci consiste proprio in questa fierezza nella sofferenza e nella sventura, in questo immenso valore che essa accorda all’azione e alla realizzazione.

 

 

 

Testo di una conferenza tenuta a Radio Bucarest il 19 aprile 1933 (Traduzione dal romeno di Claudio Mutti).

 

I “MERCATI” E LA “QUESTIONE TEDESCA”

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Mentre la quasi totalità delle gazzette della classe dominante italiana (e non solo italiana) sono impegnate a sferrare attacchi durissimi al Cavaliere, reo di aver fatto cadere il governo tecnico imposto al nostro Paese dalla Bce, anche in Italia, come in Grecia, si sta diffondendo un forte sentimento antitedesco (e non solo tra i sostenitori della Lega e del Pdl). Tutto ciò ha spinto il ministro degli Esteri della Germania, Guido Westerwelle, a dire che non tollererà che il suo Paese «diventi oggetto di una campagna populista». E la stessa Merkel, smentendo proprio Westerwelle che aveva però precisato che la Germania non ha alcuna intenzione di intromettersi nelle prossime elezioni italiane, ha dichiarato esplicitamente di sostenere Mario Monti e di essere convinta che «gli italiani voteranno in modo tale da garantire che l’Italia resti sul cammino giusto». (1) Parole che avranno probabilmente solo l’effetto di rafforzare il “fronte antitedesco”.

In ogni caso, è indubbio che affermare che né la Germania né l’Europa sono in alcun modo responsabili delle attuali difficoltà del nostro Paese, significa negare l’evidenza, indipendentemente dai tradizionali e gravi difetti del sistema sociale ed economico italiano, che hanno naturalmente ampliato gli effetti negativi della crisi finanziaria del 2008 e favorito ogni sorta di speculazione a danno dell’Italia. Non si può infatti dimenticare che il governo tecnico voluto dalla Unione Europea (un governo, si badi bene, del tutto sottomesso alle scelte geopolitiche di Washington) ha fatto macelleria sociale, “tagliando” scuola, pensioni e sanità, e spinto l’Italia nel baratro della recessione, della deindustrializzazione e dell’impoverimento dei ceti medi e popolari, con il consenso di una sinistra che, avendo rinnegato tutti i propri principi ispiratori, è la maggiore responsabile della nuova “discesa in campo” del Cavaliere.

Né è irrilevante che alla fine del mese di luglio del 2011, allorché lo spread cominciava a essere un problema per l’Italia, il Financial Times abbia rivelato che la Deutsche Bank aveva ridotto di 7 miliardi di euro il suo investimento in titoli pubblici italiani, promuovendo la speculazione internazionale contro il nostro debito pubblico. Un comportamento che indusse Prodi ad affermare: «E’ la dimostrazione di una mancanza di solidarietà che porta al suicidio anche per la Germania. Significa la fine di ogni legame di solidarietà e significa obbligare tutti a giocare in difesa». (2) E si deve pure tener conto che è proprio questa banca tedesca ad aver messo l’accento sulla necessità di “mettere sul mercato” il nostro patrimonio pubblico, compreso quel che rimane del nostro settore strategico. (3)

Il che, in verità, non sorprende più di tanto, dato che anche la Germania trasse profitto dalla nota operazione di svendita di gran parte delle nostre imprese strategiche all’inizio degli anni Novanta (anni in cui – e lo si tenga sempre ben presente – su consiglio di Ciampi, Amato e Draghi si internazionalizzò il nostro debito pubblico, ossia si consegnò lo Stato italiano nelle mani dei “mercati”). Anche allora le banche internazionali prima colpirono il nostro Paese, con l’attacco alla lira, e poi si offrirono di soccorrerlo «con la ben remunerata assistenza, prestata alla vendita delle partecipazioni statali e alla gestione di una larga parte del risparmio italiano». (4) Decisivo però anche allora fu il contesto geopolitico mondiale, del tutto cambiato dopo il crollo del Muro del  Berlino e la fine dell’Unione Sovietica.

Perciò, è logico che non ci si debba limitare ad esaminare la “reazione” della Germania alla crisi di Eurolandia, ma è necessario prendere in considerazione l’azione strategica dei gruppi che controllano i “mercati” (come la Goldman Sachs e le agenzie di rating) che svolgono un ruolo di fondamentale importanza nella ridefinizione degli equilibri politici ed economici del mondo occidentale. Vale a dire che è necessario prendere in esame “la questione tedesca” al di là degli aspetti contingenti che pure caratterizzano il comportamento dei “mercati”, ma che non possono non essere, per così dire, se non “fenomeni di superficie”, non fosse altro perché presuppongono un sistema di potere che garantisca ai capitali la massima libertà di movimento. Un sistema che non a caso è ancora imperniato sull’egemonia del petrodollaro. Ovverosia su quella supremazia geopolitica degli Stati Uniti che la riunificazione della Germania avvenuta nel 1990, cioè solo un anno dopo la caduta del Muro, avrebbe potuto mettere in discussione, giacché con il crollo dell’Unione Sovietica si era anche venuta a creare una situazione che avrebbe potuto permettere all’Europa di far leva proprio su una forte Germania per sganciarsi, sia pure gradualmente e con la “giusta prudenza”, dagli Stati Uniti.

Invece, com’è noto, l’europeismo degli anni Novanta, anche se apparentemente mirava a consolidare le istituzioni della comunità europea, servì perlopiù a mascherare una politica che aveva di mira non solo il rafforzamento della Nato, che non aveva più ragion d’essere dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, ma anche la costruzione di una Unione Europea atlantista, di modo da poter saldare definitivamente la “Grande Germania” all’Atlantico. In questo senso, la stessa introduzione dell’”europanzer” fu il prezzo che i Paesi europei furono disposti a pagare pur di cercare di risolvere la ”questione tedesca”, che dopo la fine della Seconda guerra mondiale si riproponeva in forme indubbiamente diverse, ma incutendo ancora timore nei “circoli atlantisti”. Un timore destinato ad aumentare negli anni seguenti, allorché la Russia apparve nuovamente sulla scena geopolitica mondiale da protagonista. Né la Germania contrastò in alcun modo questa politica, preoccupandosi soltanto di crescere economicamente. Anzi, essendo riuscita a risolvere il non facile problema della riunificazione, ha cercato di trarre il massimo profitto dalla fine dell’unipolarismo statunitense anche a spese dei membri più deboli e meno “efficienti” dell’Unione Europea.

Certamente non è solo l’ “europanzer” che ha consentito alla Germania di aver un enorme attivo della bilancia commerciale, ma anche la nota efficienza e solidità dell’apparato produttivo tedesco. E tuttavia come sostiene Luciano Gallino si tratta di una efficienza e di una solidità pagate assai caramente dai ceti meno abbienti. La Germania, contrariamente a quanto si è soliti immaginare, con un indice di diseguaglianza economica astronomico, è «un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della della metà del salario mediano». (5). E questo aiuta a spiegare per quale motivo molti tedeschi non siano affatto entusiasti dell’euro, ma addirittura siano convinti di non aver ricevuto alcun vantaggio dalla moneta unica, nonostante che le cifre dimostrino l’opposto, e di conseguenza ritengano che sarebbe preferibile tornare al marco. (6).

Ciononostante, la logica mercantilista difesa dalla Germania e dalle autorità della Unione Europea si è imposta a tutta l’Eurozona come l’unica possibile. Una logica che si fonda in primo luogo sul fatto che la Germania è al tempo stesso una grande potenza geoeconomica ed un nano geopolitico. Si tratta di una “anomalia” che, in un certo senso, è causa ed effetto della debolezza politica della stessa Unione Europea, dato che quest’ultima non è un vero soggetto geopolitico, pur essendo, almeno “sulla carta”, anch’essa una potenza geoeconomica. Ed è questa differenza tra potenza politica e potenza economica che non solo facilita la speculazione internazionale, ma che rende possibile ai “mercati” (ossia agli “strateghi del capitale”) di fare una pressione fortissima sull’Eurozona perché la Germania intervenga a garanzia dei debiti sovrani dei Paesi europei e “diluisca” la propria potenza economica nel “mercato globale”, anziché usarla per togliere l’Europa dalla morsa dei “mercati” e trasformarla in un autentico  polo geopolitico.

In questo senso, i “mercati” sembrano avere, come si suol dire, il coltello dalla parte del manico: se la politica di rigore continua, si alimenterà la speculazione finanziaria, anziché gli investimenti produttivi, rendendo sempre più difficile una ripresa dell’economia reale dell’Eurozona, di modo che non si potrà impedire che la recessione riguardi la stessa Germania, indebolendola e rendendola più vulnerabile alle decisioni dei “mercati”. Sicché, non è strano che vi sia chi sostiene che vi è una sola strada da percorrere, stretta ma obbligata, per uscire dalla crisi. Prima o poi cioè la Germania dovrà prendere atto che il rigore eccessivo contraddice i suoi obiettivi: fa salire il debito greco invece di farlo scendere e fa arrivare la recessione anche in Germania. (7) Analisi però, quest’ultima, in un certo senso semplicistica, al punto da ritenere possibile che sotto la spinta dei “mercati” la Germania non abbandonerà la linea del rigore, ma potrà contribuire a far carburare una crescita sostenibile e stimolare gli investimenti – come se i diversi attori geopolitici e i diversi soggetti sociali avessero tutti gli stessi interessi e la logica del capitalismo finanziario coincidesse “im-mediatamente” con quella dell’economia reale. E’ molto più probabile invece che una soluzione di compromesso come questa equivalga ad aggirare l’ostacolo, senza risolvere né la “questione tedesca” né quella di un’Europa priva di reale sovranità politica, militare e monetaria.

Sotto questo profilo, è non si può dare a torto a quegli studiosi come Luciano Gallino o Stefano Sylos Labini che mettono l’accento sulla necessità di una radicale riforma del sistema finanziario internazionale se si vuole salvare l’economia reale, dato che i “mercati”, con le liberalizzazioni volute dalla Thatcher e da Reagan, possono con facilità «innescare dei processi cumulativi che si autoalimentano» e ovviamente, allorché c’è crisi, hanno tutto l’interesse a spingere l’economia verso la recessione. (8) D’altra parte, benché importante, non è decisivo rendersi conto che è indispensabile trasformare la Bce in una vera Banca centrale e federare il debito degli Stati dell’Eurozona, poiché è indiscutibile che una drastica riduzione del debito pubblico da qui ai prossimi venti anni, come concordato con la Germania e con le autorità dell’Unione europea, farebbe perdere agli Stati europei «qualunque autonomia sulle politiche di bilancio compromettendo la possibilità di attuare politiche economiche espansive». (9) Decisivo è piuttosto rendersi conto che il “nodo” da sciogliere non è solo economico ma anche e soprattutto geopolitico.

Se si sostiene che occorre una nuova Bretton Woods, nel segno di Keynes e si afferma esplicitamente che una nuova Bretton Woods non sarebbe una riforma ma addirittura una rivoluzione (10), come non vedere le conseguenze geopolitiche di questa affermazione? Del resto,  non è un caso che, dopo la crisi del 1929 e il fallimento, nel 1931, della Creditanstalt (una banca austriaca, fondata dai Rothschild), che originò il tracollo del sistema finanziario internazionale, sia stata necessaria una guerra mondiale per giungere agli accordi di Bretton Woods, nel luglio del 1944. E non si può nemmeno negare che se oggi l’Europa si trova nella morsa dei “mercati” ciò dipende da precise scelte strategiche. Insomma, se ci si concentra solo sulla Germania, considerandola l’unica responsabile della crisi di Eurolandia, si privilegia solo una prospettiva economicistica – che, tra l’altro, è la prospettiva che condiziona negativamente la stessa Germania. Una prospettiva che non permette di individuare nella “volontà di potenza”atlantista, che articola la logica mercantilistica, il vero nemico dell’Europa. Una volontà che purtroppo ha salde radici su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ecco perché, anche ammesso e non concesso che la Germania possa accettare, magari riservandosi un sorta di diritto di veto, che la Bce diventi “prestatore di ultima istanza” e correre così il rischio di far aumentare l’inflazione e di indebolire l’euro rispetto al dollaro, si rischierebbe di attribuire maggiore potere proprio a quelle autorità dell’Unione Europea che sono custodi dell’ortodossia atlantista e al servizio di quelle “gruppi di potere che controllano gli stessi “mercati”.

Scommettere su un’Europa politica e soprattutto su una Difesa europea, creando quattro dipartimenti centrali: Affari esteri, Tesoro, Difesa e Giustizia (11), quindi non significherebbe automaticamente risolvere la “questione tedesca”, rendendo il continente europeo indipendente dalla politica d’Oltreoceano e liberando risorse per lo sviluppo. In altre parole, non ci si può illudere di far fronte alla pre-potenza dei “mercati”, ridisegnando l’architettura istituzionale della Unione Europea, se non si è disposti a mutare l’orientamento geopolitico del continente europeo, benché si debba riconoscere che la creazione di una forte struttura politica europea potrebbe essere usata per mettere fine alla sovranità dei “mercati”(naturalmente anche sfruttando il fatto che vi sono più centri di potere in lotta tra di loro). Comunque sia, se è innegabile che senza una forte Germania, è impossibile che l’Europa non sia governata, direttamente o indirettamente, dai “mercati”, è pure vero che, senza un’Europa politicamente forte, è impossibile che la Germania, prima o poi, non si imbatta nei propri limiti. Epperò l’assenza di iniziativa strategica e geopolitica di una Germania che punta tutto sulla sua potenza economica, a spese di altri Paesi membri dell’Eurozona, unita all’aggressività di “mercati sovrani”, non può che rafforzare gli interessi, politici ed economici, dell’oligarchia atlantista a scapito di quelli della maggior parte dei cittadini europei, tedeschi compresi. Di conseguenza, pare ovvio che i “mercati” avrebbero tutto da guadagnare da una soluzione di compromesso, profittando anche della mancanza in Europa di vere forze politiche antagoniste, nonché del nuovo corso atlantista e neocolonialista della Francia. In tal caso però, anziché aspettarsi di uscire dalla crisi, si dovrebbe essere consapevoli che con ogni probabilità la crisi dell’Eurozona si aggraverebbe ulteriormente e diventerebbe sempre più complicato “governarla”. D’altronde, sono già parecchi i segni che indicano che il panorama europeo il prossimo anno sarà caratterizzato da conflitti sociali e reazioni “populiste” che non sarà facile “istituzionalizzare”.

Sarebbe tuttavia ingenuo credere che le potenze emergenti (in particolare il gigante cinese) e i nuovi attori geopolitici, come i Brics, la Sco e l’Unione Eurasiatica, non siano in grado di incidere profondamente sugli attuali equilibri internazionali, già fortemente alterati a causa del declino relativo degli Stati Uniti. A questo proposito, è invece significativo che proprio la Germania sia lo Stato europeo che più ha saputo sfruttare questo mutamento della scena mondiale. Non è affatto assurdo dunque ritenere che la “chiave” per risolvere la ”questione tedesca” e quella di un’Europa nella morsa dei “mercati” (due questioni che non sono che due facce di un’unica medaglia) vada ricercata prendendo in considerazione non solo le esigenze del mondo occidentale, ma anche la necessità di ristrutturare l’attuale sistema finanziario internazionale (debiti sovrani ed euro inclusi) alla luce di un paradigma geopolitico multipolare. E’ evidente, del resto, che perfino una nuova Bretton Woods, se non tenesse conto dei mutamenti del sistema geopolitico globale, sarebbe certamente destinata a fallire.

 

1.http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1OT6L4

2.http://www.corriere.it/economia/11_luglio_28/prodi-deutsche-bank_02a8aac8-b914-11e0-a8dd-ced22f738d7a.shtml?fr=correlati

3.http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/19/la-deutsche-bank-e-il-piano-di-dismissioni-per-i-governi-ue/267410/

4.http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_29/mucchetti_d6d4bd28-b9a0-11e0-9ceb-ac21c519f82b.shtml

5.http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/9205-la-mano-visibile-del-mercato-intervista-a-luciano-gallino.html

6.http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-11-17/germania-favorita-euro-215540.shtml?uuid=AaaaQSME

7.http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-11/strada-stretta-obbligata-italia-063526.shtml?uuid=AbbG0vAH

8.http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2012/09/getPDFarticolo.pdf

9.http://temi.repubblica.it/micromega-online/europa-unita-contro-il-fiscal-compact/?printpage=undefined

10.Vedi nota 8.

11.Vedi nota 9.

DA GENGIS KHAN ALL’IDEOCRAZIA. LA VISIONE EURASIATICA DI NICOLAJ TRUBECKOJ

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Il principe Nikolaj Trubeckoj (1890, Mosca), ampiamente conosciuto come il fondatore della fonologia e considerato, insieme con Roman Jacobson, uno dei padri della svolta linguistica e “dello strutturalismo”, morì nel 1938 a Vienna, dove aveva tenuto la cattedra universitaria di lingue slave. (Poco prima del suo decesso era stato rimosso dall’incarico dai nuovi governanti nazionalsocialisti della “Ostmark“). L’Accademia austriaca delle Scienze si ritiene perciò una sorta di amministratrice della sua eredità intellettuale. Non era però stata finora manifestata l’intenzione di pubblicare, oltre ai suoi lavori di linguistica, anche gli Scritti scelti sulla scienza della civiltà (1), che presentano Trubeckoj come fondatore del movimento eurasiatista.

Tale passo sarà stato certamente incoraggiato dall’attualità del termine Eurasia. Gli scritti ci indicano, tuttavia, che i sostenitori di un asse Parigi-Berlino-Mosca (in senso stretto una formula per occidentalismo russo) o di un impero grande-russo possono fare appello a Trubeckoj soltanto in misura molto limitata. Dal volume, inoltre, possono trarre profitto lettori interessati alla storia delle idee, anche se non eurasiatisti, perché i contributi di Trubeckoj sono rilevanti per la comprensione del rapporto generale che intercorre tra fra nazionalismo e universalismo e rivestono un certo interesse per via delle sue vedute notevolmente originali sulla storia russa, vedute scientificamente fondate – naturalmente prima di tutto sulla filologia comparativa – ma anche esposte con uno stile coinvolgente.

Il volume contiene le note, un indice e una bibliografia, nonché un testo intitolato dal curatore La visione eurasiatista di Nikolaj Trubeckoj: retroterra ed effetto; ma la cosa più importante sono i quattro testi di Trubeckoj: L’Europa e l’umanità (1920), L’eredità di Gengis Khan (1925), Sul problema dell’autocoscienza russa (1921-1927) e L’ideocrazia come ordine della società del futuro secondo la dottrina degli eurasiatisti (1927/34).

 

 

L’infezione occidentale della Russia

L’Europa e l’umanità, pubblicato in traduzione tedesca già nel 1922, consiste in un’ampia  riflessione sul corretto rapporto fra un nazionalismo (positivo) e le due posizioni estremiste dello sciovinismo e del cosmopolitismo.  Ma successivamente Trubeckoj dimostra che il cosiddetto cosmopolitismo non è se non un’altra forma di sciovinismo, lo sciovinismo della civiltà occidentale, che – in maniera alquanto infelice – Trubeckoj chiama la civiltà dei “Romano-Germani”. Come gli sciovinisti non possono accettare di vedere la propria nazione allo stesso livello delle altre, ma devono elevarla al rango dell’unica nazione accettabile, per cui la loro cultura nazionale deve essere imposta a tutte le altre, così i cosmopoliti si comportano esattamente allo stesso modo con la loro civiltà occidentale, che è emersa con l’Illuminismo e la secolarizzazione. La missione civilizzatrice dell’Occidente, che oggi manifesta il suo imperialismo culturale nei confronti del mondo arabo e islamico e pretende l’accettazione dei valori “universali” occidentali, è efficacemente delineata da Trubeckoj ed è smascherata nella sua insostenibilità logica. Oggi, quando il cosmopolitismo e lo sciovinismo americano ci si rivelano come un’unica realtà e adottano le forme occidentali del cristianesimo – il protestantesimo e il cattolicesimo riformato/deformato – per i loro programmi di aggressione, l’analisi di Trubeckoj viene confermata in maniera inequivocabile, anche se, ovviamente, Trubeckoj non parlava di americanizzazione ma di europeizzazione. In effetti l’America è soltanto la conseguenza estrema di quell’aspetto antitradizionale dell’Europa che si è andato delineando dal Rinascimento, dalla Riforma, dalla Rivoluzione.

L’occidentalizzazione, chiamata da Trubeckoj europeizzazione, è “un male assoluto per ogni popolo non romano-germanico”, un male contro cui “si può e quindi si deve lottare con tutte le forze. Tutto questo deve essere compreso non esteriormente, ma interiormente; non solo compreso, ma sentito, vissuto, sofferto. Bisogna che la verità appaia in tutta la sua nudità, senza orpelli, senza residui del grande inganno, dal quale deve essere ripulita. Bisogna che sia resa chiara ed evidente l’impossibilità di qualsiasi compromesso: se la lotta è inevitabile, essa deve essere combattuta fino in fondo” (p.88). Una caratteristica essenziale degli scritti di Trubeckoj è che egli è solito fare riferimento, come fondamento più profondo, non alla cultura, all’economia o alla politica, ma alla psicologia – o alla personalità. Inoltre per lui deve avvenire “un rivolgimento totale, una rivoluzione nella psicologia dei popoli non romano-germanici. L’essenza di questo rivolgimento è la consapevolezza della relatività di ciò che prima sembrava assoluto, cioè dei ‘vantaggi della civiltà europea’. Ciò deve essere cancellato con un impietoso radicalismo. Forse è difficile, estremamente difficile, ma è anche assolutamente necessario.” (p. 88)

“È necessario liberare i popoli del mondo dall’ipnosi dei ‘vantaggi della civiltà’ e riscattarli dalla schiavitù spirituale. Questo compito può essere eseguito solo da una cooperazione unanime. Non bisogna neppure per un istante perdere di vista l’essenza del problema. Non bisogna lasciarsi distrarre da un nazionalismo particolare o da soluzioni parziali come il panslavismo, il panturanismo e tutti gli altri panismi. Questi particolarismi non fanno che oscurare la sostanza del problema. Bisogna ricordare sempre e fermamente che la contrapposizione degli Slavi ai Germani o dei Turanici agli Ariani non dà una vera soluzione del problema. La vera contrapposizione è una sola: i Romano-Germani e tutti gli altri popoli del mondo, l’Europa e l’umanità” (p. 89).

Con queste parole termina “L’Europa e l’umanità“. Ora, non sarà mai abbastanza evidenziato quello che gli scritti di Trubeckoj mostrano chiaramente, ossia che ad essere evocata è la lotta contro l’Europa dell’Illuminismo e dell’imperialismo, nient’altro che la rivolta contro il mondo moderno. Un “raddrizzamento” in senso tradizionale dell’Europa, la quale non rappresenterebbe più la grande anomalia dell’umanità, porrebbe termine all’opposizione evocata più sopra; quando l’Europa si riconoscerà per quello che essa è in realtà, ossia una penisola del grande continente eurasiatico, allora non rappresenterà più la grande anomalia dell’umanità. La lotta per un recupero della tradizione in Europa non può essere combattuta nei termini di un “nazionalismo particolare” o di qualche sorta di “panismo”, ma soltanto insieme col resto dell’Eurasia, contro l’Occidente.

Secondo Trubeckoj, la Russia riconobbe pienamente il pericolo che l’Occidente rappresentava per essa, ma ne trasse la fatale conclusione che, per respingerlo, doveva prima conseguire alcuni successi. “La situazione era complessa e difficile: da una parte bisognava pur imparare qualcosa per difendersi; dall’altra c’era il timore di cadere nella dipendenza culturale e psicologica nei confronti dell’Europa. Siccome i popoli dell’Europa, pur professandosi cristiani, non aderivano all’Ortodossia, (…) lo spirito europeo è stato percepito dai Russi come qualcosa di eretico, peccaminoso, anticristiano e satanico. Il rischio di essere contaminati da una tale mentalità era particolarmente elevato. Gli Zar moscoviti erano consapevoli della complessità della situazione e non esitarono a cominciare ad acquisire le abilità tecniche. (…) Prima o poi dovettero decidersi ad acquisire sul serio le tecnologie europee, prendendo nel contempo misure severe onde evitare l’infezione occidentale. Fu Pietro I a prendere la decisione di adottare la tecnologia europea. Sennonché, egli si fece trasportare a tal punto dalla sua stessa iniziativa, che essa divenne per lui un fine a sé stante, senza che venissero prese contromisure efficaci contro l’infezione spirituale occidentale” (p. 124). Così con Pietro I iniziò il processo di europeizzazione della Russia, che produsse conseguenze molto più gravi di un’occupazione militare: la perdita della missione e dell’eredità storica, l’“eredità di Gengis Khan”. Ed è questo è il titolo dell’opera che abbiamo iniziato ad esaminare.

Dopo aver descritto il processo di europeizzazione condotto da Pietro I, conosciuto in Occidente come “il Grande”, dall’abolizione del patriarcato di Mosca fino all’introduzione, nel vestiario femminile, del decolleté, egli così riassume: “È pur vero che il grande piano di Pietro fu motivato dal suo patriottismo, ma ciò non toglie che si trattasse di un patriottismo affatto particolare, privo di precedenti radicati nell’anima della nazione. Egli non si curò per nulla di quella che era l’autentica Russia storica, preso come era dal suo sogno di creare un paese che fosse simile sotto ogni rispetto agli altri stati europei, ma che li superasse sia in estensione territoriale sia in potenza militare e navale. Il suo atteggiamento, nei confronti di quello che per lui era un puro e semplice materiale con cui plasmare la sua immane creatura, era improntato non ad amore, bensì a mera ostilità, giacché contro tale materiale dovette combattere una guerra ostinata ed interminabile, in ragione della resistenza opposta ai suoi sforzi di imporle lo stampo di un ideale ad essa del tutto estraneo” (p. 127).

L’adozione dei modelli nazionalistici occidentali da parte dei successivi regimi zaristi panslavisti portò la Russia ad ingarbugliarsi di continuo nelle questioni europee, a causa dell’aiuto che essa intendeva portare ai presunti “fratelli slavi”. Il “potere sovietico” insediatosi nel 1917 non si presentò “come un antagonista, ma come un continuatore di tutta la politica antinazionale di europeizzazione caratteristica della monarchia post-petrina” (p.142). “Con la distruzione dei fondamenti spirituali della vita russa e della specificità nazionale, con l’introduzione di quella concezione materialistica del mondo che già si era imposta in Europa e in America, col sottoporre la Russia a concezioni partorite da teorici europei e radicate nel suolo della civilizzazione occidentale, il potere comunista ha fatto della Russia una provincia dell’Occidente, riconfermando quella conquista di Pietro I aveva gettato le basi” (p. 143).

 

 

La nobiltà dei nomadi

Ma qual è il fondamento della vera Russia-Eurasia? La Russia-Eurasia è in primo luogo, per Trubeckoj, “l’eredità di Gengis Khan”. Le tribù slave “hanno abitato soltanto su una parte poco importante del grande territorio che include l’odierna Russia” (p. 195). La maggior parte è stata colonizzata infatti dalle tribù turaniche (dette anche “uralo-altaiche”). Queste tribù nomadi avevano una struttura politica limitata. Soltanto Gengis Khan fu capace di edificare, per primo,  a partire “dal sistema eurasiatico della steppa, uno stato nomade unificato con una organizzazione militare stabile”. Egli riuscì “a risolvere il problema storico, posto dalla stessa natura eurasiatica – il problema di una unificazione politica di tutto questo continente. Egli affrontò il problema nell’unico modo possibile: unificando la steppa sotto il suo potere e quindi unificando il resto dell’Eurasia attraverso la steppa” (p. 96). Per gli stati asiatici già esistenti, come la Persia e la Cina, ciò fu un vero disastro: “la conseguenza di tutto ciò fu che l’Eurasia trasse innegabili benefici da un simile processo, che però fu assai dannoso per altri paesi, giacché la conquista mongola irruppe nella loro esistenza storica privandoli dell’indipendenza ed interrompendone per lungo tempo lo sviluppo culturale (…). Sebbene in apparenza Gengis Khan attribuisse un’importanza maggiore alla conquista della Cina e del resto dell’Asia propriamente detta, ciò non toglie che egli abbia assolto una preziosa missione storica soltanto in Eurasia, emergendovi come il costruttore di un valido edificio storico” (p. 97).

Nel suo libro L’eredità di Gengis Khan, che recentemente è stato pubblicato anche in un’edizione italiana (2), Trubeckoj si prova a ricostruire la storia di questa “edificazione”. È una prospettiva storica eccitante, delineata a caratteri cubitali, alla quale è collegato, quale complemento linguistico ed etno-psicologico, il suo studio “Sul problema dell’autocoscienza russa”. I popoli mongoli e turchi vengono qui caratterizzati per il loro amore per la simmetria, la chiarezza, la stabilità e l’equilibrio. Comunque essi intendono queste qualità come date, e non come fini da raggiungere: “Cercare e trovare questi schemi originali e fondamentali, su cui deve essere basata la vita e la visione del mondo, è sempre associato dai popoli turchi ad un forte sentimento di mancanza di chiarezza e di stabilità. Per tale ragione i popoli turchi hanno sempre gradito adottare schemi e credenze straniere. Ma non tutte le concezioni del mondo straniere sono accettabili per i turchi. Per essere accettabile, una concezione del mondo deve possedere i requisiti di chiarezza e semplicità (…). Un credo religioso, che sia penetrato nell’ambiente turco, si irrigidisce e si cristallizza inevitabilmente, perché là esso ha la vocazione a giocare il ruolo dell’irremovibile centro di gravità, la condizione principale per un equilibrio stabile” (p. 206). Per la maggior parte dei popoli turchi, l’Islam è diventato un credo che, presso di loro, ha assunto una certa “cristallizzazione”; combatterla è vano, quantunque i padroni del Cremlino – con i loro modi rigidi – abbiano cercato di farlo da qualche secolo. Fu in maniera analoga che i Mongoli adottarono il Buddhismo.

In genere Trubeckoj valuta positivamente il contributo del “tipo psicologico turanico”: “La psiche turanica garantisce la stabilità culturale e la forza di una nazione, rafforza la continuità storico-culturale e in genere crea le condizioni favorevoli per un uso parsimonioso delle risorse nazionali” (pp. 212–213). Per Trubeckoj la psicologia è anche la chiave per comprendere il sistema statale di Gengis Khan. Secondo Trubeckoj, egli distingueva due tipi di uomini. Da una parte il tipo slavo, attento soltanto ai propri vantaggi materiali, per i quali è anche capace di tradire. Si tratta di un tipo umano che Gengis Khan ha talvolta utilizzato, ma fondamentalmente lo ha sempre disprezzato e non gli ha lasciato spazio nel suo Impero. Gli uomini appartenenti alla seconda categoria sono quelli che “pongono l’onore e la dignità personale al di sopra della comodità e della sicurezza” (p. 99).

Nel corso della realizzazione della sua idea d’impero, egli ebbe la prova che il primo tipo si trovava presso le popolazioni sedentarie, mentre “il nomade, non incline al lavoro fisico, attribuisce un valore alquanto limitato alle comodità materiali, ed è avvezzo a contenere i suoi bisogni senza considerare particolarmente onerose queste privazioni.” (p. 101). Oltre alle alte virtù militari e alla dote della fedeltà agli accordi, ai nomadi appartengono anche altre qualità che Trubeckoj presenta nelle sue pagine; tra queste, “le tradizioni del clan, il vivo senso dell’onore personale e familiare, la consapevolezza della responsabilità nei confronti non solo degli antenati, ma anche dei discendenti” (ibidem). Trubeckoj dipinge un quadro idealizzato dei nomadi, che richiama quello descritto dall’autore tradizionalista Titus Burckhardt: “È stato dimostrato che nessun’altra collettività umana è più conservatrice di quella dei nomadi. Nel suo costante viaggiare, il nomade è attento a preservare l’eredità della lingua e dei costumi; egli resiste coscientemente all’erosione del tempo, poiché essere conservatore non significa essere passivo. Questa è una caratteristica fondamentalmente aristocratica, sicché il nomade somiglia al nobile; più esattamente, la nobiltà della casta guerriera ha molto in comune con il nomade” (3).

 

 

Zar e Slavi

La nobiltà guerriera di Gengis Khan praticò anche la tolleranza religiosa, ma non l’indifferenza all’Assoluto: “l’assunzione da parte dei suoi sudditi di una qualche religione era per lui della massima importanza. Per tale motivo, egli non solo tollerava le religioni nel suo stato, ma le sosteneva tutte con vigore” (p. 103). Il “giogo tataro” produsse un effetto religioso positivo anche per i Russi: “Il più importante e fondamentale sintomo di questo periodo fu una eccezionale elevazione della vita religiosa. (…) In questo periodo si può registrare una vivace attività creativa in tutti i campi dell’arte religiosa: la pittura delle icone, la musica sacra e la letteratura religiosa raggiunsero un livello notevole” (p. 105). Lo stato russo finalmente liberato che emerse dal “giogo tataro” è visto da Trubeckoj non come un contro-progetto, ma come “l’erede e il successore dello stato di Gengis Khan” (p. 118); nell’espansione dell’Ortodossia egli vede un rivolo di quella corrente religiosa che era già iniziata sotto il “giogo tartaro”. “Il fondamento di tutto è stato costruito dalla religione, dalla ‘fede ortodossa’, ma la ‘fede’ era per la coscienza russa non un conglomerato di dogmi astratti, bensì un coerente sistema di vita concreta. La fede russa e la vita russa non erano separate” (p. 118), perché “tutta quanta la vita della nazione e tutte le attività erano determinate e regolate dallo Zar, che incarnava la volontà nazionale ed agiva come il trasmettitore delle istruzioni di Dio. Lo Zar ideale è perciò, da un lato, responsabile per il popolo ed agisce per esso davanti a Dio, mentre dall’altro rappresenta lo strumento della mediazione delle decisioni divine nella vita nazionale, in quanto lo Zar è l’Unto di Dio davanti al popolo” (p. 119). In questa parte del suo testo, Trubeckoj si avvicina alle concezioni della storia proprie degli slavofili, con l’importante eccezione che per lui non esiste una opposizione essenziale tra gli imperi mongolo e zarista: “Quantunque le fondamenta dello stato moscovita differiscano da quelle dello stato mongolo, possiamo tuttavia scorgere le caratteristiche di un’intima affinità (…). Tanto nell’uno quanto nell’altro vi era una certa forma di vita quotidiana, collegata ad una specifica psicologia, che costituiva il fondamento dello stato e il carattere della sua ispirazione. Nell’impero di Gengis Khan era lo stile di vita dei nomadi, nello stato moscovita era la professione quotidiana dell’Ortodossia. In ambedue i casi, la disciplina dello stato si fondava sull’assoggettamento di tutti membri senza eccezione e dello stesso re ad un principio non terreno, ma divino; la subordinazione di un uomo ad un altro e quella di tutti gli uomini al re è stata riconosciuta come una conseguenza della subordinazione al principio divino, il cui strumento terreno era il re” (p. 123).

Dell’opposizione di questo ordinamento russo all’Europa occidentale, ci siamo già occupati; resta ora da analizzare il contributo slavo alla cultura russa. Qui la più notevole asserzione di Trubeckoj rimane la sua radicale negazione della unità panslava, fatta eccezione per la lingua letteraria. “Un ‘carattere slavo’ o una ‘psiche slava’ sono miti. Ogni popolo slavo ha il suo specifico tipo psicologico, e nel suo carattere nazionale un Polacco è così poco simile a un Bulgaro quanto uno Svedese a un Greco. Non esiste nessun tipo antropologico, fisico, che possa esser detto slavo. La ‘cultura slava’ è anch’essa un mito, poiché ogni popolo slavo elabora la propria cultura separatamente, e le reciproche influenze culturali che gli Slavi hanno esercitato reciprocamente tra loro non sono più forti delle influenze che sugli Slavi hanno esercitate i popoli germanico, italiano, turco e greco. (…) Ad unire gli Slavi è la lingua, soltanto la lingua” (p. 271). Ma anche per quanto riguarda la lingua, rimane il fatto che è stata la “chiesa slava” a dare la propria impronta alla lingua letteraria; la tradizione ecclesiastica slava non la ha rafforzata “in quanto slava, ma in quanto ecclesiastica.”(ibidem).

Al termine del suo saggio sull’autocoscienza russa, Trubeckoj assegna all’Ortodossia una posizione centrale, in quanto essa ha saputo tenere insieme la triplice eredità bizantina, mongola e slava: “Per i russi la cultura bizantina, non era, sin dall’inizio, separabile dall’Ortodossia; lo stato mongolo diventò stato moscovita solo attraverso il contatto con l’Ortodossia, e la tradizione ecclesiastica slava poté recare il frutto della lingua letteraria proprio per il fatto che essa era stata ecclesistica ed ortodossa.” (p. 272).

 

 

Ideocrazia

Nel suo breve saggio sull’ideocrazia quale ordine sociale secondo la dottrina degli eurasiatisti, Trubeckoj integra alcune idee, già da lui individuate nell’ordine sociale di Gengis Khan e  precedentemente abbozzate. La sua nozione di “-crazia” si riferisce alla selezione dei quadri dello stato. Ricordiamo che fu lo stesso Gengis Khan a fare questa selezione, sulla base di alcune precise caratteristiche psicologiche che erano presenti nella gerarchia dei nomadi e non in quella delle popolazioni sedentarie. I sistemi sociali aristocratico e democratico/plutocratico sono considerati da Trubeckoj morti o “prossimi alla morte”. Le corti monarchiche ancora esistenti non sono più capaci di “influenzare lo sviluppo culturale e sono costrette a subire passivamente la civilizzazione. (…) Prima tutti erano ansiosi  (…) di imitare (…) la corte. Ora, al contrario, i membri delle case regnanti si preoccupano di non ‘restare indietro’ rispetto alla moda e di ‘seguire la maggioranza’“ (p. 278). Ma anche il “carattere della selezione democratica, che ha rimpiazzato quella aristocratica, presenta (…) i tratti della decadenza e della morte. (…) Un vero ‘uomo moderno’ vedrà l’intera fraseologia democratica come una reminiscenza del passato, più o meno come una teoria di governo burocratico-aristocratica” (p. 279). Realmente “moderni” erano, quando Trubeckoj scriveva questo saggio, il bolscevismo e il fascismo, nei quali egli intravide prefigurazioni imperfette del tipo “ideocratico” della selezione, cioè della comune concezione della classe dirigente. Questa idea apparirà familiare ai lettori di Julius Evola, il quale pensava che uomini di origini sociali differenti, inizialmente animati da un semplice spirito patriottico, avrebbero potuto edificare, sulla base di una concezione elitista dello Stato, una sorta di Ordine, per diventare in seguito i guardiani di un nuovo ordinamento organico della società (4). Ma i bolscevichi e i fascisti non possono essere visti, secondo il metro di Trubeckoj, come ideocrati puri. I bolscevichi si trovavano in una situazione paradossale, poiché, a causa della loro ideologia materialista, essi sarebbero stati il contrario di chi governa sulla base di una “idea”: “Il partito, che de facto esercita la funzione di una classe dirigente ideocratica, teoricamente nega ogni esistenza autonoma delle idee e perciò stesso anche la possibilità dell’ideocrazia” (p. 281). Il Partito Comunista dell’Unione Sovietica era costretto a far credere che al potere non c’era esso stesso, bensì il proletariato; così facendo, esso rimase intrappolato nel “pathos della lotta”, un atteggiamento mentale tipicamente democratico, che portò alla “creazione artificiale di obiettivi contro cui lottare” (ibidem). Anche il fascismo si trovava in una analoga condizione paradossale, in quanto la sua “idea” era esattamente il rifiuto delle “teorie” ed una certa idolatria della “prassi”. “Il risultato di ciò consiste nel fatto che l’idea fondamentale del fascismo si svuota di contenuto e (…) si limita esclusivamente alla idolatria della nazione italiana, cioè ad un’autoaffermazione nazionale. La Weltanschauung comune viene qui rimpiazzata da una emozione comune” (p. 281). Anche questa è una critica che potrebbe venire da Evola. A differenza di queste forme imperfette, la vera ideocrazia presenterebbe “una struttura del tutto particolare, diversa tanto dalla democrazia quanto dall’aristocrazia. (…) Le odierne incomplete forme di ideocrazia non si sono ancora totalmente liberate dai residui e dai frammenti di altre precedenti tipologie sociopolitiche (specialmente quella democratica). L’autentica ideocrazia del futuro, una volta depurata di tutte le concrezioni ad essa estranee, rivelerà forme politiche, economiche, sociali completamente nuove – di vita, di civiltà e di cultura” (p. 283). Non si può negare che il quadro dell’idea che dovrebbe essere il fondamento dell’ideocrazia rimanga un po’ sfocato; tuttavia, leggendo questa scelta di Scritti sulla scienza della civiltà, si può capire in quale direzione si rivolga la concezione “ideocratica”. L’ideocrazia dovrebbe essere una delle poche rimanenti alternative alla forma di governo della tecnocrazia “manageriale” (5), tanto più che tale concezione potrebbe svilupparsi in armonia con la tradizione e preparare la via ad uno Stato fondato sull’eredità, si tratti dell’eredità di Gengis Khan o di quella di altri grandi fondatori di imperi autentici, ben diversi dalle moderne contraffazioni imperialiste.

 

 

  1. Nikolaj S. Trubetzkoy, Russland – Europa – Eurasien. Ausgewählte  Schriften zur Kulturwissenschaft. Herausgegeben von Fedor B. Poljakov. Österreichische Akademie der Wissenschaften Philosophisch-historische Klasse, Schriften der Balkan-Kommission 45. Wien: Verlag der  Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2005.
  2. Nikolaj S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, Editrice  Barbarossa, Milano 2005.
  3. Titus Burckhardt, What is Conservativism?, “Sacred Web”, No. 3, June  1999, p. 21.
  4. Altrove ho cercato di dimostrare che l’“Islam politico” della rivoluzione islamica iraniana potrebbe essere interpretato come un tipo di ideocrazia platonica: Martin Schwarz, Khomeinis platonischer Idealstaat und die traditionalistische Schule (www.eisernekrone.tk).
  5. La “rivoluzione dei manager”, descritta da James Burnham, può essere vista come una interpretazione rivale o supplementare del fascismo e del bolscevismo, ma anche del capitalismo occidentale, in quanto focalizza altri innegabili caratteri di questi sistemi.

“INVERNO ARABO” E FARSA IN MALI: DOPO LA LIBIA, L’ALGERIA È IL VERO OBIETTIVO DELL’OCCIDENTE

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E se la cosiddetta “Primavera araba” fosse una farsa per consentire a monarchie come il Qatar di servire al meglio gli interessi delle imprese statunitensi nella regione? Com’è possibile che gli americani vogliono trasformare l’Egitto in un “Emirato islamico”? Come capire che gli Stati Uniti ed i loro alleati in Siria finanziano i “jihadisti” che, con le loro bombe, hanno causato la morte di migliaia di marines americani in Iraq, ma che sono ancora oggi riconosciuti da Obama come i “rappresentanti unici del popolo siriano”? Sono diventati tutti pazzi? Ma no.

Si tratta semplicemente di un diversivo in corso d’opera, ed è in questo contesto che s’inscrive la farsa del Mali, in cui un golpista tipo Ouattara è chiamato a risolvere uno pseudo problema creato dalla NATO e che ha un unico obiettivo: l’Algeria. Rileggete il mio articolo intitolato “Le bugie della guerra in Libia”, del 28 marzo 2011 (www.pougala.org), e capirete perché è stato così facile per me prevedere lo scenario che conosciamo oggi. In Mali, l’Unione Africana è in grado di risolvere il problema da sola, proprio come aveva fatto in Somalia. Domandatevi perché al suo posto s’invoca sempre la ECOWAS, un burattino dell’Unione Europea, per gestire quella che io chiamo la “farsa del Mali”.

Nel frattempo, vi invito a guardare questo video molto ben informato sulla “Primavera islandese”, una “primavera” vera, di cui nessuno parla. E perché? Perché la gente ha capito che il sistema la teneva in ostaggio e così ha reagito come un uomo solo, rifiutandosi, attraverso un referendum, di pagare gli pseudo debiti creati da agenti del sistema piazzati in ogni posizione del potere politico. Questi agenti del sistema sono ovunque in Africa, al potere e all’opposizione. Li si riconoscono facilmente in quanto non potranno mai dire una parola contro il sistema, simboleggiato dal franco CFA e dai contratti-bidone coi paesi europei. I più temerari, che cercano di non rinnovare tali contratti o di andare contro il sistema, diventano rapidamente “dittatori africani”. Basta chiedere a un certo Laurent Gbagbo, che vi saprà dire qualcosa. Nel frattempo, aprite bene gli occhi ed evitate di farvi manipolare.

 
 
Fonte:  “La Voix de la Libye”, 14 dicembre 2012


(traduzione di Enrico Galoppini)


LA PATRIA BOLIVARIANA: UNA QUESTIONE DI AUTODETERMINAZIONE NAZIONALE

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L’analisi – anche se solo abbozzata – dei profili che Bolívar e Rodríguez (1) tracciano per il consolidamento dell’idea di Patria, con un’esplicita prospettiva rivoluzionaria, consente di capire come le ragioni che giustificavano la subordinazione al dominio spagnolo e la totale dipendenza dalla madrepatria erano destinate a soccombere di fronte alla necessità di porre in pratica un concetto politico ancora non ben definito per l’epoca, ossia, quello dell’autodeterminazione nazionale.

L’autodeterminazione è il principio del rispetto della sovranità, del valore della capacità autonomistica dei popoli; ma, affinché possa rendersi applicabile, senza impedimenti da parte del governo né dalla legge, prima si deve concretizzare l’indipendenza mediante la messa in pratica del diritto di secessione.

Tuttavia, non è facile che la mentalità coloniale riconosca questo diritto, poiché significa la perdita dei privilegi incondizionati nella periferia soggiogata, la quale assume, mediante la secessione, non solo la sovranità politica, bensì anche quella economica, sociale e culturale, liberandosi in questa forma dalla zavorra impositiva dei valori della cultura imperiale dominante.

Dunque, come si può dedurre da ciò che è stato appena esposto ne Lo sguardo del patriarca (2), l’emancipazione bolivariana non vuole altro che la libertà naturale dei popoli americani, al fine di avviare un processo d’integrazione continentale che si fondi sulla conoscenza e il rispetto della diversità culturale e – come si è scritto nei paragrafi precedenti – nella conseguente concessione degli strumenti necessari affinché le nazioni, le enclavi culturali e religiose, le loro collettività linguistiche, culturali, religiose ecc. possano disporre di una propria sfera di potere che consenta loro di rendere più efficace ed autentica, e soprattutto più giusta, l’integrazione di questi gruppi nel progetto di una comunità unica.

 

L’idea dell’autodeterminazione dei popoli ha contorni molto imprecisi 

Su quanto è stato detto in precedenza e alla luce della realtà internazionale contemporanea, scaturiscono due domande ovvie: 1) La politica di autodeterminazione nazionale non comporta una minaccia per una probabile integrazione internazionale? 2) Questo progetto di comunità unica non implica una probabile abolizione delle autonomie nazionali?.

La risposta è semplice: l’erronea e abusiva identificazione dell’autodeterminazione con il separatismo e la secessione ha fatto sì che questo diritto venisse percepito come una minaccia per la pace e la stabilità internazionali. Tuttavia l’autodeterminazione, la secessione e il separatismo non sono da considerare processi o realtà identiche. Possiamo osservare che determinati argomenti, siano giuridici o politici, adottati, ad esempio, contro la secessione, non possono né devono essere applicati contro l’autodeterminazione in forma generale, visto che la messa in pratica del diritto di autodeterminazione non include necessariamente la creazione di uno Stato mediante l’esercizio del diritto di secessione. Esistono molte altre formule, quali l’autonomia, il federalismo, il condominio, il protettorato, ecc. Per Bolívar e i suoi seguaci la formula giusta è stata quella del processo emancipatore, che avrebbe dato luogo all’integrazione congiunta delle diverse autonomie americane. Oggi, questa nozione del pensiero bolivariano persiste, focalizzando l’obiettivo nella formula dell’autodeterminazione nazionale, nel rafforzamento della capacità di autonomia e nel riscatto del senso di sovranità dei popoli.

Già la sola nozione di questa formula delinea i contorni imprecisi che sono stati tratteggiati – per via degli interessi coloniali – nel processo di autodeterminazione nazionale. E per contribuire ad offrire un profilo migliore, conviene trascrivere di seguito i concetti d’autodeterminazione nazionale, secessione e separatismo.

 

  1. Autodeterminazione nazionale: nuova forma d’organizzazione politica dove si possono conciliare l’autonomia di certe collettività umane e l’interesse generale dello Stato che le rappresenta, allo scopo di unire le decisioni politiche sul regime statutario della Nazione.

 

  1. Secessione: atto di diritto di una comunità o di uno Stato facenti parte della Nazione, per mezzo del quale viene posto un termine ai rapporti di dipendenza politica, sociale, economica e culturale.

 

  1. Separatismo: dottrina politica che sostiene la separazione di qualche territorio della Nazione, affinché questo raggiunga la sua indipendenza o si annetta ad un altro paese.

 

 Autodeterminazione e salute sociale nel contesto venezuelano

Considerando il tema dell’autodeterminazione nello specifico contesto venezuelano, dobbiamo affermare che una delle caratteristiche principali della nostra società è quella che vede l’insieme della popolazione essere più propensa a costruirsi un futuro, anziché restare in attesa di riceverlo, e ciò lo ha dimostrato mediante il valore e l’impegno con il quale ha partecipato nella lotta emancipatrice, fino alla più recente dimostrazione di coraggio con l’approvazione, tramite voto popolare, dell’attuale Costituzione Nazionale.

Questa esperienza partecipativa, di corresponsabilità nella determinazione del futuro nazionale – si potrebbe dire -, ha dimostrato che il percorso della crescita sociale del Venezuela è cominciato, e in una forma che, finalmente, prende in considerazione elementi più saldi per la configurazione dello spirito patriottico e nazionalpopolare, che non quello  di uno sviluppo economico ampiamente diffuso. Vale a dire, il “tanto hai, tanto vali”, così profondamente radicato nella nostra “società petrolifera”, in questo momento viene sostituito con il “tanto vali quanto più e quanto meglio partecipi alle decisioni sociopolitiche del paese”.

E questa “migliore partecipazione”, che equivale ad una adeguata partecipazione alla responsabilità, funzione e natura di chi lo fa, è un sintomo sicuro della salute sociale di qualunque popolo. Una salute che, pensatelo bene, irrobustisce la possibilità dell’autodeterminazione dell’avvenire, eliminando anche l’attuale imprecisione dei suoi contorni.

 

Una faccenda di buona intenzione

Su questo sentiero marciano tutti i cittadini di buona volontà che formano la società venezuelana, di ciò non resta il minimo dubbio. Senza i distinguo di classe, di razza, di professione o di livello economico – questo modo di misurare la realtà, in questo momento, si rivela francamente obsoleto, se non addirittura irritante -, i venezuelani che comprendono e sentono il paese in una soggettività ben intenzionata, e non da un’oggettività compromessa coi gruppi del potere egemonico, si apprestano a costruire il loro futuro guardando da tutte le parti; vale a dire, osservando con rispetto e dignità la situazione sociale dei loro concittadini e le ristrettezze reali che mandano in rovina la patria, per reagire a queste con proprietà e prontezza.

Ecco perché ciascuna delle istituzioni che costituiscono la struttura e il bastione della patria – la Forza Armata Nazionale, tra queste – devono mantenere uno sguardo vigile sul paese e realizzare uno sforzo sempre maggiore, in modo da evitare che i fattori determinati “dall’obiettività compromessa” sommergano l’ambito nazionale con consegne di discordia e di carattere antipatriottico. Lo spazio della dottrina dell’autodeterminazione nazionale, consacrata nella Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela come un diritto inalienabile, è quello della comprensione, della vocazione, dell’obbedienza e del rispetto verso il popolo e la Patria; è quello del contributo e della costruzione di un futuro collettivo, libero da vergogne, reclami, tradimenti e lamentele. Non vogliamo aspettare, né chiediamo che il popolo lo faccia, che ci servano su un vassoio d’argento il futuro che meritiamo. No. Il futuro lo dobbiamo costruire insieme, in armonia e con assoluto attaccamento ai doveri etici e politici impostici dal nostro impegno di cittadini verso la Patria sognata da Bolívar e da Simón Rodríguez.

 

 

 

* Nelson González Leal è giornalista e scrittore venezuelano, opinionista del settimanale politico “El Clarín” (Cumaná, Regione Sucre), nonché vicedirettore di Letteratura del Consiglio Nazionale della Cultura del Venezuela e Coordinatore Generale della Fondazione di Studi Politici “Luis Hómez”. Il testo che presentiamo è un estratto (pp. 33-40) dal suo libro Pensar la Patria, Consejo Nacional de la Cultura, Biblioteca básica temática, Caracas, Venezuela, 2004.

 

 


1. Simón Rodríguez (1771 – 1854), pedagogo e scrittore venezuelano, fu maestro di Bolívar. (N.d.T.)

2.  La mirada del patriarca in Nelson González Leal, Pensar la Patria, cit., pp. 25-31.

 

 
(Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Paglione)

LETTERA INVIATA DAL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DELLA REPUBBLICA ARABA SIRIANA AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA E AL SEGRETARIO GENERALE DELL’ONU

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Dall’inizio della crisi in Siria, alcuni Paesi e alcune organizzazioni note per la loro ostilità alla Siria e alla sua linea politica, hanno stravolto la realtà dei fatti e deformato i drammatici fatti che avvengono nel Paese, imputandone la responsabilità, tramite sporchi giochi di calunnia e falsità, al Governo Siriano, supportati in ciò da alcuni mass-media, loro complici, che hanno collaborato alla disinformazione dell’opinione pubblica mondiale e alla deformazione della verità dei fatti.

La Siria non si è meravigliata, quando queste parti hanno preso posizioni completamente opposte relativamente alla situazione d’emergenza che ha colpito negli ultimi giorni il campo dei rifugiati palestinesi di Yarmouk, in conseguenza all’attacco al campo compiuto dal gruppo terroristico “Jabhat an-Nusra” e dalle altre organizzazioni terroristiche, che ha causato una catastrofe, rappresentata dall’ennesimo esodo degli innocenti  rifugiati palestinesi dal luogo delle loro abitazioni nel Campo.

La Siria, nel condannare chiunque si permetta di alzare un dito per accusarla,  imputa la responsabilità di questa tragedia ai gruppi terroristici, precisando che dal 1948, anno della Nakba (la catastrofe) del popolo palestinese, essa ha ospitato i rifugiati palestinesi sulla sua terra, trattandoli come suoi figli, e concedendo loro tutti i privilegi di cui godono i cittadini siriani. Allo stesso modo la Siria ha pienamente collaborato con l’Agenzia  per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi, l’UNRWA, senza imporre alcun tipo di restrizione o condizione alle sue attività, e di questo sono testimoni sia i registri dell’Unrwa che tutti i suoi funzionari, sia dentro che fuori  la Siria.

Ciò che più rammarica è constatare che l’accusa, relativamente a quanto accaduto nel campo di Yarmouk,  è stato mossa verso la parte sbagliata, anziché ammonire e condannare le organizzazioni terroristiche che durante la crisi hanno minacciato la sicurezza e la stabilità dei palestinesi, uccidendone molti; tra questi, di recente, il gruppo terroristico “Jabhat an-Nusra” e chi lo appoggia, che ha attaccato il campo di Yarmouk e le aree adiacenti con mortai e mitaragliatrici ed ha occupato parti del Campo, il che ha portanto irrimediabilmente all’esodo di migliaia di palestinesi e alla distruzione di un ospedale e di una moschea nel Campo, e poi all’ingresso di centinaia di terroristi nel Campo stesso.           In risposta a ciò, sebbene gli abitanti del Campo abbiano

ripetutamente implorato l’esercito arabo siriano di entrare, esso si è finora astenuto dal farlo,  per arginare lo spargimento di sangue e preservare le proprietà dei cittadini.

Durante questo periodo, malgrado le difficoltà, la Siria ha sempre mantenuto contatti costanti con le organizzazioni politiche palestinesi  ufficiali  e non , dentro e fuori del Campo, per evitare di coinvolgere i fratelli palestinesi nella crisi siriana, e per allontanarli  dall’inganno del terrorismo che ha lavorato per coinvolgerli nei fatti dall’inizio, e le ragioni di questo sono sotto gli occhi di tutti.

La Siria ha ribadito la necessità di non coinvolgere i fratelli palestinesi nella crisi siriana anche durante l’ultima visita in Siria del Commissario Generale dell’Unrwa, in base alla fedeltà alla sua posizione iniziale, che consiste nel risparmiare ai rifugiati palestinesi i terribili eventi della crisi siriana.  Allo stesso modo, la Siria ha fin da subito collaborato con le istituzioni palestinesi ed internazionali, garantendo tutti gli aiuti e le facilitazioni richieste per affievolire le sofferenze dei rifugiati palestinesi derivanti dall’occupazione del gruppo terroristico “Jabhat an-Nusra” e dei suoi alleati, tra cui il cosiddetto “Esercito Libero del Campo di Yarmouk”.

La Siria implora l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il suo Segretario Generale di chiedere ai Paesi che hanno appoggiato i gruppi terroristici armati, e che li hanno spronati ad occupare il campo di Yarmouk -per fini che si sono ben palesati- mediante i loro atti terroristici, di sfruttare le loro solide relazioni con i gruppi terroristici per costringerli ad uscire immediatamente dal campo, risparmiando in tal modo le vite dei rifugiati palestinesi, ed impedendo ulteriori omicidi e distruzioni perpetrate  dai gruppi terroristici, ovunque essi si trovino, anziché adottare una propaganda economica a scapito del sangue del popolo palestinese e delle sue sofferenze.

Sono i terroristi ad attaccare il Campo, sono i terroristi a far fuggire i rifugiati palestinesi, sono i terroristi coloro che dovranno rispondere di questo crimine.

 

VERSO L’EUROPA UNITA

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Verso un nazionalismo europeo

Gli uomini politici possono proporre tutte le combinazioni. Spetta ai popoli decidere se queste siano durevoli oppure no. La ragione firma invano i trattati che il sentimento non ratifica.

Fare gli Stati Uniti d’Europa può significare due cose: o lanciare una di quelle formule vuote con cui i politici invecchiati ringiovaniranno il loro vocabolario senza cambiare le loro azioni, oppure fondare una nazione europea, ossia un blocco di entità legate da affinità nel pensare e nel sentire, da interessi, da tradizioni e speranze.

Abituati a combattere gli eccessi del sentimento nazionale nei nostri avversari di destra, abbiamo nei confronti del termine nazionalismo una prevenzione ampiamente giustificata.

Tuttavia non esito a dire che è necessario suscitare un nazionalismo europeo.

Il nazionalismo infatti è proprio la coscienza d’una solidarietà. I nostri grandi storici di sinistra onorano quei re che, come Luigi VI, Filippo il Bello o Luigi XI, hanno sconfitto il particolarismo feudale e provinciale e fondato l’unità francese. Questi re non avrebbero mai avuto successo se nel Terzo Stato l’istinto provinciale non avesse a poco a poco ceduto all’istinto nazionale. Ad una solidarietà ristretta succede una solidarietà più ampia; al provincialismo, il nazionalismo.

E adesso, al nazionalismo dovrà succedere l’Europeismo.

Notate però che non sarebbe stato sufficiente, per spezzare i limiti meschini dello Stato di Borgogna o di Bretagna, un atteggiamento puramente negativo. Ci si passi l’anacronismo: gli artefici dell’unità francese non erano dei pacifisti. L’assenza di nazionalismo provinciale, se posso permettermi questo barbarismo, non bastava. Abbattere le frontiere significava compiere un atto del tutto vano. Gli uomini vivono in collettività. Lo spirito di corpo è per loro una cosa naturale. Volerlo sopprimere è un’illusione. Quello che è possibile, è trasferire questo spirito di corpo dalla provincia alla nazione, dalla nazione al continente.

E’ esattamente quello che dobbiamo fare oggi.

Ma, esattamente come settecento anni fa ci si poteva domandare quale fosse il comune fondo psicologico delle diverse province francesi e se esistesse, così oggi noi siamo molto imbarazzati se dobbiamo portare alla luce il fondo comune europeo.

Tuttavia, nelle sue Considérations sur le gouvernements de Pologne, Rousseau ci dice: “Oggi non ci sono più né Francesi né Tedeschi né Spagnoli né Inglesi, checché se ne dica; ci sono solo Europei”. E spiega: “Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi”.

Non mi si venga ad obiettare con l’assurda argomentazione reazionaria: “Rousseau ha conosciuto solo l’Uomo Astratto, non è mai stato sensibile alle differenze tra i caratteri nazionali”. Come se il più grande degli psicologi avesse potuto sbagliare su questo punto della psicologia!

Nella medesima opera Rousseau scrisse parole che potrebbero appartenere a Taine: “Il popolo deve far propria un’istituzione che è destinata a lui. Se non si conosce a fondo la nazione per cui si lavora, l’opera che sarà fatta per essa, per quanto eccellente sia di per sé, sarà sempre difettosa nell’applicazione, tanto più quando si tratterà di una nazione già istituita, i cui gusti, costumi, pregiudizi e vizi sono troppo radicati per essere agevolmente soffocati da nuovi semi”.

Detto ciò, esaminiamo la formula di Jean-Jacques: “Ci sono solo Europei”.

Fino a qual punto i gusti delle diverse nazioni d’Europa sono gli stessi e differiscono da quelli americani o asiatici? Qui occorrerebbe uno studio di psicologia sociale comparata. Secondo il programma tracciato da Rousseau, per i costumi e le passioni bisognerebbe svolgere un’indagine analoga.

Rilevando certi caratteri che si ritrovano in tutti gli Europei e solo in loro, si potrebbe fare una sorta di ritratto dell’Europeo-tipo, uno studio che non saremo noi a intraprendere. Tuttavia non si può evitare di esser colpiti dalla netta opposizione che esiste tra le consuetudini politiche di tutti gli Stati europei e quelle dell’America da una parte e dell’Asia dall’altra.

Mentre l’Asia è il luogo geometrico di tutti i dispotismi – quello di Stalin, di Mustafa Kemal o di Chang Kai Shek, ben poco innovatori rispetto allo Zar, al Sultano o al Figlio del Cielo – l’America rappresenta la negazione dell’autorità politica. È il denaro a fare e disfare i governi. Tra un partito e l’altro non c’è differenza sensibile per quanto concerne i princìpi. Ogni battaglia è battaglia d’interessi.

Da una parte, governo di ferro; dall’altra, governo dell’oro. L’uno e l’altro sono la forza, nient’altro che la forza.

E’ necessario sottolineare che tutte le nazioni non modellate dalla regola latina si sono sempre dibattute tra il dispotismo e la plutocrazia?

I capi di governo americani assumono facilmente l’aspetto di banchieri. E i capi di governo asiatici somigliano spesso a prefetti di polizia. Il prefetto di polizia perseguita i banchieri. Il banchiere corrompe i poliziotti.

Ciò fa sì che l’Asia non sia mai stata sicura per il commercio, e che l’America non sia mai stata severa per la fortuna economica.

Bisogna riconoscere qualche vantaggio al principio europeo che consiste nel collocare una casta intellettuale al di sopra di quelle che in India sono chiamate la casta dei guerrieri e la casta dei mercanti.

Qui da noi le più antiche insegne del potere sono la bilancia e la mano di giustizia. Mi piacerebbe vederle rappresentate sulla bandiera europea. Qui sta l’essenza del pensiero europeo: governare significa pesare gl’interessi che si affrontano, senza lasciarsi trascinare da nessuno di essi; significa levare una mano forte e pacificatrice tra le passioni in lotta.

 

 

I nostri due scopi: lo Stato, l’Europa

La storia politica della Francia nel XIX secolo può essere ricondotta allo schema seguente.

Il suffragio ristretto mette lo Stato tra le mani di una classe privilegiata. La massa reagisce. Il movimento democratico tende a indebolire lo Stato. In favore di questo indebolimento si sviluppano grandi forze private. In questo momento lo Stato passa, grazie al suffragio universale, nelle mani della massa. I repubblicani non si accorgono subito che lo Stato era diventato loro e che adesso non bisogna più indebolirlo, ma rafforzarlo. Di questo fatto essi si rendono conto solo da poco tempo. Di qui il movimento d’idee per la restaurazione dello Stato, per la riforma dello Stato.

In Inghilterra, gli eventi seguono esattamente il medesimo corso. Si tratta di un fenomeno europeo.

Sviluppo della nozione di Stato, sviluppo della nozione d’Europa: le due cose devono procedere di pari passo. Perché? Perché le grandi coalizioni d’interessi, alle quali si tratta di sovrapporre un arbitro, sono europee. Uno Stato che fosse soltanto francese non sarebbe dunque in grado di dominarle.

Davanti a un nemico che estende il suo fronte, l’esercito avversario deve estendere anche il proprio, se non vuole essere sopraffatto; analogamente lo Stato, se vuole riconquistare il suo primato, dovrà passare dal piano nazionale a quello internazionale.

Uno Stato che non sia europeo non potrà essere uno Stato a pieno titolo.

E’ molto probabile che la fondazione dello Stato europeo abbia origine proprio dalla battaglia che i partiti democratici combattono nei diversi paesi per ricostituire uno Stato forte. In questo caso, la questione della pace sarebbe risolta più o meno per caso, così come nell’ambito scientifico capita a volte che la soluzione di una questione a lungo ritenuta insolubile emerga casualmente nel corso di ricerche di tutt’altro genere.

Dunque l’idea di Stato porta necessariamente all’idea d’Europa. Ma se si segue il percorso inverso, se si parte dall’idea d’Europa, ci troviamo immancabilmente portati all’idea di Stato.

L’Europa conoscerà una vera unità solo quando sarà personificata in uno Stato. Se si redige una sorta di programma minimo di organizzazione europea, ci si rende conto che esso non può essere realizzato se non da un governo europeo.

Riconoscimento di una giustizia internazionale, impegno a sottomettersi alla sua giurisdizione. Organizzazione di un sistema sanzionatorio, impegno a collaborarvi. Divisione del lavoro produttivo tra nazioni, divieto di erigere barriere doganali, protezione delle industrie nascenti o crearne mediante agevolazione del credito. Ripartizione internazionale dei capitali e delle materie prime. Apertura di sbocchi mediante l’impiego ragionato del credito. Parificazione delle condizioni del lavoro, scomparsa della disoccupazione internazionale. Eliminazione delle crisi economiche mediante una politica creditizia centralizzata. Controllo demografico, costituzione di una rete internazionale di centri culturali. Si ritiene che tutto ciò possa essere realizzato attraverso le conferenze internazionali, per quanto frequenti possano essere?

Dei ministri degli Esteri che si riuniscono due, tre o quattro alla volta per regolare i loro affari, per intervenire negli affari degli altri, è una cosa che si è vista spesso nella diplomazia precedente la Grande Guerra. Ci sono stati famosi duetti, terzetti, quartetti, quintetti e anche ottetti. A volte si alloggiavano al secondo piano le potenze di second’ordine o potenze a interessi limitati, che svolgevano il ruolo di coro: o applaudendo (se per festeggiare l’accordo i “grandi” gettavano loro qualche briciola) o indignandosi per istigazione d’una grande potenza scontenta (che le eccitava con promesse e si serviva di esse per esercitare pressioni sulle altre grandi potenze).

Sì, tutto questo lo abbiamo veduto e non è necessario che ad ogni conferenza internazionale si esclami, come fanno i nostri giornali: “Ecco una nuova pagina nella storia del mondo!”

Un’osservazione importante: tutte le nostre conferenze del dopoguerra hanno avuto l’unico scopo di liquidare il passato, non di preparare l’avvenire.

Liquidazione del sistema dei trasferimenti, liquidazione dell’occupazione del Reno, liquidazione della Commissione della Sarre: notate che facciamo sparire tutto quello che mescolava un po’ le nazioni e le costringeva a creare, lavorando gomito a gomito, degli organismi internazionali di collaborazione. Infatti la Società delle Nazioni o la Banca Internazionale sono fenomeni di collaborazione diplomatica e finanziaria, non costituiscono una novità. La novità, per esempio, era rappresentata dai rapporti quotidiani del direttore della Reichsbank con l’agente generale dei pagamenti americano, oppure dall’amministrazione di una provincia da parte di commissari di diversa nazionalità. Adesso rimane soltanto, da far scomparire, l’internazionalizzazione di Danziga, dopo di che ciascuno sarà tornato a casa sua. Ci si incontrerà soltanto alle assemblee della S. d. N., in abito ufficiale e con le decorazioni.

Ma lo sapete che, quando saranno scomparsi quelli che io chiamo problemi di vita ordinaria e comune, la S. d. N. avrà da fare ancor meno che oggi? Notate infatti che, respinta ogniqualvolta ha voluto occuparsi della costruzione di un Protocollo o di una Unione doganale europea, essa si è dedicata alle questioni di liquidazione della guerra, che la assorbono in maniera quasi esclusiva.

Possiamo dunque dire: tutte le attività internazionali sono rivolte verso il passato e si rilasseranno a mano a mano che i problemi del passato verranno risolti.

Bisogna stupirsene? No!

Lo dico chiaro e tondo. Per governare l’Europa, non conto sui nostri ministri degli Esteri. Tutti i loro sforzi tendono a sbrogliare la matassa europea non per ricavarne un tessuto, ma per riprenderne ciascuno i propri fili e per non sentirsi più disturbati dai vicini. Il sogno di un ministro non è di avere le mani piene di grandi opere, ma di avere le mani libere, sì da poter più leggermente virare al soffio dell’opinione pubblica nazionale.

Dei ministri nazionali – arrivo a questa conclusione dopo che a Ginevra li ho visti sotto l’assalto di telegrammi provenienti da Parigi, Londra, Berlino o Tokyo, telegrammi pieni di istruzioni, brani di stampa, notizie di colore – dei ministri nazionali ossessionati dal terrore di dispiacere ai loro colleghi, ai loro giornali, alla loro maggioranza non saranno mai in grado di formare un governo sopranazionale.

Ci vuole più indipendenza.

Un governo sopranazionale dipendente dai governi nazionali, che a loro volta dipendono dai loro parlamenti, sarà solo un confronto di impotenze.

Bisogna assolutamente sottrarlo a tutti i capricci della politica interna di ogni singolo Stato e costituire un suo proprio dominio in cui esso sia sovrano. Ma questa separazione di un dominio nazionale riservato ad ogni Stato e di un dominio sopranazionale rimesso allo Stato federale europeo sarà vano, se saranno gli stessi uomini a esercitare l’uno e l’altro potere. Altro potere, altro personale.

 

 

* Bertrand de Jouvenel des Ursins (1903–1987), titolare di cattedre universitarie a Parigi, Oxford, Manchester, Cambridge, Yale e Berkeley, scrisse una trentina di trattati teorici di politologia e scienze economiche e sociali. Corrispondente presso la Società delle Nazioni, dopo la seconda guerra mondiale fu ardente promotore della riconciliazione franco-tedesca. Il brano che abbiamo tradotto proviene da un saggio apparso a Parigi nel 1930: Vers les Etats-Unis d’Europe.

LA DIMENSIONE EURASIATICA DEL NATALE

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Ci avviciniamo a quella che è considerata la principale festa della cristianità, ovvero il Natale di Gesù Cristo. D’altronde molti commentatori religiosi, sia in ambito cristiano, sia in altri contesti, ritengono la data del 25 dicembre una sorta di convenzione, visto che la data precisa della nascita di Gesù Cristo non è identificabile in modo preciso. In questa sede non intendo soffermarmi su queste discussioni, ma semplicemente mostrare come lo spazio eurasiatico, prima di essere un’entità geografica, prima di poter divenire uno spazio geopolitico coeso, sia una casa comune di popoli e di culture diverse, indubbiamente peculiari e non omologabili in modo semplice, ma aventi radici comuni molto forti. Ciò è dimostrato non solo, ma anche, da una serie di usanze comuni, che, pur avendo cambiato nome e forma durante lo scorrere dei secoli e dei millenni, hanno mantenuto una continuità storica innegabile. Una di queste usanze, o per meglio dire festività, è proprio il Natale.

Non è una novità affermare che la festa del Natale di Gesù Cristo è stata probabilmente mutuata dalla festività romana del “Sol Invictus”; ciò ovviamente non vuol dire che, come alcuni erroneamente sostengono, Gesù Cristo non sia esistito, ma semplicemente che la sua data di nascita non è sicura, e che, verosimilmente, le autorità del clero per evitare di dover abolire una festa fortemente sentita dalla popolazione originariamente pagana, l’abbiano “trasformata” in una festa cristiana, facendo diventare il “Natale” di Cristo. Ma anche questo non è il punto del discorso. Pochi infatti sanno che l’origine della festività romana del “Sol Invictus” è da riscontrare nelle tradizioni di molti popoli del continente eurasiatico, dall’India all’Irlanda, e che soprattutto in Iran questa festa ha radici molto antiche, che non si sono esaurite nemmeno oggi. Infatti proprio in questi giorni gli iraniani festeggiano il “loro” Natale, e non ci riferiamo evidentemente al Natale festeggiato dai cristiani iraniani, ma ad una festa denominata in farsi “Yaldà”: letteralmente “Natale”. Questa festa segna il “Natale” del Sole, visto che dal solstizio del mese di dicembre nell’emisfero boreale le giornate si allungano e tendono a “crescere” giorno dopo giorno. “Yaldà”, quindi, è una festa che gli iraniani festeggiano dai tempi più remoti; ma la parola deriva non da una radice farsi, bensì siriaca. Il sapiente persiano Biruni, vissuto intorno all’anno 1000 d. C., descrisse questa tipica festa iranica come il “Grande Natale” (Yaldà-e Akbar) o il “Natale del Sole” (Yaldà-e Khorshid). Questa ricorrenza è stata poi oggetto di studi e analisi da parte di molti studiosi, che hanno notato come tra essa e altre feste simili, celebrate dai popoli europei, vi sia una chiara continuità. D’altro canto, con le sue caratteristiche originarie, si è mantenuta in modo diffuso solo in Iran, mentre nei Paesi europei e nel mondo cristiano ha “mutato” forma e nome diventando il “Natale” che noi tutti conosciamo.

Nella cultura dell’antica Persia, soprattutto nell’epoca preislamica, possiamo trovare dei riferimenti a questa festa, che secondo alcuni preannunziava l’arrivo dell’anno nuovo, esattamente come oggi il Natale della cristianità occidentale cade pochi giorni prima dell’inizio del nuovo anno. La parola “anno” per gli antichi persiani, era “sareda”; nel persiano moderno invece il simile vocabolo “sard”, indica il “freddo”, confermando quindi l’ipotesi secondo cui l’inizio dell’anno coinciderebbe con il “Yaldà”, ovvero col “Natale del Sole”, momento in cui inizia anche la stagione del freddo, ovvero l’inverno. D’altronde non si può negare nemmeno il fatto che nella cultura tradizionale persiana l’anno nuovo coincide con il primo giorno della stagione primaverile, il celebre “Nowruz”, “nuovo giorno”. Quindi il termine “sareda”, che indica l’anno nella lingua avestica (lingua nella quale è scritto l’Avesta, testo sacro per gli zoroastriani) e che, come detto, vuol dire “freddo”, più che indicare l’inizio del freddo, potrebbe riferirsi invece alla fine della stagione fredda, ovvero il termine dell’inverno e l’inizio della primavera. I festeggiamenti della notte di “Yaldà” sono tra le più importanti tradizioni iraniane. Siccome questa è la notte più lunga, e la notte è caratterizzata dal buio, ed esso era per gli antichi persiani simbolo di Ahriman (Satana) e dei demoni, essi accendevano dei falò per allontanare le tenebre e la malvagità. Inoltre venivano apparecchiate delle tavole con vari tipi di frutta, fresca e secca, come un dono per Ahura Mazda (Dio). C’era pure chi aspettava il mattino per vedere l’arrivo del sole, recitando preghiere.

Tutte queste usanze, sono rimaste intatte attraverso i secoli, e ancora oggi gli iraniani, custodi di una delle più antiche civiltà del mondo e dell’Eurasia, festeggiano il “Natale del Sole”, la notte di “Yaldà”. Ci sono tracce visibili ancora oggi di tali fenomeni in Irlanda, per non parlare poi della sopracitata festività nell’antica Roma. Il Natale, quindi, ha antiche origini che accomunano diverse nazioni dell’Eurasia, in diversi periodi storici. Ciò non è un fatto sottovalutabile, visto che un’alleanza tra nazioni non può essere vera e completa, se non ci sono credenze comuni e radici culturali forti. Notiamo infatti come le alleanze tra Stati siano spesso frutto di considerazioni tattiche e non della convergenza su una comune visione del mondo. Affinché si possa instaurare un ordine mondiale basato sul rispetto dei popoli sovrani, più equo di quello attuale, che si fonda sulla prevaricazione e sull’oppressione, è necessario fare un salto di qualità, e non fermarsi solo a vantaggi di breve periodo.

I popoli dell’Eurasia hanno molto in comune, ma la propaganda atlantista vorrebbe farci credere che i valori condivisi tra le due sponde dell’Atlantico settentrionale sono molto più forti dei legami esistenti tra le nazione dell’Europa e dell’Asia. Un’analisi accurata della storia ci aiuta a comprendere come l’origine dei popoli europei sia da riscontrare, sia dal punto di vista sia etnico sia linguistico, in territori che si collocano a oriente rispetto all’Europa occidentale. Basterebbe qui citare il mito (che trova riscontro nella realtà storica) di Enea, ricollegabile direttamente alla fondazione della civiltà italico-romana ed europea. In fondo, non era forse Enea un asiatico, essendo originario della penisola anatolica?

I presunti legami culturali tra l’Europa e l’America settentrionale sono in realtà una forzatura ideologica, costruita su presupposti quali il liberalismo e il libero mercato. Come possiamo basare una civiltà comune su un’idea economica e materialista? Le grandi civiltà del passato, e sarà lo stesso anche in futuro, sono principalmente delle civiltà spirituali, che basano la propria ragion d’essere sul primato dello spirito, non certo dell’economia. Se la divinità di un popolo non è metafisica, ma è il “capitale”, e se il modello economico è finalizzato a se stesso anziché all’emancipazione dell’uomo, allora quella che abbiamo dinanzi a noi non è nemmeno una civiltà. L’Europa e l’Asia sono state storicamente legate, non solo nel senso che tra questi continenti c’è un evidente continuum territoriale, ma perché i popoli dell’Eurasia hanno sempre avuto, da secoli e da millenni, e non solo negli ultimi due secoli, un intenso legame storico. Tutti i grandi popoli di questo “macrocontinente” hanno una loro dimensione europea ed asiatica, e ciò da millenni, non da pochi decenni. Basterebbe dire che il ceppo linguistico indoeuropeo ha le sue tracce vive in lingue come il persiano, l’italiano, il tedesco ecc. Lo stesso possiamo dire per lingue come il turco, l’azero, l’ungherese ecc. Per non dire poi delle parole arabe entrate nel vocabolario linguistico europeo ed italiano, come “zero”, dall’arabo “sifr”.

Il Natale ci mostra che tutti i popoli dell’Eurasia sono parte di una comune civiltà primordiale, basata sulla preminenza della spirito sulla materia. Ciò non vuol dire azzerare le diversità, ma renderci conto che abitamo una grande casa comune che ha una storia millenaria. Nessun popolo, da solo o creando alleanze basate su un effimero tornaconto, potrebbe protrarre la propria esistenza lungo una storia che, lungi dall’essere arrivata alla propria conclusione, sta dimostrando che l’alleanza dell’Eurasia e di tutti i popoli oppressi del mondo è una realtà possibile, e non l’immaginazione di qualche sprovveduto.

Cogliamo quindi l’occasione per augurare un buon Natale a tutti, sia che si tratti del Natale cristiano, sia che si tratti del “Natale del Sole” di memoria iranica ed indoeuropea.

ZHANIBEK IMANALIYEV (KAZAKHSTAN) A TRIESTE, NUMEROSI TEMI TRATTATI

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In occasione del “21° anniversario dell’Indipendenza della Repubblica del Kazakhstan”, il Console Onorario, Luca Bellinello, ha voluto celebrare la ricorrenza incontrando, nella sede del Consolato Onorario della Repubblica del Kazakhstan per la regione Friuli Venezia Giulia, autorità e imprenditori del territorio, alla presenza di Zhanibek Imanaliyev, Consigliere dell’Ambasciata del Kazakhstan in Italia.

L’incontro è stata l’occasione per presentare la situazione politica e geopolitica della Repubblica del Kazakstan, i rapporti con l’Italia, e le opportunità per le aziende locali: l’Italia ne è infatti il primo partner commerciale europeo. Si è inoltre presentata l’assegnazione al Kazakhstan dell’EXPO 2017 che avrà per tema “Future Energy”, ovvero le energie del futuro e l’uso responsabile delle risorse naturali e sostenibili per il futuro. Si è infine illustrato il progetto ATOM, campagna sociale internazionale per l’abolizione definitiva degli esperimenti nucleari e la liquidazione delle armi nucleari in tutto il mondo.

La situazione politica della Repubblica del Kazakstan, e i suoi rapporti con l’Italia in particolare, sono stati al centro degli interventi di Lorenzo Salimbeni e Marco Bagozzi del Centro Studi Eurasia Mediterraneo (CeSEM). I due ospiti hanno presentato “L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakstan”, pubblicazione patrocinata dall’Ambasciata kazaka in Italia, e il numero monografico della rivista di studi geopolitici Eurasia dedicato al Kazakstan. I volumi tracciano un’analisi dettagliata dei vari aspetti della politica kazaka, ripercorrendo la nascita del sistema politico della Repubblica ed esaminandone gli aspetti economici ed energetici, fornendo così un quadro di riferimento esauriente.

L’Assemblea Generale dell’International Exhibitions Bureau ha scelto Astana, la capitale del Kazakhstan, come sede dell’Expo 2017, che si terrà dal 10 Giugno al 10 Settembre 2017. Il tema proposto è Future Energy (Energia del Futuro), ambito di estrema attualità e interesse che riguarda anche le tematiche oggetto del Protocollo di collaborazione tra l’Università di Trieste e il Politecnico di Karaganda, siglato a novembre da Francesco Peroni, Rettore dell’Università degli Studi di Trieste e Luca Belinello, Console Onorario della Repubblica del Kazakhstan per la Regione Friuli Venezia Giulia. Il Kazakhstan è pronto a ospitare l’evento ed investirà un miliardo e mezzo di euro per la realizzazione del sito espositivo nella capitale Astana, su un’area di 113 ettari. Già nei mesi scorsi alcune aziende del Friuli Venezia Giulia si erano dichiarate interessate alla realizzazione delle opere necessarie all’Expo 2017 e ora che vi è stata l’assegnazione si concretizza una nuova opportunità di business in Kazakhstan per il tessuto imprenditoriale regionale.

Si chiama ATOM la campagna sociale internazionale che mira a creare un supporto globale sulla questione dell’abolizione definitiva degli esperimenti nucleari e della totale liquidazione delle armi nucleari in tutto il mondo. Lanciato dal Kazakhstan il 29 agosto del 2012, dichiarata la Giornata Internazionale delle azioni contro gli esperimenti nucleari dall’ONU, in ricordo della chiusura del poligono nucleare di Semipalatinsk nel 1991 dal Presidente Nazarbayev.
ATOM porta in primo piano la sofferenza delle singole persone, sparse in tutto il mondo, vittime degli esperimenti nucleari durati decenni: quasi 15 milioni di vittime delle radiazioni, nei paesi come il Kazakhstan, le Isole Marshall, il Giappone e l’Algeria. Il progetto consente a qualsiasi persona di sostenere l’appello ai governi del mondo di rinunciare per sempre agli esperimenti nucleari e ottenere una rapida entrata in vigore del trattato di divieto totale degli esperimenti nucleari. Organizzare dunque un movimento sociale che porti a un referendum globale sul disarmo nucleare.

L’incontro è stato infine l’occasione per ricordare che da giugno 2011 a giugno 2012 la Repubblica del Kazakhstan è stata Presidente del 38esimo Consiglio dei Ministri dei paesi membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, la più grande organizzazione intergovernativa dopo le Nazioni Unite, che comprende 57 stati e una popolazione complessiva di 1,5 miliardi di persone.

Il Kazakhstan, ex repubblica dell’Unione Sovietica, è situato tra Europa ed Asia. Confina ad est con la Cina, a ovest e nord con la Russia. Il confine tra i due Paesi, lungo circa 6846 km, è uno dei più lunghi al mondo. A sud il Kazakhstan è delimitato da alcuni paesi dell’Asia centrale, quali il Kirghizistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan. Ad ovest ha una lunga fascia costiera sual Mar Caspio. La sua estensione di circa 2,7 milioni di km² è pari a quella dell’intera Europa occidentale. La popolazione è pari a circa 15 milioni di abitanti, prinicipalmente di religione mussulmana. Le altre religioni presenti sono quella cristiana e buddista. L’economia del Kazakhstan è fondata sulla ricchezza di risorse minerarie: il paese possiede infatti circa il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica. Vengono estratte grandi quantità di ferro, carbone, petrolio, metano e diversi metalli usati nell’elettronica, nell’ingegneria nucleare e nella missilistica. Il Paese è anche un importante produttore di materie prime agricole, quali frumento, frutta, ortaggi, tabacco, riso, canapa e cotone.

 

http://www.informatrieste.eu/articoli/?entry=entry121219-234121

LA QUESTIONE CIPRIOTA

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L’isola di Cipro, isola eurasiatica per eccellenza in quanto situata nel cuore del Mediterraneo orientale, presenta ancora oggi la triste peculiarità di essere divisa da un confine la cui sorveglianza spetta ai Caschi Blu incaricati della più lunga operazione di “mantenimento della pace” mai dispiegata dalle Nazioni Unite. Il motivo per cui quest’isola deve rimanere tuttora divisa e lacerata da un conflitto interno che impedisce la riunificazione dei due stati sotto un’unica bandiera, è però taciuto dai testi storici convenzionali, forse per il fatto che andrebbe ad aggiungere un’altra pagina non certo lusinghiera al libro nero del neocolonialismo esercitato dall’Occidente nel secondo dopoguerra.

Cipro, la cui popolazione è greco-ortodossa (“A Cypriot may be anything by blood, but, being Orthodox, he thinks of himself as a Greek“‘ ebbe a scrivere il Times nel 1928), dopo esser stata dominata per secoli da Fenici e Romani, Franchi  e Veneziani, passò sotto il governo ottomano nel 1571, per restarvi sino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Già nel 1878, tuttavia, la Gran Bretagna aveva esteso la sua longa manus sull’isola, divenuta di fondamentale importanza strategica in seguito all’apertura del Canale di Suez nel 1869. Questo evento rivoluzionò le rotte marittime delle compagnie commerciali, tra le quali le più floride e potenti erano quelle di Sua Maestà, che trasportavano merci dall’Oriente verso Occidente e viceversa. Possedere una “piazza d’armi”, come s’espresse in merito l’allora Primo Ministro britannico Disraeli, divenne una necessità per salvaguardare gli interessi economici e geopolitici del Regno Unito. Infatti nella Convenzione anglo-turca, con cui il Sultano cedeva alla regina Vittoria l’effettivo possesso di Cipro mantenendo esclusivamente una formale sovranità, era contenuta anche una clausola: l’agonizzante Impero ottomano riceveva da Londra un aiuto militare contro la Russia, la quale, seguitando nella sua espansione meridionale allo straordinario ritmo di circa 150 chilometri quadrati al giorno, iniziava ad inquietare non poco la Gran Bretagna, le sue vie commerciali e addirittura le sue colonie, India in primis. La popolazione cipriota, che parallelamente a quella greca aveva provato ad emanciparsi dal dominio ottomano nel corso dell’Ottocento, vedeva nell’arrivo degli inglesi un’ulteriore possibilità di successo nelle sue aspirazioni. L’Inghilterra aveva sostenuto la popolazione ellenica in occasione dello sforzo finale verso l’indipendenza nella guerra degli anni ’20, periodo in cui si diffondono nel mondo greco i concetti di “enosis” (neogreco ένωση, unione) e di “megali idea” (Μεγάλη Ιδέα, grande idea), riguardanti rispettivamente l’unione di Cipro alla madrepatria greca e la simultanea riunificazione di tutti i territori abitati storicamente da popolazioni di etnia ellenica (Creta, Cipro, le Cicladi, il Dodecaneso, Smirne e altre porzioni di Asia minore, ecc…) sotto un’unica bandiera. Queste grandi ambizioni però non ottenevano migliori risultati neanche sotto il patrocinio della Gran Bretagna, la quale, insieme con la dichiarazione di guerra fatta pervenire al Sultano, prendeva possesso a tutti gli effetti dell’Isola allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Iniziò così un lungo periodo nero per la popolazione indigena, vessata in ogni modo dall’amministrazione di Londra: si arrivò addirittura a vietare l’insegnamento della storia greca, a esiliare i vescovi ed i cittadini maggiormente appassionati alla causa ed a sopprimere le libertà civili più elementari. La Chiesa ortodossa fu sempre in prima linea nel sollecitare Londra ad accondiscendere alle richieste della popolazione. Uno dei suoi etnarchi, Makarios III, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in seguito alla quale ancora l’Inghilterra si era nascosta dietro ai grandi proclami ed alle promesse di concessioni, intraprese in prima persona la lotta per l’indipendenza; il momento storico sembrava essere dei più favorevoli, grazie al processo di decolonizzazione iniziato tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50. Richiamandosi ai nuovi princìpi incorporati nella Carta delle Nazioni Unite – l’autodeterminazione dei popoli ed il diritto alla libertà dal giogo straniero – Makarios prese le redini della protesta ed iniziò ad infiammare le folle grazie al suo carisma, diventando una figura mitica non solo fra i suoi concittadini, ma anche fra coloro che realmente credevano nell’emancipazione dei popoli ancora sottoposti al dominio coloniale.

Si giunse così alla situazione in cui il problema cipriota, da “semplice” questione fra gli indigeni occupati ed i britannici occupanti (la minoranza turca, circa il 20% della popolazione, non aveva costituito sino ad allora particolari problemi), divenne una contesa internazionale, in cui gli interessi strategici e militari di alcune delle maggiori Potenze mondiali introdussero la logica bipolare della Guerra Fredda.

Si deve a questo punto fare uno spaccato del contesto nordafricano e mediorientale di quegli anni, valutandone la posta in palio, gli attori impegnati e il motivo per cui Cipro era diventata tanto importante.

L’abbandono delle posizioni in Egitto, in Palestina ed in Iraq da parte degli inglesi rendeva indispensabile il mantenimento di Cipro – e delle sue enormi basi aeree – al fine di mantenere una forza vicina al Medio Oriente ed al Nordafrica. Qui iniziavano infatti a divampare aspirazioni indipendentiste e antioccidentali: in Libia il regime corrotto del re filoinglese veniva rovesciato dal colpo di stato del colonnello Gheddafi; Siria e Yemen si avvicinavano sempre più all’Unione Sovietica, con la quale iniziavano a sviluppare rapporti diplomatici e commerciali; nel 1952 un colpo di stato guidato dal generale al-Nāser rovesciava in Egitto il governo filooccidentale di re Faruk ed instaurava un regime socialista e panarabista con simpatie non celate per l’URSS; la nazionalizzazione del Canale di Suez nel 1956 esacerbava gli animi delle Potenze occidentali e portava all’invasione dell’Egitto da parte di Francia, Regno Unito ed Israele; la nazionalizzazione della Anglo-Iranian Oil Company da parte del primo ministro iraniano Mossadeq scatenava la reazione britannica prima, e statunitense poi. Per queste ragioni veniva siglato nel 1955 il Patto di Baghdad – un accordo  in chiave antisovietica tra Regno Unito e USA da una parte ed una serie di paesi mediorientali dall’altra, quali Turchia, Iraq e Iran (quest’ultimo riportato sotto l’ala occidentale grazie ad un’azione dei servizi segreti americani).

Torniamo a Cipro. La veemenza con cui Makarios insisteva per ottenere l’indipendenza e l’unione alla madrepatria, unitamente all’appoggio espresso a livello internazionale da parte ellenica, fecero aprire gli occhi alla minoranza turca, sino ad allora silenziosa. Questa, iniziando ad esprimere dubbi riguardo al destino dell’Isola, permise agli inglesi di sfruttare a proprio interesse la situazione venutasi a creare. Soffiando sul fuoco del mai sopito antagonismo fra i due paesi, Londra iniziò ad imporre misure che accentuassero la divisione in seno alle due comunità, richiamando l’attenzione della Turchia sulle conseguenze di una Cipro totalmente greca; questo in considerazione della vicinanza di Cipro alle coste turche (40 miglia appena) e del fatto che l’Egeo era diventato nel frattempo un “lago greco”. Era la messa in atto del sempre valido principio del divide et impera, in cui i britannici erano maestri, con cui si puntava ad acuire la tensione nell’isola e a rendere indispensabile la presenza di Londra per garantirvi la pace e soprattutto lo status quo. Vi era poi da parte occidentale una marcata simpatia nei confronti della Turchia; essa era in primis uno Stato grande, anticomunista, dotato di uno degli eserciti più forti e organizzati al mondo e situato in posizione strategica per il controllo dell’area mediorientale. Godeva di ampie simpatie all’interno dei palazzi della politica britannica ed era, non a torto, considerata uno dei più validi membri della NATO. Alla Grecia, invece, che si presentava piccola, militarmente debole e con una situazione politica spesso travagliata, non si dedicavano molte attenzioni.

Era l’Unione Sovietica a posare il suo occhio su Cipro, in virtù sia della simpatia che il nazionalismo “socialisteggiante” di Makarios ispirava, sia del principio di autodeterminazione dei popoli. In merito, non si vorrà certo negare che con queste mosse – come quando affermava che il diritto all’emancipazione per i ciprioti doveva realizzarsi con il “contemporaneo smantellamento di tutte le basi militari straniere ivi presenti e l’evacuazione delle truppe” – Mosca tirasse acqua al proprio mulino; ma, in ogni caso, la causa cipriota si ritrovò ad avere uno sponsor di tutto rispetto, fatto che le permise anche di guadagnarsi rapidamente la simpatia e la solidarietà dei paesi del cosiddetto “terzo mondo” e di quelli non-allineati.

Quel che accadde successivamente, però, introdusse nella vicenda i toni della beffa. Si addivenne nel 1960, dopo lunghe trattative, alla proclamazione dell’indipendenza della Repubblica di Cipro: una repubblica in cui gli interessi della gran parte della popolazione (quella greca) venivano frustrati a favore di quelli della componente turca, avvantaggiata sotto tutti i punti di vista; una repubblica ostaggio del cosiddetto “trattato di garanzia”, ove i garanti erano Grecia, Turchia e ovviamente Regno Unito. Il trattato impediva alla neonata Repubblica di intraprendere autonomamente le più elementari funzioni previste dal moderno modello di “nazione”, facendola assomigliare più ad un territorio in regime di protettorato. Ci si riferisce all’impossibilità di redigere autonomamente una costituzione, all’impossibilità effettiva di modificarla, all’impossibilità di stringere accordi commerciali con paesi terzi, al diritto di muovere guerra, ecc… In merito, il massimo esperto italiano della condizione giuridica di Cipro, il professor Grandi, espresse nel suo principale lavoro un’emblematica riflessione: “…nel dar vita alla nuova formazione statale, gli accordi di Zurigo e Londra [quelli con cui si stabilì la nascita dello Stato cipriota, n.d.a.] provvedevano a priori a limitarne considerevolmente le competenze interne ed esterne, fornendo un chiaro esempio di subordinazione dell’organizzazione politica e costituzionale di uno Stato ai prevalenti interessi internazionali che ne avevano suggerito la creazione”.

Makarios, eletto Presidente e resosi conto dell’impossibilità materiale di ottenere di più, preferì in ogni caso una simile condizione, considerandola come punto di partenza per ipotetici sviluppi futuri; tuttavia l’enosis così s’allontanava e con essa il consenso della popolazione, che presto lasciava posto al malcontento e poi alla rabbia. L’aver esacerbato la situazione in questo modo (e si devono omettere diversi tristi particolari della vicenda) fece rapidamente precipitare gli eventi; così si arrivò agli incidenti del dicembre 1963, che originarono l’invio della Forza di pace dell’ONU, l’UNFICYP, avvenuto nel marzo dell’anno seguente. Nei successivi dieci anni i momenti di tensione e violenza, da ambo le parti, si alternarono a quelli di relativa calma e distensione. La vita di Cipro fu però sconvolta definitivamente da ciò che però accadde il 15 luglio del 1974, quando un colpo di Stato orchestrato dalla Grecia e condotto da ciprioti e greci rovesciò il governo di Makarios, provocando un’istantanea invasione da parte dell’esercito di Ankara.

Ancora una volta è indispensabile riassumere la situazione dell’area circostante: nel 1973 la guerra dello yom kippur e il conseguente trauma petrolifero agitavano nuovamente il Vicino Oriente e il mondo intero, che vedeva crescere i prezzi del greggio perv effetto della rappresaglia economica dei paesi OPEC contro l’Occidente, per l’appoggio fornito da quest’ultimo ad Israele. Pochi anni prima, un colpo di Stato orchestrato dalla CIA aveva portato al potere in Grecia il governo dei Colonnelli, passato poi alla storia come “la Giunta”, che avrebbe segnato in maniera indelebile il futuro prossimo di Cipro.

Sull’isola il golpe andava in porto. Makarios era costretto a fuggire e trovava rifugio a New York, dove parlava al Consiglio di Sicurezza; quest’ultimo adottava all’unanimità una risoluzione volta all’immediato ristabilimento delle condizioni antecedenti il rovesciamento dell’etnarca. Contemporaneamente, le armate turche iniziavano l’invasione di Cipro, sconfiggendo agevolmente le esigue formazioni greco-cipriote e commettendo atti qualificati come crimini di guerra e contro l’umanità (esecuzioni sommarie di prigionieri e uso di bombe al napalm contro la popolazione inerme); arrivavano ad occupare in dieci giorni di combattimenti circa il 37% del territorio, cacciandone via gli abitanti di etnia greca e impossessandosi della porzione più ricca e sviluppata dell’isola. Questa parte, che avrebbe presto conosciuto il declino a causa dell’inefficienza dei coloni turchi fatti prontamente affluire da parte di Ankara per ripopolarla, sarebbe in seguito divenuta quella che è nota come la Repubblica Turca di Cipro, riconosciuta esclusivamente dalla Turchia e con un’economia fondata per lo più sui sussidi provenienti dalla madrepatria.

Alla fine di luglio cessavano le ostilità, ma nulla tornò più ad essere come prima, eccezion fatta per gli ampi territori al cui interno si trovavano le basi militari britanniche, che restavano saldamente in mano di Londra.

Dopo quasi quarant’anni, la situazione é ancora fondamentalmente la medesima. Il tentativo di portare Cipro sotto la Grecia tramite il golpe aveva avuto il risultato finale di mantenere a lungo termine lo status quo, la soluzione più auspicata da parte britannica e occidentale.

MOVIMENTI NAZIONALI NELL’AMERICA IBERICA

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Quando parliamo di “movimenti nazionali nell’America Iberica” – e non nell’America Latina, come piace chiamarla sia alla sinistra progressista, sia al mondo liberale e cristiano-sociale – facciamo riferimento a quei movimenti che hanno concepito “il nazionale” non semplicemente nell’ambito ristretto d’una ventina di Stati-nazione, ma all’interno del nostro ecumene culturale. Ci riferiamo a quei movimenti che hanno pensato, per dirla col cileno Joaquín Edwards Bello, al “nazionalismo continentale”. La Nazione con la maiuscola. La “Patria Grande” sognata da uomini d’azione come Artigas, Bolivar, San Martín, Morazán, Santa Cruz, O’Higgins, Del Valle, Haya de la Torre, Perón, Vargas, Cárdenas, Barrios, Torrijos, Arévalo, Sandino, Albizu Campos e, per venire ai giorni nostri, come Castro, Chávez o Morales. Quella grande nazione indoiberica teorizzata da pensatori come Rufino Blanco Fombona, José Vasconcelos, Rubén Dario, Julio Ycaza Tigerino, Vicente Sáenz, Joaquín García Monge, Santos, Chocano, Víctor Belaunde, Francisco García Calderón, Alejo Carpentier, Eduardo Caballero Calderón, Arturo Ardao, Arturo Jauretche, Jorge Aberardo Ramos, Carlos Montenegro, Natalicio González, Gonzalo Zaldumbide, Pedro Henríquez Ureña, Alfonso Reyes, Enrique Zorrilla, Juan Pablo Viscardo, Augusto Salazar Bondy, Mariano Picón Salas, Alberto Zum Felde, Alberto Masferrer, Carlos Arturo Torres, Darcy Ribeiro, Juan José Hernández Arregui, José Luis Torres, Manuel Ugarte, José María Vargas Vila, Enrique Gómez Carrillo, José Martí e tanti altri. E per quanto riguarda i giorni nostri, volendo menzionarne giusto dieci (un esempio per ciascuno dei paesi sudamericani), potremmo fare i nomi di: Helio Jaguaribe, Pedro Godoy, Horacio Cagni, Alberto Methol Ferré, Luis Corsi Otálora, Jorge Báez Roa, Andrés Soliz Rada, Edgardo Lander, Catón Villacreces, Fernando Fuenzalida.

Anche se ci limitiamo allo studio telegrafico dei movimenti nazionali iberoamericani (MNI) durante il secolo XX, crediamo di doverne ravvisare le radici e la fonte nella commozione che scaturì dalla Guerra Ispano-Nordamericana del 1898, con la conseguente nuova coscienza che maturò tra gli Americani indoiberici, come esaurientemente dimostrato da Horacio Cagni nel suo magnifico libro La guerra hispanoamericana y el inicio de la globalización (nato inizialmente, nel 1997, come semplice articolo per la rivista metapolitica “Disenso“). Si badi bene, però, che noi non consideriamo la nascita di questi movimenti nazionali come una risposta alla “guerra interimperialista”, tesi difesa da J.A. Ramos in Historia de la nación latinoamericana, dove non solo è del tutto ignorata l’unica guerra che commosse tutta la nostra America nel suo insieme, ma – causa il pregiudizio o una tara marxista – sono tralasciati tutti quei movimenti di taglio nettamente e schiettamente nazionalista ispanoamericano, come quelli di Albizu Campus a Puerto Rico, di Juan José Arévalo in Guatemala, di Arnulfo Arias a Panamà, di José Figueres in Costa Rica, di Velazco Ibarra in Ecuador. Senza complessi d’inferiorità, affermiamo che bollare questi movimenti nazionali come “movimenti nazionali borghesi”, come “nuovo bonapartismo”, come “riformismo industriale borghese”, solo perché non coincidono con la purezza razziale del marxismo-leninismo, e sostenere che la rivoluzione cubana sia il solo esempio valido per tutta la nostra America, significa, in definitiva, non aver capito cosa sia l’America e chi siamo noi Americani. Così facendo, si getta al vento l’encomiabile sforzo d’uno dei più lucidi pensatori nazionali della sinistra americana solo per un pregiudizio teorico, ignorando che, sebbene vi sia sempre stata opposizione tra popolo e oligarchia, dentro la classe lavoratrice ed i sostenitori del sistema demoliberale borghese si nascondo in realtà – come denunciato da Getulio Vargas nel suo testamento politico – “i poteri indiretti dei gruppi economici e finanziari internazionali che hanno permesso la spoliazione del nostro continente durante gli ultimi due secoli”.

Il nemico principale è l’imperialismo nella sua forma più incarnata ed occulta (la “sinarquía” di cui parlava Perón), mentre i nemici secondari sono le oligarchie cipayas (1). Se parliamo delle oligarchie locali ma tacciamo dei poteri occulti che le hanno orchestrate in passato e continuano a farlo oggi; se ci tormentiamo per le une ma non vediamo gli altri, allora stiamo ponendo il carro davanti ai buoi. Mutatis mutandis, questo è quello che sta facendo Noam Chomsky per spiegare gli spropositi compiuti da George Bush con i bombardamenti dell’Afghanistan e dell’Iraq, addossandogli tutta la responsabilità senza menzionare la lobby neoconservatrice che sta dietro alle sue decisioni e che, guarda caso, è nordamericana. O come l’analista internazionale Marcelo Diament, il quale sostiene che Israele bombarda e massacra in Palestina e in Libano perché appendice vicinorientale degli Stati Uniti, mentre in realtà sono proprio gli USA ad essere al servizio d’Israele e dei suoi interessi.

Ricapitolando, noi sosteniamo che i MNI non sono un prodotto della Prima Guerra Mondiale o della “guerra interimperialista”, bensì nacquero dalla commozione che suscitò, tra le migliori intelligenze americane, la Guerra Ispano-Nordamericana del 1898, che per la prima volta mostrò al mondo la brama imperiale degli Stati Uniti. Meno ancora, i MNI possono considerarsi come frutto della “disposizione estetica” dell’orbe ispanoamericano in contrapposizione a quella utilitarista e tecnologica del mondo anglosassone, tesi questa sostenuta dallo “americanismo culturale” di gente come José Enrique Rodó, Ricardo Rojas o Waldo Frank. In più queste genuine intelligenze americane hanno reagito denunciando i meccanismi dell’imperialismo, come il potere indiretto e occulto dei gruppi economici e finanziari internazionali: citiamo uomini quali Carlos Pereyra e Salvador Borrego in Messico, José Luis Torres e Scalabrini Ortiz in Argentina, Augusto Cépedes e Carlos Montenegro in Bolivia, ed insomma personalità in tutti i nostri paesi. Cosa che il marxismo, e soprattutto quello del PC, ha sempre rifiutato per principio di trattare studiando fenomeni come i maneggi occulti delle banche internazionali. Sarà forse per una capitis deminutio, che risale al finanziamento della rivoluzione russa da parte della banca israelo-nordamericana Kühn, Loeb & Co.? (2) Questi movimenti nazionali iberoamericani  (MNI) traggono origine proprio da noi, e di noi costituiscono la quintessenza, con tutti i tratti di minore valenza politologica ed ideologica che la intelligencija ama attribuirci (3). Ciò fu notato sagacemente dal lucido pensatore nazionale boliviano Carlos Montenegro, il quale affermò: «La massa popolare s’orienta con sorprendente destrezza nel processo labirintico del conflitto. Partecipa solitamente alle rivolte, e leva il potere a questo o quel caudillo (…). La straordinaria proliferazione delle rivolte si nutre d’un incurabile e fondamentale antagonismo, non risolto dalla Guerra d’Indipendenza. Un antagonismo ch’è rimasto sepolto sotto il suolo della Repubblica, come un seme appena ricoperto dalla cappa di terra dell’ordine repubblicano. I suoi tanti e continui germogli rivelano che si tratta d’una vegetazione adatta alla terra ed al clima. La rivolta (come espressione del movimento nazionale) è una delle forme di lotta tra le due tendenze – la coloniale e la nazionale – durante le guerre d’indipendenza» (4).

Ciò che pongono in questione tali movimenti nazionali americani è il regime politico rappresentativo, che disattese ab ovo, sin dall’inizio stesso dell’Indipendenza, la volontà dei nostri popoli. Le élites dirigenti (parlando in creolo, le oligarchie regionali con i rispettivi interessi irriducibili gli uni a quelli delle altre) non solo contribuirono al frazionamento della grande nazione ispanoamericana, ma in più imitarono e copiarono il regime politico parlamentare, liberale e borghese degli Stati Uniti o della Francia. Il loro desiderio d’indipendenza non era una vocazione politica, bensì derivava dal desiderio di poter commerciare liberamente i propri prodotti. Libertà che si poteva assicurare solo se ognuna di esse manteneva il proprio “paesello” con le rispettive dogane. Questa è la contraddizione principale alla base di tutta l’Indipendenza americana: i patrioti, i nazionali, lottarono per convinzione politica sotto la bandiera ideale d’una Patria Grande; le élites (soprattutto urbane) per la libertà di commercio ed una piccola patria. Gli uni ci misero il cuore e sacrificarono le loro stesse vite; gli altri, tutt’al più, ci misero il denaro, ma solo per guadagnarne di più.

 

         1. Messico

Il movimento nazionale in Messico non nacque da un giorno all’altro, ma visse una lunga gestazione, dopo la quale si sviluppò per tappe. Si generò come reazione al “porfirato“, il regime di Porfirio Díaz che governò per lo spazio di 35 anni (dal 1876 al 1911), e contro il quale si sollevarono Madero (5) ed Emiliano Zapata al sud, Pancho Villa al nord. Madero vinse le elezioni il 6 novembre 1911 e fu assassinato già il 22 febbraio 1913: tuttavia, il suo ministro dell’educazione, il filosofo José Vasconcelos, ebbe tempo di realizzare la più grande ed importante riforma dell’educazione nella storia del Messico. Da parte sua, Emiliano Zapata presentò il “Plan de Ayala“, esigendo la terra per i contadini.

Carranza (6) fece promulgare la nuova Costituzione del 1917, di carattere anticristiano ma con un alto contenuto sociale. La riforma religiosa durante il governo Calles (7), anticattolico dichiarato, provocò la guerra dei Cristeros (1927-1929), con la sollevazione del popolo minuto negli Stati di Michoacán, Colima e Jalisco, che si batté fino alla morte contro gl’inqualificabili crimini del “callismo” ed il silenzio complice della gerarchia cattolica messicana. Così, nei confronti delle stragi a man salva e della prevaricazione in nome dell’illuminismo, realizzati dal regime del “turco” Plutarco Elías Calles, l’interpretazione marxista della rivoluzione messicana osserva un rispettoso silenzio. Primo, perché sono ingiustificabili; secondo, perché lottare, come fecero i cristeros, al grido di “Viva Cristo Rey” è inconcepibile per chi crede che “la religione sia l’oppio dei popoli”. Lo stato d’angoscia durò quindici anni, finché nel 1934 fu eletto Lázaro Cárdenas, il quale attuò la riforma agraria e distribuì venti milioni di ettari a 800.000 famiglie. Creò organismi di protezione industriale e banche di credito popolare. L’attitudine popolare del governo Cárdenas si fece sentire in tutti gli aspetti della vita pubblica, soprattutto nella seconda parte del suo mandato, quando cercò di scrollare di dosso al paese l’influenza massonica di Calles e attuò un radicale rivolgimento della sua politica religiosa. «Cárdenas, persona di buon cuore, pose fine al conflitto tra il governo rivoluzionario ed il cattolicesimo nazionale» (8). A questa misura esemplare  va aggiunto il decreto del 18 marzo 1938, con cui nazionalizzò il petrolio. Per i marxisti, il suo fu un governo “un po’ borghese e bonapartista”; per noi, il governo più popolare avuto dal Messico in tutta la sua storia. La differenza con le rivoluzioni francese e russa, le quali furono costruite su teorie politiche, è che in Messico prima s’ebbe la lotta armata, poi l’ideologia politica atta a giustificarla. E la lotta armata la condusse Francisco Madero [«In tutta la storia del Messico non ci fu mai governo più autonomo, più rispettoso della libertà, più alieno da ogni influenza straniera, che quello di Madero» (9)]; mentre l’ideale politico, un misto di socialismo e liberalismo, massoneria ed anticattolicesimo, lo fissò il suo assassino, Carranza, con la costituzione del 1917, che ancora oggi regge, ancorché morigerata, i destini del Messico.

 

         2. Guatemala

Contro la dittatura di Ubico (1935-1944) si scagliò il movimento nazionale rivoluzionario capeggiato da un  triumvirato composto dai militari Jacobo Arbenz e Francisco Arana e dal civile Jorge Toriello, che patrocinò la candidatura del pensatore e pedagogo Juan José Arévalo per un periodo di sei anni, dal 1945 al 1951. Il governo d’Arévalo varò il nuovo codice del lavoro e l’istituto d’assicurazione sociale. La rivoluzione pedagogica e la diffusione dell’insegnamento fin negli ultimi anfratti sociali, rappresentarono i suoi massimi successi. Racconta a tal proposito Manuel Galich, suo ministro degli esteri: “Un giorno mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: “Stiamo per creare un’autentica architettura scolastica e per rivoluzionare la stessa pedagogia. Stiamo per liberare bambini e maestri dalla campana e dagli orari, rendere indipendente ogni aula dalle altre, cosicché ciascun maestro potrà regolare i suoi tempi di lavoro secondo la fatica dei propri alunni, senza che la ricreazione degli uni pregiudichi le lezioni degli altri. Nel contempo, stiamo per dare l’occasione ai bambini d’un certo grado di partecipare, in comune con gli altri, ad attività di socializzazione” (10). Gli successe Jacobo Arbenz, il quale aveva come cancelliere Guillermo Toriello, senza dubbio il ministro delle relazioni estere più nazionalista nella storia dell’America Iberica (11). Il carattere socializzante delle misure di Arbenz, che venivano ad approfondire quelle analoghe di Arévalo, e l’autonomia d’azione in politica estera fecero sì che, con l’assistenza degli Stati Uniti, il 26 luglio 1954 fosse rovesciato da un golpe militare.

Juan José Arévalo studiò all’Universidad Nacional de La Plata, e si distinse come valido saggista; tra i suoi lavori, citiamo come maggiormente significativi: Istmania o la unidad revolucionaria de Centroamérica (1954), Guatemala: la democracia y el imperio (1955), Fábula del tiburón y las sardinas (1956), tutti editi a Buenos Aires. Inoltre, l’Universidad Nacional de Tres de Febrero ha completato la pubblicazione di Escritos y discursos políticos 1935-1951.

 

         3. Nicaragua

Al fine di riportare la pace dopo la destituzione di Emiliano Chamorro (1926) (12), furono convocate nuove elezioni, supervisionate dagli Stati Uniti, nelle quali trionfò José María Moncada (1929-1933). Un nuovo intervento armato da parte dei marines nordamericani convinse un generale di Moncada, Augusto Cesar Sandino, a sollevarsi e cominciare una guerra per bande settennale tra le montagne nel Nicaragua Settentrionale. Quando si ritirarono, le truppe nordamericane lasciarono in propria vece la Guardia Nacional, il cui comandante era Anastasio Somoza. La situazione politica sembrò rasserenarsi e Sandino fu invitato ad abbandonare le armi e la montagna per parlamentare nel palazzo presidenziale; all’uscita del quale, la notte del 21 febbraio 1934, fu assassinato dagli uomini di Somoza. Il principale scritto di Sandino reca il titolo significativo di Plan de realizacíon del sueño de Bolivar (1929): in esso propone la ricostruzione della nazionalità latinoamericana da parte dei ventuno Stati che la compongono, inclusa Haiti; propone la creazione di un’unica corte di giustizia, un’unica forza armata (di terra, aria e mare), un solo parlamento ed un solo istituto bancario latinoamericano.

Nel luglio 1979 Daniel Ortega, invocando l’eredità di Sandino, prese il potere in Nicaragua, avviando quella rivoluzione chiamata appunto “sandinista”. Tra i suoi provvedimenti si distinsero l’ampia campagna d’alfabetizzazione, la nazionalizzazione delle imprese e la creazione di cooperative di lavoratori; tuttavia, gravi errori nell’amministrazione economica del paese e la dubbia condotta dei suoi più alti dirigenti, sommata all’irriducibile opposizione de “los contras“, portarono alla disfatta elettorale del 1990.

 

         4. Costa Rica 

L’annullamento delle elezioni del 1948 scatenò la guerra civile da cui uscì vincitore José Figueres, fondatore del Partito di Liberazione Nazionale. Nel ’53 questi giunse al potere e nazionalizzò le banche; inoltre, rese effettiva la Costituzione del 1949, fondatrice della cosiddetta seconda repubblica. Ritornò nuovamente al potere nel 1970, e per mezzo secolo fu il “grande elettore” della Costa Rica. Sul finire della carriera politica decretò l’abolizione dell’esercito. Il movimento di liberazione nazionale, di taglio socialdemocratico, durante le sue tre presidenze e quelle dei successori, riuscì a costruire una società democratica basata sullo sviluppo sociale, l’equità e la solidarietà.

Nel quadro della storica lotta contro l’imperialismo, merita una menzione particolare il costaricense Juan Rafael Mora, il quale respinse l’invasione filibustiera comandata da William Walker, uno statunitense che nel 1855 aveva preso il potere in Nicaragua e cercava d’estendere il proprio dominio sul Centroamerica.

 

         5. Panama

Nel 1931 Arnulfo Arias (1901-1988) fondò la Coalición Nacional Revolucionaria. Fu eletto presidente nel ’41 e promulgò la nuova costituzione del paese; varò una serie di riforme significative, ma al nono mese venne rovesciato da un colpo di Stato. Nel ’48 fu eletto per la seconda volta, ma nuovamente rovesciato nel ’51.

Nel gennaio del 1964 si verificò un grave incidente con gli Stati Uniti nella zona del canale, che costò numerose vite; motivo per cui Panama ruppe le relazioni con Washington e si rifiutò di negoziare un nuovo accordo per il canale. Il capo nazionalista Arnulfo Arias si pose alla testa della rivolta. Nel ’68 fu eletto per la terza volta, ma ancora venne rovesciato dopo appena undici giorni, questa volta ad opera del colonnello Omar Torrijos, rappresentante d’una giunta militare. Una nuova costituzione pose in essere un regime militare e nazionalista, dominato da Torrijos che assunse simultaneamente la presidenza del governo ed il comando della Guardia Nazionale, unica forza armata del paese, con funzione sia di difesa sia d’ordine pubblico. Sostenitore della via militare al socialismo, strinse relazioni con Cuba, ma il fallimento del regime peruviano di Velasco Alvarado (13) lo convinse a cambiare alleanza e passare con Messico, Venezuela e Colombia. Nel 1973 ottenne una risoluzione delle Nazioni Unite favorevole al recupero della zona del canale, e più tardi firmò due trattati (1977 e 1978) con gli Stati Uniti per la sua devoluzione nel 1999. Nel 1978 abbandonò la presidenza del governo, ma, in qualità di generale a capo della Guardia Nazionale, mantenne le redini del potere fino all’incidente aereo che ne provocò la morte.

 

         6. Puerto Rico 

È riconosciuto, benché poco noto, che la Guerra Ispano-nordamericana del 1898 rappresenta, in termini politologici, l’avvio della globalizzazione. A seguito di quella gli Stati Uniti ottennero il controllo di Filippine, Hawai, Guam, Guantánamo e Puerto Rico, oltre a pretendere pervicacemente la Perla dei Caraibi.

Il movimento nazionale a Puerto Rico ruota intorno alla leggendaria figura di Pedro Albizu Campos (1891-1965), condottiero nazionalista e indipendentista. Dalla sua lontana adesione al partito nazionalista nel 1924 fino alla morte, per quarant’anni lottò con tutti i mezzi a disposizione per la liberazione del proprio paese. Così, si precluse la partecipazione alle elezioni coloniali ed il servizio militare. Nel ’36 venne accusato di cospirare contro il governo degli Stati Uniti, e dopo i massacri di Ponce fu imprigionato ad Atlanta sino al 1947. Nel ’50 venne nuovamente incarcerato per un attentato contro Truman. Indultato nel ’53, un attentato alla Camera dei Rappresentanti statunitense lo ricondusse nuovamente in prigione, dove morì nel 1965.

Uno dei pensatori più significativi di questo movimento nazionale è il giornalista e saggista Antonio S. Pedreira, con la sua opera Insularismo, ensayo de interpretación portorriqueña (1934).

 

         7. Cuba 

Il famoso Emendamento Platt, conseguenza del Trattato di Parigi del 10 dicembre 1898, fu imposto dagli Stati Uniti alla convenzione costituente cubana del 1900-01, che convertì la nascente repubblica in uno Stato semi-sovrano; così fu per sessant’anni, finché il “movimento del 26 luglio” non rovesciò la dittatura di Fulgencio Batista (1959). Fidel Castro, a seguito della rivoluzione cubana di deciso taglio marxista, promosse un cambiamento radicale in tutto il sistema politico, sociale, culturale ed economico dell’isola. Anche se si cominciò con un “infeudamento” sovietico, lentamente quello che è conosciuto come “castrismo” sviluppò caratteri propri ed acquisì una relativa autonomia, adattandosi alle particolari circostanze dell’America Indoiberica.

 

         8. Ecuador

Nel 1895 avviene uno di quei fatti emblematici che spingono i popoli alla sollevazione: il governo ecuadoriano presta la propria bandiera al Cile perché la possa utilizzare per l’incrociatore Esmeralda, venduto al Giappone in guerra con la Cina, così da fargli attraversare il Pacifico senza pericolo. La rivolta che ne derivò portò al potere Eloy Alfaro (1842-1912), che fece approvare una nuova costituzione e governò il paese per due mandati sino al 1911, gettando i semi d’una chiara coscienza nazionale, non ostante la sua forte impronta liberale.

La continuazione del movimento nazionale ecuadoriano fu incarnata da José María Velasco Ibarra, cinque volte presidente (per la prima volta nel 1934 e l’ultima nel 1970) e cinque volte rovesciato da colpi di stato. Il “velasquismo”, come movimento politico di taglio nazionale, si distinse per le sue riforme pubbliche e sociali, quali l’introduzione del riposo settimanale per i lavoratori, il miglioramento delle condizioni dell’esercito, le opere d’irrigazione, la costruzione di scuole tecniche, strade ed aeroporti.

 

         9. Perù 

L’APRA, movimento politico e culturale fondato da Víctor Raúl Haya de la Torre, si formò ideologicamente tra il 1924 e il 1930. Esso ha la rara particolarità che il suo capo e fondatore non giunse mai ad esercitare il potere, proprio come successo a José Antonio Primo de Rivera col falangismo ed a Corneliu Zelea Codreanu con la Guardia di Ferro romena. L’APRA riuscì a giungere al potere nel 1983 col disastroso governo di Alan García, che nominò vicepresidente il vecchio storico aprista Luis Alberto Sánchez.

L’ideologia dell’APRA, esposta da Haya de la Torre nel suo miglior libro, El antiimperialismo y el Apra, poggia su due princìpi: a) rompere con la colonizzazione culturale e b) creare un fronte dei lavoratori intellettuali e manuali il cui obiettivo è lottare per una confederazione indoamericana. Haya de la Torre fu influenzato da due pensatori nazionali iberoamericani di chiara fama, come il socialista Manuel Ugarte ed il nazionalista José Vasconcelos. Da quest’ultimo trasse la nozione di “Indoamerica”, termine equivoco che potrebbe far pensare all’indigenismo, mentre in realtà mira a riflettere il nostro comune carattere di figli dell’America, che si sia indiani o creoli. La tesi di Haya, in polemica col marxismo-leninismo, è che l’imperialismo, ultima tappa del capitalismo in Europa, è invece la prima nell’Indoamerica, in quanto trasforma il regime feudale-commerciale, esportatore di beni agricoli e minerari, in uno tecnologizzato ed industrializzato.

Una menzione la merita il generale Juan Velasco Alvarado, che nel 1968, con l’appoggio massiccio del popolo, prese il potere per essere poi deposto da un altro golpe militare nel 1975. Durante il suo mandato furono promulgate leggi di riforma agraria e pedagogica, si nazionalizzarono le risorse economiche fondamentali del paese, s’assunse il diretto controllo statale delle compagnie petrolifere e delle telecomunicazioni; inoltre, si tentò di frenare l’influenza economica degli Stati Uniti.

 

         10. Bolivia

Terminata la Guerra del Chaco (1932-35) tra Bolivia e Paraguay  – orchestrata da Standard Oil (USA) e Royal Dutch (anglo-olandese) per spartirsi il controllo sul petrolio – si fece carico del governo boliviano il giovane colonnello Busch, che impose alle grandi aziende minerarie di restituire il denaro ottenuto dall’esportazione illegale di minerali. Val la pena ricordare che la Bolivia era allora una grande miniera a cielo aperto, dominata dalla “spirale mineraria” composta da Simón Patiño, il re dello stagno, Mauricio Hoschschild e Carlos Víctor Aramayo, che facevano e disfacevano i governi a proprio piacimento. Busch finì col suicidarsi nel 1939.

Il 20 dicembre 1943 l’esercito s’alleò con i nazionalisti, tra le cui file erano intellettuali come Augusto Céspedes, Carlos Montenegro e Víctor Paz Estensoro; la coalizione portò al potere il maggiore Gualberto Villaroel, il quale riuscì per la prima volta ad organizzare un sindacato dei minatori. La “spirale” mise termine alla sua opera impiccandolo ad un lampione di Plaza Murillo, il 21 luglio 1946.

Tra il ’46 ed il ’52 il Movimento Nazionalista Rivoluzionario (MNR) acquisì una grande influenza sul popolo boliviano, finché il 9 aprile 1952 questo invase le strade di La Paz, combattendo, disarmando e sconfiggendo l’esercito della Spirale. Ad assumere il potere fu Víctor Paz Estensoro, che lo tenne per dodici anni. Le riforme furono molte e varie, ma l’MNR finì coll’esaurirsi a causa delle numerose divisioni interne e della corruzione dei suoi dirigenti.

Il 22 gennaio 2006 sale al potere Evo Morales, attraverso il suo Movimento al Socialismo (MAS), e si dichiara espressamente a favore d’una politica d’integrazione sudamericana, stabilendo una relazione diretta e franca con la Cuba di Castro ed il Venezuela di Hugo Chávez. Le sue prime misure hanno riguardato la nazionalizzazione degl’idrocarburi, e così ha posto fine alla storica spoliazione delle ricchezze del sottosuolo boliviano.

 

         11. Brasile

La storia del movimento nazionale brasiliano comincia emblematicamente con la “colonna Prestes”, la quale prende il nome da uno dei capitani del generale Isidoro Días López che nel 1924 tentò invano d’effettuare un golpe militare, espressione dell’insoddisfazione di tutte le classi sociali. Nel corso di due anni Prestes marciò lungamente per 36.000 km, sostenendo alcuni combattimenti. Tra le altre cose, reclamava la modernizzazione dei processi politici ed il voto universale e segreto. La crisi del ‘30, vissuta in Brasile come la “crisi del caffé” (il cui prezzo passò da 22,5 a 8 centesimi di dollari), lanciò nella corsa alla presidenza Getulio Vargas, che sventolava come vessillo il nome dell’allora generale Prestes. Tuttavia, Vargas fu sconfitto, ma solo grazie alle frodi dei “signori del caffé”. Già nel ‘37 Vargas salì al potere per stabilire lo “Estado Novo”, un tentativo di rimodellare fin dalle fondamenta il vecchio Stato. Le maggiori caratteristiche del suo periodo di governo furono: politica sociale favorevole ai lavoratori, divisione dei latifondi, produzione di carbone quale surrogato alle importazioni, sviluppo di tutto l’apparato industriale brasiliano. Vargas, sottoposto ad un costante logorio a causa degl’interessi dell’Esercito e dei signori del caffé, sempre in tensione per le incomprensioni della sinistra e la vecchia oligarchia ancora quasi del tutto intatta, scelse di darsi alla morte dell’agosto 1954. Ma, come denuncia nel suo testamento, più di tutto a provocarne il suicidio furono le pressioni dei gruppi economici e finanziari internazionali.

 

         12. Argentina

La crisi del 1930 toccò le strutture politiche ed economiche dell’intera America Iberica, e dunque anche l’Argentina. Cadde il governo di Yrigoyen ed iniziò la “decade infame”, così battezzata da José Luis Torres (nostro maestro politico), ch’ebbe termine con la rivoluzione condotta dai colonnelli del GOU (14) il 4 giugno 1943. Conseguentemente, nel 1946 fu eletto presidente Juan Perón, che lo rimase fino al colpo di stato del 1955. Le misure assunte dal suo governo possono riassumersi ne: lo sviluppo dell’industria leggera; la ricerca in campo nucleare; l’avanzamento nella coscienza della libertà del popolo lavoratore attraverso le sue molteplici organizzazioni sociali (sindacati e unioni d’ogni tipo). A causa della sua politica internazionale d’integrazione sudamericana e non allineamento, Perón fu fin da subito osteggiato dai Nordamericani, finché questo gli costò la destituzione nel 1955. I successivi governi peronisti o pseudo-peronisti hanno mantenuto, almeno formalmente, la stessa strategia internazionale.

La bibliografia relativa al peronismo è pressoché sterminata: noi, per la serie “ogni maestro col suo libretto”, suggeriamo di leggere il nostro Notas sobre el peronismo (2006) (15), che ci risulta essere l’unico studio sul peronismo come teoria politica.

 

         13. Venezuela 

La società venezuelana, dalla caduta di Pérez Jiménez (1959) incatenata alla nefasta alternanza al potere concordata col patto di Punto Fijo (1960) – alternanza pseudodemocratica tra democristiani e socialdemocratici – riuscì a liberarsi con “el caracazo” del 27 febbraio 1989 (16). La conseguenza fu un colpo di stato, che nel 1992 fece conoscere il comandante Hugo Chávez, dapprima imprigionato e poi liberato. Nel 1998 ha vinto le elezioni presidenziali e, al momento d’assumere il potere, ha proclamato le tre leggi fondamentali: proprietà comunitaria della terra, della pesca e degl’idrocarburi; inoltre, ha varato una nuova costituzione ispirata agl’ideali di Simón Bolivar, cioè volta alla realizzazione dell’unità continentale del mondo iberoamericano. Nel 2002 un golpe filo-nordamericano tentò di destituirlo, ma s’infranse contro l’immediata reazione delle forze armate e del popolo venezuelani. Il suo programma sociale, ribattezzato “missione bolivariana”, consiste nell’organizzare i servizi statali non solo attraverso la burocrazia statale, ma anche tramite i militanti della causa bolivariana. La missione comprende diversi ambiti: educazione, salute, casa. L’intenzione è d’edificare un socialismo bolivariano, di carattere sudamericano. La sua originale visione geopolitica è quella del “Venezuela come ingranaggio”, limitando il nord non con l’Atlantico ma con la Francia (Martinica), l’Olanda (Aruba), gli Stati Uniti e l’Inghilterra (vedi i vari “Stati giocattolo” caraibici). L’asse sudamericano passa per Caracas, Brasilia e Buenos Aires, e s’è aggiunta pure La Paz dopo l’ascesa al potere di Evo Morales.

 

         Conclusione 

Abbiamo visto come, all’origine del processo da cui scaturirono i movimenti nazionali della Nostra America nel XX secolo, vi fosse la commozione prodotta in seno alla «intelligenza americana» (per usare le parole di Alfonso Reyes) dalla Guerra Ispano-nordamericana, per provocare la quale gli Stati Uniti ricorsero ad un sotterfugio: affondarono una propria nave, il Maine, ancorata a Cuba, incolpando poi la Spagna. Ebbero così il pretesto per scatenare una guerra che sapevano vinta in partenza, ma per l’ultima volta la Spagna seppe mostrare la propria grandezza. “La guerra ispano-americana, breve ma d’enorme importanza, simboleggiò in America la definitiva sostituzione del Nuovo Mondo al Vecchio, e fu il primo rintocco di campana a morte per quattro secoli d’egemonia culturale, di diritto internazionale e di cosmovisione europea. Fu l’anticamera dell’abisso finale, rappresentato dalla Grande Guerra” (17). Sicché, noi non poniamo l’origine della nascita del movimento nazionale in un avvenimento istituzionale, come i liberali, né crediamo sia la conseguenza della guerra interimperialista, come i marxisti, né la cerchiamo, come fanno gli americanisti estetici, in una disposizione della “anima latina”; bensì, la troviamo nel turbamento della coscienza iberoamericana, provocato dall’aggressione subita dal nostro ecumene. Non si può descrivere adeguatamente un fenomeno senza sapere come cominciò o quale fu la sua causa.

Ciò viene a spiegare il manifestarsi della cosiddetta “generazione del centenario”, che in Messico si radunò attorno all’Ateneo de la Juventud (1909) con Henríquez Ureña, Reyes, Vasconcelos; a Buenos Aires intorno a Leopoldo Lugones, Ricardo Rojas, Manuel Ugarte; ad Alberto Masferrer (1868-1930) a El Salvador; a Fernando Ortíz (1881-1969) a Cuba; a Víctor Andrés Belaunde (1883-1966), José Santos Chocano (1875-1934) e Francisco García Calderón (1883-1953) in Perù; a Joaquín García Monje (1881-1958) in Costa Rica – e nel resto dei paesi dell’America Iberica fiorirono tanti altri pensatori nazionali, che già enumerammo all’inizio.

Come s’è potuto osservare attraverso la lettura di questo breve riassunto, sono tredici i paesi del nostro ecumene culturale iberoamericano in cui, durante il XX secolo, si cercò di consolidare un movimento nazionale legato alle radici continentali. Sono invece molto pochi i paesi in cui ciò non fu neppure tentato: Cile, Colombia, Paraguay, Uruguay, Honduras, El Salvador e Repubblica Dominicana. Si può darne una spiegazione e lo faremo caso per caso.

Lo sviluppo storico del Cile in epoca coloniale, col ruolo di capitanato generale, ne ha provocato l’isolamento rispetto alla Nostra America. E, per quanto abbia avuto grandi pensatori nazional-americani come Edwards Bello, Enrique Zorrilla o Pedro Godoy, non si riuscì a creare un movimento nazionale integrazionista con capacità di direzione politica. La disposizione integrazionista di Salvador Allende dipendeva dal suo marxismo ed era ristretta agli altri partiti comunisti, ma non dipendeva certo da una vocazione iberoamericana che non possedeva.

Il caso della Colombia si spiega con la spaccatura provocatasi nel paese a partire dall’assassinio nel 1948 del capo popolare Jorge Eliécer Gaitán (18), con la contrapposizione tra liberalconservatori da un lato e guerriglia marxista (FARC) dall’altro. La guerriglia è funzionale a questo ordine di cose, giacché – assieme al narcotraffico – giustifica l’intervento diretto degli Stati Uniti nella regione. Non a caso, da quasi mezzo secolo convivono in Colombia il regime liberale più filostatunitense del Sudamerica e la guerriglia marxista più longeva del continente. Fa specie questa guerriglia che non trova adepti né nei paesi vicini, né tra il regime marxista di Castro a Cuba, non ostante appartengano alla stessa famiglia d’idee. Parimenti strana l’adesione incondizionata agli Stati Uniti d’un liberalismo ad oltranza che non ha alcun alleato nella regione. Che ci sarà dietro le quinte? (19) Non sarà forse che la Colombia possiede tutte le caratteristiche d’un paese imperiale: il carattere bioceanico, la ricchezza del suolo e la fierezza dei suoi uomini, tutto ciò unito alla superiore qualità spirituale dei suoi abitanti?

I casi di Uruguay e Paraguay hanno connotazioni simili, in quanto caratterizzati dal criterio dell’opportunismo politico nelle relazioni col Brasile e l’Argentina, talvolta strette talvolta distanti, talvolta cordiali talvolta fredde, come vuole la meschinità tipica dei piccoli paesi. Così, per tutto il XX secolo il Paraguay fu semplicemente una dittatura commerciale, con la sola eccezione del presidente Natalicio González, poi costretto a fuggire in Argentina. Per quanto concerne l’Uruguay, basterà ricordare il nomignolo affibbiatogli dal suo massimo storico, Washington Reyes Abadie, e cioè “Ponsombilandia” (dal nome dell’ambasciatore inglese lord Ponsomby). Degno di menzione è Luis Alberto Herrera il quale, all’interno del partito bianco, capeggiò una corrente d’opinione dai tratti nazionali, senza però riuscire a darle forma politica.

Il caso di Honduras e El Salvador si spiega con le contraddizioni interne a questi paesi, che nel corso del XX secolo impedirono loro di sviluppare una politica statale; inoltre, per anni si cercò di risolvere tali contraddizioni attraverso la guerriglia tra bande, cagionando gravi perdite umane e materiali. A Santo Domingo il problema è lo stesso: una società con contraddizioni irrisolte che per un secolo oscillò tra due personaggi, Joaquín Balaguer e Juan Bosch, l’uno conservatore e l’altro socialista. Impossibile dare forma al progetto nazionale dominicano.

Come abbiamo visto, i movimenti nazionali nella Nostra America sono riusciti a mobilitare i popoli nella misura in cui i popoli stessi hanno trovato unità d’azione. È proprio dell’imperialismo, come faceva già Zeus sull’Olimpo, dividere per dominare. Infatti, abbiamo evidenziato come quei pochi paesi dell’America centro-meridionale a non aver mai avuto un proprio movimento nazionale, siano stati penalizzati dalle divisioni interne. Per tale ragione non posso che denunciare il bipartitismo come uno degli strumenti di dominazione dell’imperialismo e dei poteri indiretti.

 

* Alberto Buela è docente presso la Escuela Superior de Gobierno de la Pcia. di Buenos Aires; membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos di Cordoba (Argentina). Membro del Comitato Scientifico di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

 

 

 

1. La “sinarchia” (termine che invero non è proprio al vocabolario della lingua italiana , mentre figura in spagnolo ad in altre lingue) è un sistema di governo per cui più personalità gestiscono uno Stato, curando ciascuna una singola parte di territorio. Nell’accezione utilizzata da Perón, la sinarquía è il sistema derivante dall’influenza (non istituzionalizzata) di grandi gruppi commerciali o singole personalità molto facoltose sulla vita politico-economica del paese, ed è cioè sinonimo di “governo ombra”.  Invece i cipayas, nei secoli XVII, XVIII e XIX, erano gl’indigeni americani che s’arruolavano come soldati negli eserciti d’Inghilterra, Francia o Portogallo. Da allora, il termine “cipayo” è divenuto in Sudamerica sinonimo di “collaborazionista”, “traditore” (NdT).

2. Si veda la nostra opera La sinarquía y lo nacional, Bs. As. Ed. Marcos, 1983, p. 9.

3. Un politologo, all’apparenza serio e neutrale (C. Buchrucker, Nacionalismo y Peronismo, Bs. As. Sudamericana, 1987, p. 259), rispetto a questi movimenti parla, con chiaro intento dispregiativo, di “nazionalismo populista”.

4. Carlos Montenegro, Nacionalismo y colonialje, Bs. As., Pleamar, 1967, pp. 73-74.

5. Si tratta di Francisco I. Madero (1873-1913): guidò la rivolta contro il dittatore Díaz e fu eletto presidente del Messico, ma ben presto rovesciato da un golpe e assassinato. (NdT)

6. Venustiano Carranza (1859-1920), già collaboratore di Madero, fu presidente dal 1915 fino alla morte per mano di ribelli. (NdT)

7. Plutarco Elías Calles (1877-1945), contribuì a rovesciare Carranza e fu presidente dal 1924 al 1928. (NdT)

8. José Vasconcelos, Breve historia de México, México, Ed. Continental, 1959, p. 519.

9. Ibidem, p. 432.

10. Manuel Galich, Por qué lucha Guatemala, Bs. As., Elmer Editor, 1956, p. 123.

11. Autore del formidabile libro La batalla de Guatemala, Santiago de Chile, Ed. Universitaria, 1955.

12. Già presidente dal 1917 al 1921, nel 1926 Chamorro (1871-1966) aveva cercato di reimpadronirsi del potere con la violenza, ma il suo governo golpista aveva avuto vita brevissima. (NdT)

13. Il generale Juan Velasco Alvarado (1910-1977) tra il 1968 e il 1975 presiedette un “Governo Rivoluzionario” in Perù, cercando l’alleanza con Cuba e l’Unione Sovietica. Fu rovesciato da un golpe militare. (NdT)

14. Si tratta del “Gruppo degli Ufficiali Uniti” che rovesciò il governo conservatore di Castillo. (NdT)

15. Si trova in Rete: <http://www.pensamientonacional.com.ar>.

16. Punto Fijo era il nome della residenza del futuro presidente Rafael Caldera a Caracas: là si concluse l’omonimo patto di spartizione del potere tra i partiti centristi. Col termine intraducibile di  “Caracazo” sono invece passati alla storia i moti che sconvolsero la capitale del Venezuela (ed i suoi dintorni) negli ultimi giorni di febbraio e nei primi di marzo del 1989: la popolazione si sollevò spontaneamente contro le riforme liberiste del presidente socialdemocratico Pérez, ed il regime “puntofijista” reagì sospendendo la Costituzione ed avviando una sanguinosa repressione militare (si calcola che circa 3000 cittadini inermi furono uccisi dalle forze di sicurezza e dall’esercito, molti dopo essere stati torturati). Nel 1999 la Corte Interamericana per i Diritti Umani ha riconosciuto il governo venezuelano d’allora responsabile per la terribile repressione del caracazo. (NdT)

17. Horacio Cagni, La guerra hispanoamericana y el inicio de la globalización, Bs. As., Olcese Editores, 1999, p. 7.

18. L’avvocato Gaitán (che studiò anche all’Università Reale di Roma) fu sindaco di Bogotà (1936-37), ministro dell’educazione (1940-42) e candidato alla presidenza, prima d’essere ucciso da Juan Roa Sierra. Costui fu subito linciato dalla folla, cosicché non s’è mai saputo quali fossero le reali motivazioni né i mandanti dell’omicidio. (NdT).

19. Come non potrebbe ferirci la frustrazione dell’eroismo congenito di cui è piena la Colombia? La terra di Blass de Lesso che, con solo 3000 uomini, nel 1741 sconfisse i 28000 dell’ammiraglio inglese Edward Vernon a Cartagena de Indias: «Un reggimento nordamericano costituiva parte delle forze invasori di Vernon; si scagliò contro il castello di San Felipe, e ne faceva parte anche Lawrence Washington, fratello del futuro liberatore degli Stati Uniti d’America, George Washington». In Inghilterra avevano già preparato le medaglie commemorative in vista del trionfo, ma dopo un assedio di due mesi dovettero abbandonare la battaglia lamentando la perdita formidabile del 65% dei propri effettivi.

 

Bibliografia:

 

Opere generali per il XX secolo:

 

Julio Ycaza Tigerino, Una sociología hispanoamericana, Managua-Madrid, E.C.H., 1958

Jorge A. Ramos, Historia de la nación latinoamericana, Bs.As, Peña Lillo, 1973

Luis Corsi Otálora, Bolivar: Impacto del desarraigo, Bogotá, Tercer Mundo, 1983

Vicente Sáenz, Rompiendo cadenas (las del imperialismo norteamericano en Centroamérica), México-Bs.As., Ed. Ciade/Palestra, 1933/1961

Moisés Chong Marín, Historia de la cultura en América latina(siglo XX), Panamá, Ed.Chong-Ramar, 1967

Carlos Pereyra, Breve historia de América, Madrid, Aguilar, 1930 (ha avuto molte riedizioni)

 

Messico:

José Vasconcelos, Breve historia de México, México, Ed.Continental, 1959

 

Guatemala:

Guillermo Toriello, La batalla de Guatemala, Santiago de Chile, Ed. Universitaria, 1955

Juan José Arévalo; Escritos y discursos políticos, Bs.As, Univ. Nac. Tres de febrero, 2003

 

Costa Rica:

Rodrigo Carazo Odio, Sentido metapolítico del Istmo, Bs.As., “Disenso” n. 14, agosto 1998

Joaquín García Monje, Repertorio americano (1919-1958), San José

 

Nicaragua:

Julio Ycaza Tigerino; Perfil cultural y político de Nicaragua, Managua-Madrid, ECH., 1971

 

Puerto Rico:

Antonio Fernós Isern, Estadolibrismo puertorriqueño, Hato Rey, Univ.Interamericano de Puerto Rico, 1996

Manuel Maldonado Denis, Puerto Rico, una interpretación histórico-social, México, Siglo XXI, 1969

 

Repubblica Dominicana:

José Ramón López, El gran pesimismo dominicano, Santiago, UCMM, 1975

 

Panama:

Ricaurte Soler, Clase y nación, problemática panameña, Panamá, Ed. Tareas, 1995

 

Colombia:

Alfonso López Michelsen, El Estado fuerte, Bogotá, Ed.Populibro, 1966

 

Bolivia:

Mariano Baptista Gumucio, Historia contemporánea de Bolivia (1930-1975), La Paz, 1976

 

Venezuela:

José Luis Salcedo Bastardo, Historia fundamental de Venezuela, Caracas, 1972

 

Brasile:

Gilberto Freyre, Interpretación del Brasil, México, FCE, 1945

Getulio Vargas, Brasil en armas, Bs.As., Ed. Mundo Atlántico, 1944

 

Uruguay:

Luis Alberto Herrera, La formación histórica rioplatense, Bs.As, Coyoacan, 1961

Washington Reyes Abadie, Crónica general del Uruguay, Montevideo, Ed. Banda oriental, 1979

 

Cile:

Cástulo Martínez H., Por la razón o la fuerza, La Paz, Ed. Weinberg, 2002

Pedro Godoy P., Ensayos suramericanos, Santiago, Ed. Nuestramérica, 2000

 

Ecuador:

Gonzalo Zaldumbide, Significado de España en América, Inst. hispano de Estados Unidos, New York, 1933

Gabriel Cevallos García, Reflexiones sobre la historia del Ecuador, Quito, Corporación Editora nacional, 1987

 

Paraguay:

Natalicio González, Textos escogidos(el pluralismo americano), Asunción, Ed. El Lector, 1996

Justo Pastor Benítez, Formación social del pueblo paraguayo, Asunción, Ed. El lector, 1996

 

Perú:

Francisco García Calderón, La creación de un continente, Caracas, Biblioteca Ayacucho, 1960

(traduzione di Daniele Scalea)


MANIFESTO DEL GRUPPO DEGLI UFFICIALI UNITI

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Commilitoni,

la guerra ha ampiamente dimostrato che le nazioni non possono difendersi da sole. Di qui il gioco pericoloso delle alleanze, che alleviano ma non guariscono il male profondo. Ieri i signori si unirono per formare la Nazione. Oggi, le nazioni devono unirsi per formare il Continente. È lo scopo di questa guerra.

La Germania sta compiendo uno sforzo titanico per unificare il continente europeo. La nazione più grande e meglio organizzata dovrà guidare i destini del continente nel nuovo ordine. In Europa, questa nazione sarà la Germania. (…) Ai nostri giorni, la Germania dà alla luce una nuova dimensione storica. Noi dobbiamo seguire questo esempio. (…) La battaglia di Hitler, nella pace e nella guerra, d’ora in poi sarà per noi l’esempio da seguire.

Nell’America settentrionale, la nazione guida saranno per un certo periodo gli Stati Uniti. Nell’America meridionale, invece, non c’è una nazione abbastanza forte perché la sua supremazia venga ammessa senza obiezioni.

Ci sono soltanto due nazioni che possono assumere questa funzione guida: l’Argentina e il Brasile.

La nostra missione è di rendere l’egemonia argentina non solo possibile, ma indiscutibile.

Il compito è enorme e comporterà dei sacrifici. Ma non si crea una patria senza sacrificarle tutto. I giganti che hanno fatto la nostra indipendenza hanno sacrificato i loro beni e la loro vita; nella nostra epoca, la Germania ha dato alla vita un senso eroico. Saranno loro i nostri esempi.

Per compiere il primo passo che ci porterà verso un’Argentina grande e potente, dovremo impadronirci del potere. Un borghese non comprenderà mai la grandezza del nostro ideale; dovremo perciò allontanarli dal governo ed assegnare loro l’unico ruolo di loro competenza: il lavoro e l’obbedienza.

Assumendo il potere, noi abbiamo come sola missione quella di essere forti, più forti di tutti gli altri paesi uniti. Ci dovremo armare, armarci sempre, vincere le difficoltà, combattere contro gli ostacoli. La battaglia di Hitler in tempo di pace e in tempo di guerra ci servirà da guida.

Cominceremo dalle alleanze. Abbiamo già il Paraguay; avremo la Bolivia e il Cile.

Con l’Argentina, il Paraguay, la Bolivia e il Cile uniti, ci sarà facile costringere l’Uruguay.

Le cinque nazioni unite attireranno facilmente il Brasile, grazie alla sua forma di governo e ai Tedeschi che vi si trovano. Caduto il Brasile, il continente sudamericano sarà nostro. La nostra tutela sarà un fatto, un fatto grandioso e senza precedenti, realizzato dal genio politico e dall’eroismo dell’Esercito argentino.

Miraggi, utopie, mi si dirà. Tuttavia, rivolgiamo nuovamente il nostro sguardo verso la Germania. Nel 1919 essa è stata costretta a firmare il Trattato di Versailles, che intendeva mantenerla per almeno cinquant’anni sotto il giogo alleato, in una posizione di potenza di second’ordine. In meno di venti, essa ha percorso un cammino fantastico. Prima del 1939, essa era già armata come nessun’altra nazione; in pieno periodo di pace, ha annesso l’Austria e la Cecoslovacchia. Poi, durante la guerra, ha dettato la sua volontà all’Europa intera.

Ciò non è avvenuto senza duri sacrifici. È stato necessario che una dittatura di ferro imponesse al popolo le rinunce necessarie per realizzare questo formidabile programma.

In Argentina sarà lo stesso. Il nostro governo sarà una dittatura inflessibile, anche se all’inizio farà le concessioni indispensabili per potersi affermare.

Il popolo sarà sedotto, ma dovrà fatalmente lavorare, privarsi e obbedire, ancora lavorare e privarsi più di ogni altro popolo. Solo così potremo condurre a buon fine il programma di riarmo indispensabile alla conquista del Continente.

Prendendo esempio dalla Germania, inculcheremo nel popolo, tramite la radio, la stampa controllata, il cinema, i libri, la Chiesa e l’educazione, la disposizione di spirito necessaria per intraprendere il cammino eroico che esso dovrà percorrere. Solo così esso riuscirà a rinunciare alla vita comoda che conduce in questo momento.

La nostra generazione sarà una generazione sacrificata nel nome di un bene più grande, LA PATRIA ARGENTINA, che successivamente risplenderà d’una luce ineguagliabile per il bene del Continente e dell’umanità intera.

 

VIVA LA PATRIA!

IN ALTO I CUORI!

 

3 Maggio 1943

 
 
* Questo manifesto confidenziale del Gruppo degli Ufficiali Uniti (GOU) venne firmato il 3 maggio 1943, un mese prima del colpo di Stato che li avrebbe portati al potere, il 4 giugno 1943. Primo firmatario del testo, il colonnello Juan Perón, uno degli uomini forti del GOU e futuro capo carismatico della Nazione argentina.

MEHR E LA RETE PARALLELA: COME L’IRAN SI DIFENDE DALLA GUERRA VIRTUALE

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La storia recente dell’Iran è molto legata alla comunicazione e all’innovazione tecnologica. La Repubblica Islamica dispone di una connessione internet a partire dall’anno 1993. In tutto il Vicino Oriente, l’Iran è stato il secondo stato a disporre di un sistema di connettività alla rete globale. Considerato il grande vantaggio tecnologico sugli altri stati dell’area e vista la rapida e contemporanea ascesa economica a livello globale, il paese da allora ha continuamente sviluppato le tecnologie per la connessione.

La struttura di connessione del paese si basa su 2 grandi reti: PSTN (ovvero Public Switched Telephone Network) e PDN (ovvero Public Data Network). La rete PSTN fornisce la connessione tra i cosiddetti utenti finali e i fornitori dei servizi internet (ISP) con l’utilizzo di supporti modem. La Società di Comunicazione Dati Iraniana (DCI), consociata alla TCI (Telecommunications Company of Iran), gestisce interamente la rete pubblica. In Iran i collegamenti internet utilizzano il protocollo di base del protocollo TCP / IP (Transmission Control Protocol / Internet Protocol).

La Repubblica Islamica è coperta da internet ad alta velocità ed è presente la connessione attraverso le linee DSL (Digital Subscriber) a banda larga, linee a circuito diretto numerico e satellitari. Circa 33 città iraniane sono collegate direttamente da una rete Asia-Europa , denominata “Via della Seta”, che collega Cina ed Europa [1]. E’ notizia di questi giorni l’inaugurazione di un sito internet iraniano “gemello” di Youtube; la decisione di aprirlo è stata presa dai vertici iraniani in seguito a numerosi atti ostili contro la Repubblica Islamica, che ha optato per la chiusura di Youtube e Gmail nell’anno 2009 [2]. Il nuovo sito internet denominato “Mehr” (www.mehr.ir)  – in farsi: “affetto” – si presenta in tutto e per tutto simile a Youtube, come sito per la condivisione e visualizzazione dei video. Tra i video in promozione si possono trovare animazioni, cortometraggi e serie tv, rigorosamente in lingua farsi [3]. Il motivo della chiusura verso Gmail, poi ripristinato e attualmente attivo [4], e di Youtube secondo Reza Taqipour, capo del Ministero delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, va ricercato nel suo “carattere menzognero”, in quanto “controllato da uno o due stati specifici”[5]. Destinato a fare ancora più notizia della creazione di “Mehr” è il progetto di un internet iraniano, che a quanto pare verrà completato per marzo del 2013 [5]. L’introduzione di questo nuovo sistema è volta ad incrementare il livello di sicurezza virtuale del paese. Non bisogna dimenticare che l’Iran, già da molto tempo, è sotto assedio, anche in ambito virtuale: un chiaro esempio è l’episodio dell’attacco effettuato con “Stuxnet” (un malware che si riduplica all’infinito infettando i documenti del computer) nell’anno 2010.

Il worm “Stuxnet” – in grado di spiare e riprogrammare a piacimento i software industriali [6], è così letale e ben progettato da esser descritto come “un progetto per una nuova generazione di armi virtuali” [7].  Secondo i dati rilasciati da una delle più importanti società di antivirus, la Symantec, nei primi giorni di diffusione del virus il 58,85% dei computer infettati apparteneva all’area della Repubblica Islamica [8]. L’obiettivo più scontato del virus, di cui restano sconosciuti i programmatori, è il programma nucleare iraniano che ha subito notevoli ritardi e conseguenti intoppi [9]. La diffusione del virus ha causato, anche di recente  problemi agli impianti nucleari riprogrammando la velocità delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio [10]. In un simile stato, non è del tutto sbagliato pensare alla costruzione di una propria rete completamente isolata dalla rete mondiale, oltre che per l’aspetto del nucleare, anche per la protezione e la tutela dei dati delle imprese e delle aziende che hanno sede sul territorio iraniano.

In questo clima di ostilità aperta nei confronti della nazione iraniana, sembra giusto citare Kaveh L. Afrasiabi:  “[…]l’insieme delle sanzioni, la guerra cibernetica, l’assassinio degli scienziati iraniani, la cancellazione dalle liste di un gruppo terrorista che vuole un rovesciamento violento della Repubblica Islamica, e così via, riflettono un atteggiamento di guerra contro l’Iran anche se non sono state ancora sganciate bombe sul paese”[11].  In aggiunta alle critiche lanciate dall’occidente, si aggiungono ulteriori sanzioni contro l’Iran, questa volta dovute al fatto che la Repubblica Islamica abbia messo in atto una serie di misure per un controllo più severo della rete [12].

Se il governo USA è veramente interessato a far sì che non debba esistere un “divisorio virtuale tra i cittadini iraniani ed il resto del mondo” [13] come ha dichiarato la portavoce del Dipartimento di Stato americano Victoria Nuland, allora sarebbe necessario che tendessero veramente una mano al governo iraniano per non obbligarlo all’isolamento forzato. Allo stato attuale dei fatti l’Iran sta cercando di rispondere al war game per il controllo “geostrategico” degli spazi virtuali, ultima frontiera del conflitto moderno.

 

 

[1]  http://www.zawya.com/printstory.cfm?storyid=EIU20081001211715204&l=000000080818
[2]  http://www.tgdaily.com/software-features/66536-iran-restores-gmail-but-youtube-block-continues
[3] http://www.mehr.ir/
[4] http://www.informationweek.com/security/management/iran-removes-gmail-block/240008254
[5] http://rt.com/news/iran-youtube-censorship-internet-657/
[5] http://rt.com/news/iran-youtube-censorship-internet-657/ (la data di completamento dell’internet iraniano è individuabile nel medesimo documento)
[6] http://www.infoworld.com/print/137598
[7]http://spectrum.ieee.org/podcast/telecom/security/how-stuxnet-is-rewriting-the-cyberterrorism-playbook
[8] http://www.symantec.com/security_response/writeup.jsp?docid=2010-071400-3123-99
[9] http://www.jpost.com/IranianThreat/News/Article.aspx?id=199475
[10] http://www.upi.com/Business_News/Energy-Resources/2012/07/26/ACDC-virus-hits-Iranian-nuclear-plants/UPI-75211343298612/
[11] http://www.eurasia-rivista.org/nuovi-segnali-di-flessibilita-sul-nucleare-iraniano/17552/
[12] http://arstechnica.com/tech-policy/2012/11/us-imposes-sanctions-on-iran-for-internet-censorship/
[13] http://arstechnica.com/tech-policy/2012/11/us-imposes-sanctions-on-iran-for-internet-censorship/ (la citazione relativa è reperibile nel medesimo documento).

RATINGCRAZIA

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La profonda crisi economica in cui versa il mondo occidentale è ben lungi dall’essere al capolinea. I più ottimisti continuano a parlare di un’ipotetica ripresa che dovrebbe avere indicativamente avere inizio nel 2013 (1). La realtà quotidiana, però, ci proietta in scenari futuri molto più inquietanti, ben lontani da una ripresa economica: ne sono segno la continua discesa del settore immobiliare in Spagna – con prezzi che  anche qui in Italia, nell’anno 2012, sono scesi del 10% rispetto ai normali valori di mercato (2) – e la precaria condizione dell’economia greca, che sta avendo fortissime ripercussioni sociali (3). In questo scenario di decadenza degli stati tradizionali, si inseriscono sempre più insistentemente voci che invocano la cessione della sovranità nazionale “per la creazione di un’Europa più integrata” (4).  La cessione della sovranità nazionale segnerebbe la fine del sistema degli stati europei come l’abbiamo sempre conosciuto e l’origine di una nuova scala gerarchica del potere.

“Al di sopra” dello stato ci sono già quegli organismi come le agenzie di rating, che guidano e condizionano gli investimenti nonché l’andamento dei mercati nazionali ed internazionali; in certi casi le distorsioni operate sono così evidenti si parla proprio di “manipolazione del mercato” da parte di queste ultime (5).   Le agenzie di rating, per definizione, sono degli enti che fungono da “intermediari” tra gli enti che emettono titoli e gli investitori. Le tre agenzie più famose e rinomate sono “Standard & Poor’s”, “Moody’s” e “Fitch”. La loro funzione sarebbe unicamente quella di analizzare e studiare, attraverso specifiche formule e criteri ben stabiliti, titoli azionari ed obbligazioni così fornendo una valutazione (il rating, per l’appunto) che varia da una scala massima con indicatore AAA ad una minima con indicatore D. Un ulteriore strumento di valutazione fornito dalle agenzie è l’ “outlook”, cioè il possibile orientamento di un ente o di una società in un raggio di medio o lungo termine. L’outlook può essere positivo, negativo o stabile. Il giudizio dell’agenzia di rating, che in base a quanto detto fin ora deve essere neutro e asettico, è una sorta di “pagella” che permette agli investitori di valutare in prima persona la sicurezza o meno di un investimento (6).   Purtroppo le recenti indagini sull’argomento, rivelano una condotta molto differente e distaccata dall’oggettività che dovrebbe contraddistinguere un argomento serio come il rating . Risulta quantomeno difficile credere a una serie di errori casuali, considerato che ben nel 53% dei casi analizzati, il mercato è andato nella direzione opposta rispetto a quella del giudizio espresso dalle varie agenzie(7). Ad un livello puramente numerico, piuttosto che affidarsi alle previsioni di una di queste agenzie, sarebbe più sicuro lanciare una monetina in aria per scegliere dove investire, considerato che si avrebbe il 50% di possibilità di fare la scelta giusta. Un recente rapporto sponsorizzato dalla BCE (Banca Centrale Europea), disponibile on-line in lingua inglese (8), ha dimostrato quanto la presunta “attendibilità” delle agenzie di rating, debba quantomeno essere “revisionata” limitatamente ai criteri di attribuzione dell’affidabilità. Non è normale che un ente che per definizione dovrebbe essere imparziale, assegni voti più alti a grandi banche e a quelle istituzioni che vantano rapporti di fiducia con le medesime agenzie. “Our result suggests that rating agencies assign more positive ratings to large banks and to those institutions more likely to provide the rating agency with additional Securities rating business” e The more a bank used a particular rating agency for rating its asset-backed securities at issuance, the more this agency rewarded the bank with a better bank credit rating” (9). Questo “scambio di favori” tra colossi bancari e agenzie di rating, porta come conseguenza il ripetersi inesorabile del ritornello “too big to fail” – help perpetrate the existence of “too big to fail” banks” – (10) legato a banche per il cui salvataggio gli stessi stati hanno sborsato cifre non indifferenti (11). Altro fattore di non poco conto è il fatto che la “pagella” stilata dalle agenzie di rating potrebbe non essere “di qualità” a causa delle rivalità tra le medesime (12). Quanto sta emergendo in questi giorni da numerosi siti di economia, conferma i sospetti stilati nel rapporto della BCE (13). L’impressione sempre più netta è quella che si stia lentamente andando verso una Ratingcrazia che ha la precisa intenzione di prendere in mano le redini del carro europeo obbligando gli stati a delegare continuamente i loro poteri originari. Dove andremo di questo passo? Di sicuro non verso un miglioramento dell’economia degli stati né tantomeno verso la tanto decantata fine della crisi.

 

(1) http://www.repubblica.it/economia/2012/12/17/news/draghi_parlamento_ue_crisi-48949141/
(2)http://www.corriere.it/economia/12_settembre_02/case-giu-da-inizio-crisi-tamburello_4497409a-f4c6-11e1-9f30-3ee01883d8dd.shtml
(3)http://ansamed.ansa.it/ansamed/it/notizie/rubriche/cronaca/2012/12/19/Crisi-Grecia-nuova-ondata-proteste-paralizza-Paese_7975813.html
(4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-19/diekmann-allianz-livello-superiore-073840.shtml?uuid=AbVOkUDH
(5) http://it.ibtimes.com/articles/39955/20121219/rating-moody-s-bloomberg-s-p-mercato-downgrade-manipolare-giudizi.htm
(6) http://www.forexinfo.it/Agenzie-di-rating-cosa-sono-A-cosa#.UNHjCm_8JT8
(7)http://www.repubblica.it/economia/2012/12/17/news/quando_le_agenzie_di_rating_non_ci_prendono_debiti_sovrani_sbagliate_una_valutazione_su_due-48979762/
(8) https://www.ecb.int/pub/pdf/scpwps/ecbwp1484.pdf
(9)citazioni nella sezione “Abstract” del documento e alla pagina 25 del documento https://www.ecb.int/pub/pdf/scpwps/ecbwp1484.pdf
(10) citazione nella sezione “Abstract” del documento https://www.ecb.int/pub/pdf/scpwps/ecbwp1484.pdf
(11) http://economiaefinanza.blogosfere.it/2012/09/crisi-in-spagna-2012-59-miliardi-per-salvare-le-banche.html (si intende utilizzare il caso spagnolo puramente a titolo esemplificativo per non menzionare tutti gli altri casi di important salvataggi operati dagli stati).
(12) https://www.ecb.int/pub/pdf/scpwps/ecbwp1484.pdf  pagina 9 del documento.
(13) http://www.forexinfo.it/Agenzie-di-rating-sono-ancora#.UNINo2_8JT8

FERDYNAND OSSENDOWSKI

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«Scrittore polacco, nato il 27 maggio 1876 a Vitebsk. Laureatosi a Parigi, fu dal 1899 al 1903 docente di fisica e chimica al politecnico di Tomsk, donde fece lunghi viaggi in Siberia e nell’Estremo Oriente. Per alcuni anni ebbe anche incarichi importanti nell’esercito russo dell’oriente, e dal 1909 al 1917 presso il ministero della Marina a Pietroburgo. Professore di chimica al politecnico e all’accademia agraria di Omsk dal 1918 al 1920, fece parte del governo di Kolčak. Dal 1922 al 1924 insegnò geografia economica in alcune scuole superiori di Varsavia». Così l’Enciclopedia Treccani, alla voce “OSSENDOWSKI”, descrive brevemente la vita di una delle figure più controverse, misteriose, ma sicuramente affascinanti del secolo scorso.

Membro della resistenza polacca negli anni dell’occupazione tedesca e nemico giurato dei sovietici, Ferdynand Antoni Ossendowski fu sempre un intellettuale liberale, sebbene progressista. Nel 1905, durante i moti rivoluzionari conseguenti alla sconfitta zarista nella guerra russo-giapponese, lo scrittore polacco prese parte alle attività del Comitato Rivoluzionario Centrale, un’organizzazione di sinistra che cercò, senza successo, di prendere il potere in Manciuria. Fallita la rivoluzione, Ossendowski organizzò uno sciopero contro la brutale repressione del Regno di Polonia, venendo arrestato e condannato a morte da un tribunale militare, pena poi commutata in diversi anni di lavori forzati. Cosa spinse, dunque, un patriota polacco critico nei confronti dell’autocrazia zarista ad aderire, tre lustri più tardi, al progetto del barone Roman von Ungern-Sternberg di un impero teocratico paneurasiatico? La risposta a tale quesito va ricercata innanzitutto nelle vicissitudini scaturite dallo scoppio della guerra civile russa all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre.

Ossendowski si era da poco trasferito ad Omsk, dove era stato chiamato ad insegnare chimica al politecnico e all’accademia agraria della città. Tra i suoi “protettori”, l’ammiraglio Aleksandr Vasil’evič Kolčak, comandante della Flotta del Mar Nero impegnata nel conflitto mondiale in corso. Alla presa del potere da parte dei bolscevichi, Kolčak si dimise dal suo incarico, organizzando un esercito controrivoluzionario e un governo, con sede ad Omsk, che in poco tempo riuscì ad imporre la propria sovranità sull’intera Siberia. Convinto della missione dell’ammiraglio, con cui condivideva un’avversione viscerale per i bolscevichi, Ossendowski si unì al suo governo in qualità di funzionario del Ministero delle Finanze e dell’Agricoltura. Tuttavia, nonostante i successi iniziali, le truppe di Kolčak furono ben presto scacciate dall’Armata Rossa; costretto a ritirarsi ad Irkutsk, nel 1921 l’ammiraglio sarebbe infine stato catturato e ucciso dai bolscevichi.

Con le sorti del conflitto sempre più compromesse dalla vittoriosa controffensiva bolscevica, Ossendowski fu costretto a fuggire di città in città fino a raggiungere, all’inizio del 1920, Krasnojarsk. Un giorno, durante una visita ad un amico, la sua casa fu circondata da un distaccamento di soldati rossi venuti apposta per catturarlo. Costretto ad una fuga precipitosa, lo scrittore polacco divenuto bersaglio del nuovo regime russo indossò una vecchia tenuta da caccia dell’amico e acquistati, strada facendo, «un fucile, trecento cartucce, un’ascia, un coltello, un cappotto di montone, tè, sale, gallette e un bollitore», iniziò un’incredibile quanto rischiosa peregrinazione. Dopo un infelice tentativo di raggiungere l’Oceano Indiano attraverso il Tibet, Ossendowski dovette trascorrere molti mesi confrontandosi con gli orrori della violenza e della paura, lottando per sopravvivere attraverso l’Asia Centrale.

Ed è proprio nel cuore dell’Asia, nella sconfinata, misteriosa e ricca Mongolia, che lo scrittore polacco fece le sue più importanti esperienze, le stesse che poi narrò con magistrale bravura nel suo libro più famoso, “Bestie, uomini e dei”. Gli sconvolgimenti geopolitici conseguenti allo scoppio della rivoluzione in Russia avevano posto gli uni contro gli altri mongoli, cinesi, truppe bianche e bolscevichi, ciascuno deciso a difendere i propri interessi, talvolta mutevoli, tessendo intrighi, esercitando violenze e violando accordi.

Fu in tale clima, cruento e imprevedibile, che Ossendowski fece il suo incontro con il barone Roman von Ungern-Sternberg, noto anche come Ungern Khan, “Barone Nero” e “Barone sanguinario” a causa della durezza dei metodi da lui impiegati contro la popolazione locale e i suoi stessi sottufficiali. Nato secondo alcune fonti in Austria, ma più probabilmente in Estonia, da una famiglia appartenente alla nobiltà baltica di lingua tedesca, Ungern-Sternberg era un ex ufficiale dell’impero zarista contrario tanto al governo bolscevico quanto alle forze bianche di Kolčak, di cui non riconobbe mai l’autorità. Capo di stato maggiore agli ordini del generale cosacco Grigorij Semënov, che con il sostegno del Giappone si adoperava per la creazione di uno stato fantoccio in Transbaikalia, il 7 agosto 1920 Ungern-Sternberg decise di rompere con l’atamano, trasformando la sua Divisione Asiatica di Cavalleria in un’unità di guerriglia al servizio di una grande controrivoluzione eurasiatica.

Ritenendosi la reincarnazione di Gengis Khan, il barone mirava infatti alla liberazione della Mongolia dall’occupazione cinese con l’obiettivo di farne uno stato teocratico di tipo lamaista dal quale scatenare le masse orientali contro l’Occidente materialista, passando per la Russia bolscevica. Quando Ossendowski, nel corso della sua fuga dai bolscevichi, raggiunse la Mongolia, Ungern-Sternberg lo accolse con ospitalità, concedendogli il diritto di cittadinanza nei territori sotto il suo controllo: era l’inizio di un sodalizio destinato ad essere breve, ma intenso. Arruolatosi come ufficiale al comando di una delle unità di autodifesa dell’esercito del barone – nel quale confluivano mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, tibetani, coreani, giapponesi e cinesi – Ossendowski divenne ben presto suo consigliere politico e capo dei suoi servizi segreti, avendo già ricoperto, con ogni probabilità, incarichi analoghi nel governo di Kolčak.

Stando a quanto sostenuto da Louis de Maistre, Ossendowski sarebbe infatti stato coinvolto nell’affare Sisson, un insieme di documenti che sostenevano una tesi cospirativa volta a dimostrare che la Rivoluzione russa era stata sobillata dalla Germania per disimpegnare il fronte orientale e concentrare tutte le truppe in Occidente. Nonostante la loro scarsità, gli elementi disponibili sulla biografia di Ossendowski sembrano avvalorare l’ipotesi che lo scrittore polacco abbia effettivamente svolto attività di spionaggio per il fronte dei Bianchi prima di unirsi all’esercito di Ungern-Sternberg. Nell’ambito del suo contributo al progetto controrivoluzionario di quest’ultimo, alcuni studiosi hanno anche ipotizzato che la mano di Ossendowski abbia prestato aiuto nella stesura dell’Ordine n. 15, il celebre proclama di chiamata alle armi con cui il barone intendeva scatenare la razza gialla contro l’Occidente. Il tono retorico del testo lascia infatti presupporre l’intervento di persone che avessero qualche abilità letteraria, piuttosto che quello di militari poco avvezzi alla scrittura. Tuttavia, gran parte dell’attività svolta dallo scrittore polacco in Mongolia tra l’agosto e la fine del 1920, quando fu inviato in missione diplomatica in Giappone, resta tutt’oggi avvolta nel mistero, come enigmatica rimane anche la sua fine.

Il 1° gennaio 1945 la villetta di Ossendowski nei pressi di Varsavia venne visitata da un ufficiale tedesco, che si trattenne a parlare con lo scrittore per qualche ora prima di uscire dall’abitazione con una copia di Bestie, uomini e dei. Alcuni testimoni e giornalisti dell’epoca avanzarono l’ipotesi che l’ufficiale tedesco potesse essere un parente dell’ormai defunto Ungern-Sternberg, un certo Dollert che lavorava per i servizi segreti tedeschi e che nel dopoguerra si sarebbe fatto frate francescano ad Assisi. Nella copia del libro – si disse – potevano esserci documenti riservati riguardanti le vicende di cui Ossendowski era stato testimone; da qui l’interesse da parte dell’ufficiale. Ciò che è certo è che appena due giorni dopo, il 3 gennaio 1945, Ossendowski si spense, portando nella tomba i segreti relativi agli aspetti esoterici di Bestie, uomini e dei. Il libro, diventato un classico del romanzo d’avventura, terminava con la visione di «una nuova, immensa migrazione di popoli, l’ultima marcia dei Mongoli» alla conquista dell’Eurasia. Un impero, quest’ultimo, alla cui creazione lo stesso Ossendowski, a dispetto delle sue convinzioni personali, si era adoperato nei mesi trascorsi al servizio di Ungern-Sternberg, colui che, con il senno di poi, può essere considerato come l’ultimo dei Mongoli e il primo degli eurasiatisti.

 

* Giovanni Valvo è un analista geopolitico indipendente specializzato in questioni eurasiatiche.

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LEVIATHAN

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E’ in uscita il nuovo numero (quarto del 2012) della rivista russa di geopolitica Leviathan, periodico ufficiale del Centro di Studi Conservatori presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università statale di Mosca M.V. Lomonosov.
 
Suddivisa in due parti, nella prima sezione la rivista raccoglie gli interventi dei relatori della conferenza dal titolo “Egemonia e potenza dei poli”, tenuta a Mosca il 13 novembre 2012, mentre nella seconda sezione dal titolo “Strategie nella turbolenza geopolitica” sono contenuti alcuni articoli di analisi, fra i quali, a pag. 199, la traduzione in russo di una versione quasi integrale dell’articolo di Andrea Fais uscito sul sito di “Eurasia” lo scorso settembre dal titolo Il futuro dell’Europa si decide in Georgia?

 
 
 
 
 
 

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