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Channel: socialismo di mercato – Pagina 73 – eurasia-rivista.org
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INTERVISTA ALL’AMBASCIATORE CINESE DING WEI SULLA NUOVA DIRIGENZA CINESE

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Intervista a cura della redazione di “Eurasia”.

 

D: Il 14 novembre si è concluso il diciottesimo congresso del PCC. Quale la Sua impressione sulla nuova dirigenza cinese?

R: Ascoltando il discorso di insediamento del sig. Xi Jinping, nuovo segretario generale del Partito e presidente della commissione militare centrale della Cina, sono stato colpito soprattutto da tre cose. Primo: il linguaggio usato dal signor Xi Jinping è un linguaggio sciolto e molto vicino al linguaggio usato dalla gente comune nella vita quotidiana e quindi lontano dal gergo politico tradizionale. Secondo: il sig. Xi ha dimostrato il suo stile pragmatico e la volontà di essere vicino ai cittadini, dicendo che i cinesi amano la vita e desiderano avere un’educazione migliore, un lavoro stabile, un reddito dignitoso, una previdenza sociale affidabile, un servizio sanitario migliore, un’abitazione migliore e un ambiente migliore. I cittadini non vedono l’ora di lasciare ai propri figli migliori condizioni di vita e di lavoro. Il signor Xi Jinping ha sottolineato che l’obiettivo del suo impegno è di realizzare l’aspettativa della gente, quella di avere un futuro migliore. Terzo: la determinazione del PCC di combattere contro la corruzione. Il signor Xi ha sottolineato che nel nuovo contesto storico il Partito deve affrontare tante sfide e tante esigenze. Soprattutto bisogna dedicare maggior vigilanza alla corruzione e alla burocrazia; al riguardo, bisogna essere risoluti il più possibile.

D: I nuovi dirigenti cinesi conoscono già l’Italia?

R: Certamente sì. Nel giugno del 2011, il signor Xi ha visitato l’Italia ed ha presenziato alla cerimonia per il centocinquantesimo anniversario dell’unità dell’Italia. Il primo aprile di quest’anno, durante la visita del presidente Mario Monti in Cina, il signor Li ha avuto un fruttuoso incontro con il presidente Monti. Ma anche altri – per esempio il signor Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng, Wang Qishan ecc. – hanno o visitato l’Italia in veste di governatori di varie regioni cinesi o hanno ricevuto in Cina politici e imprenditori italiani.

D: La nuova dirigenza cinese ha ricevuto una grande eredità dalla generazione precedente. Nei 10 anni passati, l’economia cinese è aumentata di una volta e mezzo; la sua posizione nella classifica mondiale è passata dal sesto posto al secondo. Il pil pro capite è cresciuto quasi 5 volte da 1135 dollari ai 5432 dollari annui, ecc. Quale sarà l’orientamento e l’approccio della nuova dirigenza per lo sviluppo del Paese?

R: Nel sistema politico cinese, il congresso del Partito ci aiuta molto a capire il quadro di sviluppo della Cina nei prossimi 5 o 10 anni. Penso che ci siano sei elementi più importanti in cui la nuova dirigenza vorrà persistere. Primo: la Cina proseguirà con determinazione la strada del socialismo con carattere cinese, il quale è il frutto delle esperienze nel corso dei decenni dopo numerose ricerche, sperimentazione e pratica. I fatti concreti hanno testimoniato che questa è la strada più adatta alla realtà cinese, la strada più favorevole allo sviluppo economico e sociale della Cina.

Secondo: il congresso ha affermato il principio dello sviluppo scientifico sostenibile come la direttiva del paese. In passato, l’economia cinese ha assegnatio un’eccessiva importanza all’aumento del pil e ha rivolto più attenzione alla velocità che all’efficacia; l’economia cinese è stata dipendente più dalla domanda esterna che da quella interna ed è stata trainata più dall’investimento che dal consumo; il governo si è interessato più all’accumulo della ricchezza nazionale che alle spese per migliorare le provvidenze sociali. Il Congresso ha affermanto il concetto dello sviluppo scientifico come orientamento dell’amministrazione del paese. L’obiettivo finale si basa sugli interessi dei cittadini: ottenere uno sviluppo compressivo, coordinato, equilibrato e sostenible. Con questo principio, la filosofia cinese dello sviluppo e dell’amministrazione del Paese ha conosciuto un grande cambiamento.

Terzo: dare maggior rilievo all’ecologia ed alla tutela dell’ambiente. La priorità dello sviluppo del Paese ha portato l’ecologia allo stesso livello dell’economia, della politica, della cultura e della società. In questo quadro, caratterizzato dalle cinque priorità, vogliamo trasformare la Cina in un Paese affascinante e vogliamo realizzare lo sviluppo sostenibile della nostra nazione.

Quarto: il congresso ha promesso di arrichire la popolazione e realizzare una società cinese benestante entro il 2020; si è proposto l’obiettivo di raddoppiare sia il pil sia il reddito dei cittadini entro il 2020 rispetto al 2010.

Quinto: promuovere la riforma del sistema politico del paese e diffondere la democrazia nella società. Con i passi positivi e consistenti della riforma politica, sviluppare una vasta, piena e sana democrazia del popolo. Con la riforma amministrativa, diminuire i costi e aumentare l’efficienza del governo.

Sesto: razionalizzare la distribuzione della ricchezza nazionale e diminuire il divario dei redditi. Attraverso la ridistribuzione imparziale della ricchezza, rendere beneficiario l’intero popolo del frutto ottenuto nello sviluppo del Paese e realizzare il benessere comune della Cina. Il congresso ha affermato di voler costuire il sistema di previdenza sociale con i principi di imparzialità dei diritti, imparzialità delle opportunità e imparzialità delle regole, che sono fondamentali per la realizzazione dell’armonia nella socità.

D: Qual è la politica estera cinese sotto la nuova dirigenza?

R: La Cina come grande Paese giocherà il ruolo costruttivo e responsabile nella società internazionale. Sotto la guida della nuova dirigenza, la Cina proseguirà i tre orientamenti negli affari esteri. Primo: il principio di apertura, cooperazione e integrazione. Nel tempo attuale, il rapporto tra la Cina e il mondo estero ha conosciuto un cambiamento storico, l’interazione tra la Cina e il mondo è irrinunciabile. Secondo: l’atteggiamento e l’approccio di imparzialità, il mutuo vantaggio e l’interesse comune.La Cina svilupperà i suoi rapporti con i paesi stranieri, accantonando la differenza ideologica e politica e senza la mentalità caratteristica dell’era della guerra fredda. Terzo: proseguire nella politica estera pacifica e indipendente. Nel continuare il cammino proprio dello sviluppo del Paese, la Cina continuerà a contribuire alla pace del mondo.

La Cina attribuisce grande importanza all’intensificazione delle relazioni con l’Europa e fa sempre tesoro dell’amicizia e della cooperazione tra i due continenti. La Cina ha una grande fiducia nell’intelligenza e nella capacità del vecchio continente e confida nella prospettiva di una cooperazione tra Cina e Italia, tra Cina ed Europa.

 

 


MERCADO GLOBAL Y NEOLIBERALISMO

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La globalización es una palabra de origen anglosajona que indica el proceso de unificación cultural, política y económica en acto en el ámbito planetario. En campo económico, indica la existencia de un mercado mundial de los capitales que deja las decisiones estratégicas a las empresas, desvinculadas de una base territorial y justificada por una estrategia productiva, en función de los costes de producción relativos en los distintos países (masificación del capital) para vender un producto en el mayor numero posible de países. En campo cultural significa la difusión de una mentalidad ultra individualista, no erradicada en el ámbito territorial y que rompe la estructura usual de las sociedades del siglo XX.

Estados Unidos, al final de la segunda guerra mundial  había tomado definitivamente la posición de país número uno del mundo y. si antes tenia la Rusia para hacerle frente, después de la caída del muro de Berlín y del abandono del comunismo por parte de los países del este se quedó sola con lo destino del mundo, ademas de controlar los organismos que deberían ser supranacionales como es lo caso del Fondo Monetario Internacional, el Banco Mundial y la Organización Mundial del comercio.

La globalización presupone un conjunto de procesos acelerados de orden económico, tecnológico, informaciónal y social en general. Es un hecho que estos procesos representen, por un parte la expansión de las interdependencias de todo tipo alrededor del planeta. Pero también, de otra parte un incremento de la conciencia de los problemas globales. Entre estos problemas destaquen el creciente desequilibrio económico mundial, la degradación del medio ambiente y los comportamientos caracterizados por el racismo y la falta de aceptación de la diversidad cultural en un mismo espacio de convivencia.

En realidad, desde un punto de vista económico, el capitalismo ha sido siempre un sistema con vocación mundial; el comercio internacional y la internacionalización de las inversiones han sido dos de sus elementos esenciales.

En los últimos años, no obstante, el peso de los aspectos internacionales de la economía se ha acentuado. Dos de los aspectos fundamentales de la globalización de la economía han sido el aumento explosivo de los movimientos financieros y monetarios y la internacionalización de las inversiones directas con el consecuente incremento de los negocios internacionales.

Paralelamente, se han creado nuevos instrumentos de regulación de las relaciones económicas internacionales; instrumentos tanto multilaterales (creación de la Organización Mundial de Comercio y entrada en vigor de sus nuevos acuerdos sobre servicios y sobre propiedad intelectual; negociaciones de un acuerdo multilateral de inversiones extranjeras)) como bilaterales (NAFTA, MERCOSUR, acuerdos bilaterales de la Comunidad Europea y de sus Estados miembros con países terceros.)

Los agentes económicos y sociales son los protagonistas de la globalización pero no controlan su evolución y descubren con frecuencia tarde cómo les afecta. Los agentes políticos, por otro lado, parecen a menudo desbordados por los acontecimientos sin saber qué papel juega. La diversidad de culturas y civilizaciones contrasta con la una idea, bastante difusa en Occidente ,y en e Estados Unidos en particular, de la supremacía universal de la cultura occidental. El credo universalista occidental afirma che los pueblos de todo el mundo deberían recibir cultura, valores e instituciones occidentales porqué ellos representan la forma di pensamiento más alta, iluminada y civil de toda la humanidad. Pues la fe occidental en la validez universal del proprio modelo, sobretodo en cuanto a desarrollo económico tiene tres defectos: Es falsa; es inmoral y es peligrosa.

Es falsa porqué en realidad el neoliberalismo, es decir, la ideología actual y central de la globalización, no remite a criterios de desarrollo sino de crecimiento económico. El neoliberalismo no contempla mercados nacionales sino puntos de inversión y comercio privilegiados. Los grandes expositores de esta versión son el Fondo Monetario Internacional, el Banco Mundial y las multinacionales entre otros. Se trata de una ideología tecnocratica del mercado total, (“todo debe tener precio”), de la competitividad y de la eficiencia. Es un modelo que centra la acumulación en la exportación, un sistema de altas ganancias sin crecimiento y que por ello remite a una altísima concentración de la riqueza y de poder. Es inmoral, porqué este enfoque llamado “mundo de las oportunidades” es un modelo que remite al capital especulativo y no obstante dinamice los servicios no puede funcionar sin precarizar la fuerza de trabajo y sin provocar una fuerte exclusión social. Producir con eficiencia y consumir con opulencia es el lema de esta sociedad sin alternativa que proclama que siempre habrá   pobres, que el mundo es de los vencedores (es decir que hay perdedores) y que los vencidos son culpables de su derrota. Se trata en definitiva de una sociedad en que no cabe ni todos los seres humanos (con sus culturas plurales) ni la reproducción sostenida de la Naturaleza. Es peligrosa porqué los intensos flujos de capital golondrina (“hot money”), que en menos de veinticuatro horas son capaces de abandonar un país y dejarlo en la ruina (como ha pasado, por ejemplo en  México en 1994 y en 1997 en el Sudoeste Asiático)

Muchas de las grandes multinacionales tienen empresas en países subdesarrollados que en virtud de las facilidades que los gobiernos de estos países ofrecen y principalmente debido al bajo coste de la mano de obra y cuando llegan crían empleo y un crecimiento económico de estos países. Cuando encontrón mejores oportunidades, no piensan dos veces y dejan un país de una forma tan rápida como han entrado, provocando la exclusión del mundo laboral de millones de personas que se van a encuentran fuera de la sociedad de sus beneficios Es un sistema que no admite la intervención del estado para amorriñar estas consecuencias, ya que el estado mismo prácticamente ha desaparecido ante la fuerza arrolladora del neo-liberalismo, el endiosamiento del Mercado y la imposición de pautas culturales homogéneas en todo el mundo. Además hay un riesgo concreto de que el endiosamiento del consumo de productos impuestos mundialmente, la “cocalización” o “macdonalización” el desmoronamiento de las fronteras y el influjo homogeneizador nos lleven a la pérdida de una identidad nacional de valores culturales y sociales. Además este proceso por el cual las economías nacionales se integran de modo progresivo en el marco de la economía internacional, hace que su evolución dependa cada vez más de los mercados internacionales y menos de las políticas económicas gubernamentales. Así’ que la política va perdiendo poder beneficiando los especuladores financieros y algunos empresarios que pueden de-localizar su propria empresa.

Nuestro mondo es lo mas parecido a un mercado, por una parte se nos explica que hay que competir en el mercado, y por otra, en todo momento se nos dice lo que necesitamos para ser felices: un ordenador, un móvil, unas vacaciones etc. El poder del mercado se basa en que a través del directamente o indirectamente se controla los individuos: el uso de su tiempo nuestra actividad como individuos queda regulada por una combinación de precios ordenes y persuasiones.

Organizaciones y individuos compiten por el poder, los empresarios para ampliar el mercado, los venerables tratan de extender sus jerarquías y los jerarcas su jerarquía. Paradójicamente la finalidad del mercado es el mercado mismo. Se compra para vender y se vende para comprar. Los bienes ya no se cambian por su valor de uso sino por el valor de cambio.

Para ser considerado ciudadano se hace necesario trabajar, es decir entrar el mercado (laboral) y aceptar sus reglas. Si al mercado hacen faltas unas determinadas figuras profesionales, las Universidades amplían sus ofertas formativas en esta dirección y la mayoría de los futuros estudiantes universitarios elegirán supuestamente una carrera con un perfil que se ajuste a lo pide el mercado laboral.  Si el mercado requiere flexibilidad, salarios bajos o un 4% de paro (fisiológico) hay que aceptarlo, simplemente porque’ lo pide el mercado.

El crecimiento de la desigualdad de los últimos años en EE UU, y en casi todas las sociedades europeas, se suma la creciente sensación de inseguridad social. Hoy se sienten perdedores de la última fase de la globalización, de la crisis y de las nuevas tecnologías no solo las comúnmente llamadas clases trabajadoras, sino también las clases medias en EE UU y Europa.

Un gobierno global debería tener como objetivo establecer y garantizar un ordenamiento internacional de paz. Es evidente la necesidad de pensar y tratar de aplicar un proyecto de ciudadanía internacional. Paralelamente, una responsabilidad global, debería proponer y sostener un mínimo de moral común entre los pueblos y entre les culturas que comparten un mismo territorio. Esta finalidad exige el hecho de pensar y llevar a la practica un proyecto de ética intercultural, dado que la globalización ha manifestado las limitaciones de los planteamientos éticos y civiles de contenidos monoculturales. En fin, una sociedad de derechos compartidos requiere cultura de valores ético-civiles también comunes.

Un concepto de desarrollo común, que garantiera la supervivencia, la coexistencia pacífica y la prosperidad de la población mundial, es imprescindible avanzar en estas dos vías como formes de regulación mínima, pero compartida por individuos y sociedades. Es importante entonces tener presente que se trata de caminos interdependientes.

El desafío está planteado, los cambios son profundos e imparables. El sistema no reconoce fronteras y trata de imponerse y afianzarse en todo el mundo. Está en juego el futuro mismo de nuestra sociedad.

 

 

 

* Cristiano Procentese è Dottorando di ricerca in Filosofia all’Università di Barcellona, ricercatore del GIRCHE (Grup Internacional de Recerca “Cultura, Història i Estat”) e docente di Filosofia e Scienze Sociali nelle Scuole superiori di Udine 


LA RUSSIE: INCARNATION DU RÊVE GAULLISTE AU 21ÈME SIÈCLE?

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Un ami m’a récemment confié sa déception face au renvoi de Nicole Bricq par le nouveau président François Hollande. Celui-ci, m’a-t-il dit, aurait à ses yeux cédé aux pressions du lobby économique et énergétique.

Cet ami en tirait la conclusion que le monde politique français n’a finalement plus les moyens de résister, face à l’influence d’un lobby économique.

Cette discussion a eu lieu il y a quelques semaines et récemment, un débat très intéressant a eu lieu dans l’émission ce soir ou jamais de Frédéric Taddei m’a rappelé cette discussion que j’avais eue dans un petit café près de la place Troubnaia.

L’une des invitées de l’émission en question était Marie France Garaud, gaulliste historique. Elle a expliqué à sa manière la brève histoire politique française de l’après guerre. Son explication avait sans doute de quoi étonner les jeunes générations. D’après elle les notions modernes de droite et gauche actuelles n’existent que depuis peu de temps. Avant, il y avait d’une part le parti du président (l’union de tous les français qui faisaient confiance au général De Gaulle), et d’autre part un certain nombre de nostalgiques des petits partis de la 4° république.

Plus tard, la scène politique s’est scindée entre partisans et adversaires de l’économie marxiste sous Pompidou notamment puis encore sous Giscard. Le patriotisme gaulliste s’est lentement estompé, au fur et à mesure de la construction de l’Union Européenne. C’est en 1981 avec l’élection de François Mitterrand que l’idée d’un rassemblement des gauches marxistes et post marxistes est apparue, le parti communiste ayant entre temps renié l’héritage soviétique lors du congrès de 1972 et fortement baissé électoralement. L’émergence d’un bloc de gauche va en conséquence directe entraîner l’ancrage d’un bloc de droite, rassemblé autour du rassemblement pour la République, le RPR, qui deviendra en 2002 l’union pour la majorité présidentielle, ou UMP.

Le bipartisme droite / gauche qui est apparu va dès le début se fonder sur une simplification quasi unique: la gauche serait ouvrière et populaire tandis que la droite serait bourgeoise et conservatrice. Pourtant dès 1999, l’évidente trahison de l’héritage Gaulliste via le bradage de la souveraineté française notamment par l’intégration dans l’Europe, va entraîner des premiers couacs. Une nouvelle ligne de fracture est apparue, et elle fractionne la droite aussi bien que la gauche. Dans chacun des deux blocs, il existe un courant européiste majoritaire, et un courant souverainiste minoritaire qui cohabitent chaotiquement.

Les souverainistes, de droite comme de gauche, s’expriment en gros de la même manière: Un bipartisme institutionnel de convenance, permettant une alternance totalement factice (les leaders des principaux partis de droite et de gauche étant d’accord sur presque tout) s’est mis en place pendant que les transferts de souveraineté de l’état français, se sont accentués en direction des instances communautaires, que ce soit sur un plan politique, économique, financier ou encore de contrôle des frontières. Tout cela a contribué à ce que la France d’aujourd’hui ne puisse finalement plus être considérée comme une nation, tant elle est désormais totalement dépourvue de souveraineté, et ce alors que la souveraineté est l’attribut le plus essentiel de l’état. Peut-on imaginer une nation souveraine sans état souverain?

La France de De Gaulle avait pourtant parfaitement traduit la parfaite et réalisable alchimie entre le maintien de la souveraineté nationale et la constitution d’une Europe forte: l’Europe des nations et des états. Le Général souhaitait une Europe des patries centrée sur le couple franco-allemand et tournée vers la Russie et non pas vers le binôme Anglo-saxon, Amérique / Angleterre. L’idée de De Gaulle était simple : l’Europe devait se baser sur la coopération et sans organe supranational et reposer sur la totale souveraineté des états, en clair l’opposé absolu du processus fédéral d’intégration en cours via l’Union Européenne.

La plupart des droits souverains des états sont en voie de totale disparition en Europe. Lesquels? Tant celui de contrôler ses frontières, de battre monnaie, de rendre justice ou de décider de faire ou non la guerre. Malheureusement pour les peuples européens, leurs élites politiques se sont volontairement engagées dans un système politique où elles n’ont même plus la maîtrise de leurs budgets. On pourrait longuement discuter du pourquoi et comment en est-on arrivé la. De Gaulle avait pourtant résumé la situation, alors qu’à la fin de sa carrière ce bipartisme impuissant se profilait déjà. Il avait dit: “le drame de la France c’est que la gauche n’est plus populaire, et que la droite n’est plus nationale”.

Alors que l’intégration européenne s’est faite en dissolvant la souveraineté des états, la Russie depuis le début de ce siècle semble pour l’instant suivre une autre voix. On a beaucoup parlé dans les médias étrangers de la “méthode forte à la Russe”, du non respect des droits de l’homme et aussi de la violence avec laquelle l’état a fait la guerre en Tchétchénie. Mais on a peu parlé du fait que cette guerre était avant un conflit interne et régional de restauration de la souveraineté fédérale pour écraser le risque séparatiste. Un risque séparatiste qui guette nombre d’états européens aujourd’hui. On parle également trop peu de la politique économique russe avec son refus obsessionnel de l’endettement extérieur, pourtant nul ne doute que les générations futures en Russie sauront remercier leurs élus politiques d’aujourd’hui, au moins à ce sujet.

Quand aux hommes d’affaires emprisonnés pour des détournements (certains des fameux oligarques), ils illustrent un message assez clair: en Russie aujourd’hui, malgré tous les travers que cela peut engendrer, c’est le politique qui prime sur l’économie et non l’inverse. A ce titre, la leçon de Pikalevo de 2009 pourrait faire office de Jurisprudence. Les gigantesques plans de restructuration de l’armée ou le fait que les deux plus grosses compagnies énergétiques de la planète soient nationalisées traduisent du reste bien le fait que l’état russe souhaite rester entièrement souverain face aux capitalistes russes mais aussi face aux compagnies multinationales. Quand au “multipartisme à la russe”, qui se traduit par la gouvernance d’une seule structure politique, trans-courants, mais que l’on pourrait appeler le parti de la majorité, on pourrait le comparer au parti Gaulliste en France, au moment de la fondation de la 5° république.

Une comparaison qui n’est pas nouvelle, car le visionnaire Emmanuel Todd envisageait dès 2002 cette perspective d’un gaullisme à la russe dans son ouvrage Après l’empire: “A l’heure du débat sur la globalisation et l’interdépendance universelle, la Russie pourrait émerger, selon un scénario intégrant toutes les hypothèses les plus favorables, comme une démocratie immense, équilibrant ses comptes extérieurs et pourvue d’une autonomie énergétique, bref, dans un monde dominé par les États-Unis, l’incarnation d’un rêve gaulliste”.


Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un “autre regard sur la Russie”.

 

http://fr.rian.ru/tribune/20121121/196682144.html

UCRAINA DOPO LE ELEZIONI PARLAMENTARI, ANCORA IN BILICO TRA UE E RUSSIA

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In data 28 ottobre 2012 i cittadini ucraini sono stati chiamati alle urne per le elezioni parlamentari. Un evento importante per il Paese dato che sono state le prime elezioni a livello nazionale sotto la Presidenza di Victor Yanukovich che è salito al potere nel 2010. Il sistema elettorale misto con cui si è votato è stato introdotto poco più di 1 anno fa dall’attuale coalizione di governo.

Come molti  dei Paesi ex sovietici, l’Ucraina ha molti problemi di carattere politico di ogni genere, e risente del fatto di non essere un Paese consolidato nelle sue strutture politiche, economiche e persino geografiche. A livello politico non c’è una stabilità e continuità, ed ogni elezione viene drammatizzata dall’opinione pubblica. La situazione appare instabile dal 2004 con la cosiddetta “rivoluzione arancione” che provocò una polveriera a livello politico.

In queste elezioni l’atmosfera è stata alquanto tesa, con timori di brogli. Migliaia sono stati gli osservatori presenti.

Sia la Russia sia l’Unione Europea hanno osservato le elezioni con grande interesse. L’attuale Presidente è chiaramente filorusso, mentre l’”Occidente” spera che la situazione cambi con un candidato più filooccidentale. Le legislative sono un’anteprima politica in vista delle elezioni presidenziali del 2015, molto importanti anche perché l’Ucraina è un terreno di battaglia tra “Occidente” e Russia dalla fine della Guerra Fredda.

Questa situazione è favorita dalle divisioni interne, che hanno una dimensione storica, culturale e religiosa. Le regioni orientali e meridionali del Paese sono appartenute negli ultimi secoli all’Impero russo, mentre le regioni occidentali, originariamente dominate dall’Impero polacco-lituano, passarono sotto l’Impero austroungarico e successivamente tornarono sotto la dominazione della Polonia. Per questa ragione le regioni dell’ovest sono tradizionalmente orientate verso l’Europa centro-occidentale, mentre quelle orientali sono di tendenza filorussa. I cittadini di origine russa rappresentano il 17 % della popolazione ucraina, e il 30% degli Ucraini parla il russo come lingua madre. La religione è cristiano-ortodossa e oltre il 10% della popolazione ucraina dipende dal Patriarcato di Mosca. (1)

La Russia non vuole assolutamente perdere l’influenza  sul Paese, Mosca non può essere una potenza senza Kiev, come dimostrato dalla storia. L’Europa e gli USA sperano in un’Ucraina democratica ed occidentale per i propri interessi. All’epoca del crollo dell’Unione Sovietica, nel dicembre 1990, l’allora Presidente Bush rassicurò la dirigenza russa che per gli Stati Uniti l’Ucraina sarebbe restata nella “sfera d’influenza russa”. (2) Sembra evidente come queste parole non siano state rispettate. L’Ucraina da allora sembra appunto un teatro di scontro tra Russia, Usa ed Europa. Queste interferenze sono pericolose, in quanto potrebbero sfociare in un conflitto geopolitico analogo al “Great Game”, lo strisciante conflitto, caratterizzato soprattutto dall’attività delle diplomazie e dei servizi segreti che contrappose Gran Bretagna e Russia in Medio oriente e Asia Centrale  nel corso di tutto il XIX secolo.( 3)

Gli USA sperano in un ingresso dell’Ucraina nella NATO, dando non poco fastidio con quest’iniziativa al Cremlino che collabora militarmente con l’Ucraina e ha la base della flotta nel porto di Sebastopol. Il servizio di sicurezza federale della Russia e il suo omologo ucraino collaborano nell’intelligence e nell’addestramento. Nel 2010 Kiev e Mosca hanno stipulato un trattato, noto come accordi di Kharkiv, con cui il gigante russo ha ottenuto un estensione di 25 anni dell’affitto delle infrastrutture portuali a Sebastopol. In questo modo la Russia ha garantito la sicurezza dei suoi confini meridionali, ritenuti da Mosca un’area altamente instabile e foriera di problemi. (4)

Per quanto concerne l’UE, l’Ucraina è ad un passo dalla firma di uno strategico patto di Associazione con Bruxelles, documento con cui è pronta a concedere a Kiev lo status di partner ed aprire una Zona di Libero Scambio per integrare l’economia ucraina a quella europea. In seguito all’arresto dell’oppositrice politica di Yanukovich, ossia di Yulia Timoshenko, in data 19 dicembre 2011 la Commissione Europea ha congelato il varo dell’Accordo, ritenendo il governo ucraino non rispettoso dei diritti civili e lontano dalla democrazia, ragione per cui il Paese non è pronto ad essere ammesso nella Comunità politica del Vecchio Continente. Mosca ha fatto capire: nel caso di una creazione di una zona di libero commercio di Kiev con l’ Unione Europea, la Russia si vedrebbe costretta ad adottare misure di difesa a tutela del proprio mercato.

L’ UE in particolare si aspettava da queste elezioni una dimostrazione di democrazia, per poter riallacciare i rapporti col Paese.

Il Paese è andata al voto per eleggere attraverso un sistema misto proporzionale-maggioritario con soglia di sbarramento al 5 % i deputati del parlamento monocamerale, Verkhovna Rada. Le elezioni parlamentari hanno confermato la maggioranza del Partito delle regioni (186) dell’attuale Presidente. Al secondo posto c ‘è l’ Opposizione unita (105) di Yulia Tymoshenko col partito Patria ed Arseni Yatseniuk con il suo Fronte del Cambiamento. Terza forza con 40 seggi è Udar (partito centrista) di Vitaliy Klichko, seguito dai nazionalisti di Svoboda con 37 seggi guidati da Oleg Tiahnybok,  estremista di destra. Quest’ ultimi hanno fatto il loro ingresso alla Rada per la prima volta. Ultimi i comunisti con 32 seggi. (5)

A prima vista gli equilibri rimangono uguali a quelli delle elezioni del 2004, si nota un leggero indebolimento dei partiti nazional, visto che il Partito delle regioni ha perso un paio di seggi e Patria, per raggiungere più o meno lo stesso risultato dal quale partiva ha dovuto cooptare altre formazioni.  Si nota un crescita delle ali estreme come comunisti e nazionalisti, insieme al centrista Udar. Appare netta la vittoria di Yanukovich e del suo partito sugli altri oppositori.

Numerose critiche sono piovute su Kiev  per presunte irregolarità nelle elezioni, in particolare l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OCSE) ha bocciato le legislative del 28 ottobre e ha parlato di un vero e proprio “ regresso” della democrazia in Ucraina. “Considerando l’ abuso di potere e l’ eccessiva importanza rivestita dal denaro in queste elezioni, l’ Ucraina ha invertito la tendenza verso la consolidazione della democrazia” ha sostenuto una delle osservatrici dell’OCSE. (6)

Gli osservatori dell’OCSE hanno denunciato una serie di irregolarità: l’ abuso di risorse pubbliche, carenze nella trasparenza, nel finanziamento ai partiti, nella gestione delle liste elettorali e nella copertura mediatica in campagna elettorale. Il governo ucraino è in imbarazzo per le seguenti irregolarità anche perché nel 2013 sarà proprio Kiev ad assumere la Presidenza dell’OCSE. L’ Occidente critica duramente la condotta antidemocratica di Yanukovich e parla di una semi dittatura, paragonabile a quella di Lukashenko in Bielorussia.

Un’opinione discordante è arrivata dagli osservatori inviati dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), una confederazione composta da nove delle repubbliche dell’ex Unione Sovietica ed ora politicamente affini alla Russia. Questi osservatori sostengono che il processo elettorale è stato: “limpido e democratico”.

Sono piovute critiche anche dal Segretario Generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che ha dichiarato che “le elezioni parlamentari rappresentano un passo indietro per la democrazia ucraina”  soprattutto a causa della disuguaglianza delle condizioni per la presentazione delle candidature e delle “pene politicizzate che sono state imposte ai capi dell’opposizione(…) Un’ Ucraina indipendente e stabile, rispettosa della democrazia e dello stato di diritto, gioca un ruolo chiave per la sicurezza euro- atlantica”. (7) Un tassello importante per la posizione geopolitica e geostrategica di Kiev è rappresentato dalle relazioni con la Nato, che per il momento si basano sul piano d’azione fra NATO e Ucraina firmato nel 2002. Nel 2006 iniziò la fase dei negoziati che avrebbero dovuto portare l’Ucraina a partecipare al piano d’ azione per l’adesione alla Nato, che non è mai giunto al termine a seguito dei problemi politici interni vissuti dal Paese dopo il fallimento della “rivoluzione arancione”. Mosca si è sempre mostrata contrario all’ingresso dell’Ucraina nella NATO per ovvi motivi.

Tra UE ed Ucraina sembra sempre più definitiva la rottura dopo le elezioni legislative. Quest’aria di tensione si respirava già al Vertice della Strategia Europea (YES) che si è svolto a Yalta in Crimea il 15 settembre 2012. Lo YES è una kermesse internazionale a cui partecipano i personaggi più di spicco delle politica e della finanza mondiale, di solito si dibatte delle problematiche economiche, in questa edizione l’attenzione si è concentrata sul mancato rispetto dei diritti civili e della democrazia da parte del padrone di casa, Vyctor Yanukovich. Infatti in quell’occasione il Presidente ucraino è stato aspramente criticato sia dai rappresentanti dell’Unione Europea sia dall’ex Segretario di Stato USA Condoleeza Rice. (8)

Le critiche più dure gli sono stati rivolte per quanto riguarda gli arresti politici dei principali Leader dell’Opposizione Democratica. Con una nota, emanata dall’Ambasciata UE di Kiev, il Presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, Elmar Brok e il Commissario UE all’Allargamento e all’Integrazione, Stefan Fule hanno sottolineato il peggioramento per quanto riguarda i diritti civili e la democrazia rispetto all’anno precedente. Da qui potrebbe avvenire una rottura totale delle relazioni tra UE ed Ucraina.

A Yalta la posizione di Yanukovich si è dimostrata più vicina alla Russia e alla sua Unione Euroasiatica rispetto all’Europa. Il Presidente ucraino ha espresso la volontà di rafforzare la presenza del suo Paese nei processi di integrazione euroasiatici voluti dalla Russia di Putin per sancire l’egemonia politica di Mosca nello spazio ex-sovietico. Tra le priorità della politica estera ed economica, Yanukovich ha contemplato relazioni con Russia, Cina ed India, senza alcuna menzione all’UE.

L’Ucraina si trova da anni divisa tra un chiaro interesse per l’ingresso nell’Unione Europea e l’opzione invece russa, con Mosca che le propone di entrare nell’Unione doganale. Kiev non riesce a scegliere tra queste due opzioni, è in bilico ormai da anni. Da un punto vista immediato, sembra molto più logico che l’ Ucraina si avvicini alla Russia rispetto che all’UE. Geograficamente, socialmente e nazionalmente, la Russia non percepisce il suo vicino come una Nazione separata e sovrana.  L’ Unione Euroasiatica è la scelta più naturale e di maggiore affinità di origini per gli Ucraini, che conserveranno così la propria identità unicamente ucraina, slavo-orientale, e la propria statualità.

Oltre a queste considerazioni, va notato che l’Unione Europea si trova sull’orlo di una possibile disgregazione. Nell’Europa Orientale i Paesi che sono entrati da poco nell’UE  Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania stanno avendo una grande disillusione nei confronti del Vecchio Continente. Alcune componenti dei seguenti Paesi mostrano già il desiderio di volerne uscire. Non parlando anche delle tendenze secessioniste  nei Paesi fondatori dell’Ue come in Spagna, Scozia e Belgio.

Con queste tendenze di disgregazione e la delicata situazione ucraina, un eventuale ingresso nella UE non sembra la scelta più appropriata, mentre rimane vivo l’interesse per l’Unione Euroasiatica, progetto di integrazione sovranazionale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un percorso ambizioso, voluto, diretto e pilotato da Mosca che si propone di fondare la vera e propria Unione entro il 2015. Lo scopo è quello di abbattere tariffe e barriere doganali tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Putin vuole preparare l’Ucraina a una maggiore integrazione attraverso l’adesione all’Unione Euroasiatica, evolventesi in un unione doganale e spazio economico comune. La Russia è molto interessata a Kiev per molte ragioni di carattere politico, economico e strategico.

L’ Ucraina è la terza più grande economia dell’Unione sovietica, e la sua industria, agricoltura ed energia sono integrate con quella della Russia. Kiev ottiene il 60%  del suo gas naturale da Mosca, con cui può manipolare l’infrastruttura delle pipeline ucraina, tagliandone i rifornimenti. I gasdotti ucraini sono di fondamentale importanza per il rifornimento di gas russo all’Europa Occidentale. Numerosi furono le discussioni riguardanti il prezzo per gli Ucraini del gas che verrebbe a costare meno di fronte a concessioni politiche di Kiev nei confronti del Cremlino. Tra di esse vi è l’ uscita dell’Ucraina dalla Comunità Energetica Europea – trattato che crea un mercato integrato dell’energia (elettricità e gas) tra la Comunità europea e le parti contraenti – e l’ingresso di Kiev nell’Unione Euroasiatica, progetto varato da Mosca secondo l’esempio dell’UE, senza la moneta unica, per stabilire l’egemonia della Russia nello spazio ex-sovietico. Ad oggi i membri dell’Unione Euroasiatica sono, come detto, oltre la Russia, la Bielorussia e il Kazakistan, ed a breve è previsto l’ ingresso di Kyrgystan e Tajikistan.  Il presidente della Duma Boris Gryslov ha dichiarato: “Noi vogliamo vedere l’ Ucraina nella futura Unione Euroasiatica e riteniamo che senza la sua presenza l’ unione non sarà compiuta”. (9)

L’Ucraina si è mostrata pronta alla collaborazione e  secondo un pronostico di Putin tra 3 anni sarà nell’Unione Euroasiatica. In risposta ad un consenso di Kiev all’adesione, il Cremlino ha persino previsto di abbassare il prezzo del gas.

In Occidente è diffusa l’opinione che l’Ucraina sia sotto il giogo russo, ma quest’opinione è sbagliata, in quanto il Cremlino gioca un ruolo chiave per la politica, l’economia e la sicurezza ucraina. Kiev da parte sua deve rafforzare il proprio sistema interno, cominciando dalle riforme economiche, al fine di presentarsi a livello internazionale come un partner più affidabile, in primis per la Russia. Il Paese ha un grande potenziale a livello euroasiatico, ma è fin troppo lacerato dalle divisioni interne e dalla crisi economica, tutto ciò non permette un reale sviluppo e crescita.

 
 
*Natalya Korlotyan è dottoressa in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee (Università Statale di Milano)

 
 

  1. Rivista Eurasia:” La successiva fase di rinascita della Russia: Ucraina, Bielorussia e Moldavia.”  17 febbraio 2012
  2.  Movimento Internazionale per i diritti civili: Dietro crisi in Ucraina
  3. Wikipedia e la definizione di Great Game.
  4. Rivista Eurasia: “Il nuovo accordo russo-ucraino: un’ interpretazione geopolitica “, 14 maggio 2010
  5. Limes:” L’ Ucraina sceglie ancora Yanukovich”, 31 ottobre 2012
  6. La Voce della Russia:” L’ Ocse critica sullo svolgimento delle elezioni in Ucraina”. 29 ottobre 2012
  7. La Voce Arancione: “L’ opposizione ucraina in piazza contro i brogli “. 6 novembre 2012
  8. Forum della strategia europea a Yalta: tra Ucraina e Unione rottura definitiva, 15 settembre 2012
  9. Il legno storto: “Gas: l’ Ucraina importa il gas russo dalla Germania tramite la Polonia”, 3 Novembre 2012.

 

 

UCRAINA, UN’ELEZIONE IN TERRA DI CONFINE

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Ucraina, nomen omen. Ucraina, terra al margine. Ucraina, terra di confine. Ucraina ponte tra due visioni del mondo, quella unilaterale occidentale e quella multipolare proposta da Mosca. Ucraina, un paese “conteso” tra Stati Uniti ed Unione Europea da un lato e Federazione Russa dall’altro. In una nota agli osservatori inviati in Europa per vigilare sulla correttezza della consultazione elettorale in Ucraina per il rinnovo della Verkhovna Rada, il Parlamento monocamerale di Kiev, il Presidente del Consiglio canadese Stephen Harper aveva posto l’attenzione sull’importanza dell’evento: “This election is pivotal for Ukraine”. Letteralmente, per l’Ucraina queste elezioni sarebbero state centrali. Nel linguaggio della scienza economica, però, per “pivotal” si intende un individuo la cui scelta è capace di rovesciare la decisione finale. Mutuando il termine nel discorso geopolitico, l’Ucraina si può considerare alla stregua di uno Stato pivotal, capace di spostare gli equilibri della regione del sud-est europeo. La domanda a cui cercheremo di dare una risposta è la seguente: il risultato delle elezioni di fine ottobre in che direzione farà muovere l’Ucraina sulla scacchiera europea?

 

 

La prevedibile vittoria di Janukovic in un Paese diviso a metà

I dati diffusi dalla Commissione Centrale Elettorale a metà novembre non hanno fatto altro che dare veste ufficiale ad un risultato preventivato già alla vigilia vale a dire la conferma del Partito delle Regioni del Presidente Yanukovych a prima forza politica della Rada. Il partito ha ottenuto la maggioranza relativa nella nuova composizione dell’assemblea conquistando 187 seggi (72 seggi nel proporzionale e 115 nel maggioritario[1]). Potendo contare su un totale di 102 seggi (62 + 40) l’Opposizione Unita Batkivshchyna, soggetto politico unitario ispirato da Julia Tymoshenko e guidato alle elezioni da Yatseniuk, è la seconda forza parlamentare. Alleanza Democratica Ucraina per le Riforme (UDAR) di Vitaliy Klitschko alla prima esperienza elettorale ha conquistato 40 seggi, 34 con lo scrutinio di lista e 6 nel maggioritario. Entrano in Parlamento anche i rappresentanti del Partito Comunista Ucraino, affidabile e storico alleato del Partito delle Regioni, che rispetto alle precedenti elezioni parlamentari incrementa del 7% i consensi a proprio favore, risultato che porta  alla conquista di 32 seggi conseguiti tutti nel proporzionale. La grande sorpresa di queste elezioni è il risultato ottenuto dal partito nazionalista Svoboda (Libertà) di Oleh Tyahnybok che con il 10,45% dei consensi riesce ad entrare nella Rada 38 membri (25 + 13)[2].

Per quel che riguarda l’aspetto geografico del voto, la tornata elettorale non ha fatto che confermare la tendenza ad una netta divisione dell’Ucraina.

 

 

 

L’Opposizione Unita Batkivshchyna ha vinto in 15 regioni su 26, facendo registrare maggiori favori nelle regioni occidentali e centrali tradizionalmente più vicine a posizioni europeiste, mentre in 10 oblast a trionfare è stato il partito del Presidente Yanukovic (nella regione di Donetsk con il 65%). Nella regione di Leopoli, situata al confine con la Polonia, invece, si è registrato l’exploit dei nazionalisti di Svoboda che, stando agli analisti politici internazionali, hanno incontrato i favori di coloro che non si sentivano rappresentati né dagli “arancioni” dell’opposizione unitaria né dai “regionali”. L’UDAR, invece, puntando a conquistare la preferenza di coloro che richiedevano l’ingresso di facce nuove nella Rada ha ricevuto voti soprattutto nell’enclave di Kiev.

Le parole di Aleksandr Gel’evič Dugin spiegano come questa situazione di divisione netta tra le regioni occidentali ed orientali del Paese non sia nuova e non sia limitata al solo contesto geografico ma si estenda anche agli orientamenti valoriale, politico e geopolitico della popolazione: “L’inclusione in un unico Stato di due frammenti geopolitici assolutamente eterogenei era votato fin da subito al fallimento. La fine dell’Ucraina come idea politica era già chiara nel 1991, ma che fosse sulla via della disintegrazione si è capito con la rivoluzione arancione”; è nel 2004 che “abbiamo scoperto che la popolazione ucraina era divisa non solo nel suo orientamento politico, ma in quello geopolitico. La parte occidentale del paese vuole entrare nella Nato e nell’Unione europea. La parte orientale guarda alla Russia. Dopo il terzo turno delle presidenziali del 2004 è stato evidente che l’unità del paese non poteva resistere a lungo.
E solo la natura docile dei suoi cittadini ha evitato una guerra civile
.[3]

Per quanto riguarda l’aspetto prettamente politico della consultazione elettorale, l’analisi dei risultati del voto di fine ottobre dovrebbe indurre a riflessione il Presidente Yanukovyc sia per quanto riguarda il breve periodo sia in vista delle elezioni presidenziali che si terranno nel 2015: oltre alla  imminente necessità di costruire una maggioranza parlamentare salda e ampia – stando ai risultati l’operazione si presenta difficoltosa ma alla fine vedrà la riuscita con la partecipazione dei rappresentanti del Partito Comunista Ucraino e la cooptazione nella maggioranza dei cosiddetti candidati “indipendenti” eletti con il sistema maggioritario – Yanukovyc deve fare i conti con un’affluenza alle urne piuttosto bassa (57%) che in termini di voti sono costati, stando alle stime calcolate dal proprio partito, dai 600.000 agli 800.000 voti in meno per la maggioranza, dato che per alcuni è la dimostrazione del malcontento generale che serpeggia in Ucraina[4]. Questo trend al ribasso della partecipazione pro-Yanukovic si unisce al fatto che l’opposizione ha ottenuto un buon risultato e che questa, unendo le forze nella Rada e lavorando alla stesura di un programma comune capace di costruire una piattaforma condivisa di idee e proposte che vadano oltre la condivisa volontà di ribaltare l’attuale sistema di potere, potrebbe riuscire nell’intento di trovare un candidato unico da presentare alle prossime elezioni presidenziali contro Yanukovyc. In quest’ottica, sarà da tenere in osservazione il comportamento che terrà l’UDAR il cui leader Klitschko, conosciuto ovunque per proprie gesta sportive e ben visto dalle istituzioni e dai media europei, non ha mai nascosto le proprie ambizioni presidenziali e la volontà di unire a sé tutte le forze di opposizione ucraine per concorrere alle elezioni presidenziali del 2015.

 

 

La guerra dei report: espressione delle strategie e pressioni internazionali nei riguardi di Kiev

Se, come abbiamo detto all’inizio di questo lavoro, Kiev per la sua posizione geografica rappresenta una terra di confine tra Europa e Russia, altrettanto vero è che l’Ucraina si trova ad essere nella posizione di Stato conteso tra la visione unipolare di matrice occidentale e la visione multipolare promossa da Vladimir Putin; l’Ucraina è un paese strategico per la riuscita della politica di contenimento occidentale alle nuove prospettive “imperiali” della Federazione Russa, da un lato, mentre, al contempo, è la principale proiezione degli interessi di Mosca verso sud-ovest in Europa. Il pensiero di Zbigniew Kazimierz Brzezinski e Aleksandr Gelyevich Dugin sono esempio ed espressione della visione geopoliticamente strategica dei due schieramenti verso le questioni ucraine: per il primo la Russia può essere sia un impero che una democrazia ma non può essere entrambi. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero ma, con questa subordinata al proprio volere, la Federazione Russa lo diviene automaticamente; nel momento in cui l’Ucraina ha conquistato la sua indipendenza ha, di fatto, privato Mosca della sua posizione di forza dominante sul Mar Nero (dove il porto di Odessa rappresenta un importante avamposto strategico per il controllo degli scambi con il Mediterraneo) ma, alla caduta dell’Unione Sovietica, una Russia che avesse conservato il controllo sull’Ucraina poteva ancora fungere da guida di un impero eurasiatico risoluto dove Mosca non avrebbe dominato i non slavi del Sud e nel Sud-Est dell’Ex Unione Sovietica. Con un recente articolo apparso sulla rivista Foreign Policy dal titolo Geopolitically Endangered Species lo stesso Brzezinski annovera l’Ucraina nel lotto dei Paesi che potrebbero maggiormente soffrire il declino della potenza statunitense disegnando inoltre uno scenario in cui l’Europa, venuta meno la spinta di Washington, potrebbe dimostrarsi meno volenterosa e abile nel tentare di portare l’Ucraina all’interno della propria sfera di influenza e, quindi, all’interno della comunità occidentale. La posta in gioco è the renewal of Russian imperial ambitions. Il pensiero di Dugin, invece, muove da una prospettiva eurasista e pone la questione ucraina come componente fondamentale per il successo della strategia moscovita di allargamento della propria sfera di influenza: “La sovranità dell’Ucraina rappresenta per la geopolitica russa un fenomeno a tal punto pernicioso che, in linea di principio, può facilmente innescare un conflitto armato. L’Ucraina, come Stato autonomo e non privo di qualche ambizione territoriale, costituisce un enorme pericolo per tutta l’Eurasia. Sotto il profilo strategico, l’Ucraina non deve essere che una proiezione di Mosca verso Sud e verso Occidente”.

In una intervista risalente all’inizio di quest’anno Dugin ha affermato che l’Ucraina è destinata a percorrere una strada che la porterà ad abbandonare la propsettiva di integrazione europea per legarsi al progetto di Unione Eurasiatica elaborato da Putin: “certamente l’Ucraina entrerà nell’Unione Eurasiatica tra tre anni oppure, entro un termine un po’ più lungo. Prima, è poco probabile. Il vantaggio di un’integrazione in uno spazio post-sovietico rimane nei suoi piani”.

L’Ucraina si pone a pieno titolo tra i Paesi della cosiddetta “crush zone” – concetto elaborato da James Fairgrieve nei primi anni del ’900 e perfezionato in seguito da Mackinder – vale a dire quella cerchia di Paesi che rappresentavano, e tuttora rappresentano, il punto di contatto tra Eurasia ed Europa, che all’epoca rischiavano di essere invasi da una potenza terrestre proveniente dal Heartland o da una potenza talassocratica proveniente dall’Europa occidentale e capaci di diventare un vantaggio per uno dei due campi qualora vi si fosse innescato un cambiamento tecnologico o politico – economico in grado di spostare gli equilibri della regione. Mackinder, riprendendo ed allargando il concetto, avrebbe proposto la creazione di una serie di Stati cuscinetto posizionati ad est dell’Europa Orientale per contrastare la Russia Bolscevica. La  creazione di quegli Stati come Bielorussia, Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan e Daghestan al termine della guerra fredda nel 1991 sembra essere l’attuazione delle idee geopolitiche del XX secolo esposte dai due studiosi. In Ucraina, però, la storia sembra non essersi arrestata ma la “guerra fredda” che fu sembra adesso vestire altri panni, quelli della politica e della diplomazia in una sorta di “guerra” combattuta a parole al fine di fare pressioni e di influenzare le decisioni del Governo di Kiev, giocatore pivotal . I report e le note sullo svolgimento delle elezioni redatte dai vari osservatori e istituzioni internazionali preposte allo scopo rientrano nel novero delle “armi diplomatiche” con cui si combatte questa “guerra” in terra di confine. Oramai, in ogni elezione che si tiene in un Paese che riveste una qualche importanza geostrategica, non manca la guerra dei report.

Chi scrive condivide l’opinione di Bernard Owen e Maria Rodriguez-McKey : “Il giorno del voto è il culmine di una elezione, ma prima e dopo quel giorno, si svolgono molti eventi: alcuni vanno incontro all’interesse internazionale altri scompaiono dietro le loro conseguenze.[...] Ma ecco che arriva un altro elemento: l’osservazione. L’osservazione deve essere neutrale, ma la conferenza stampa e la relazione preliminare hanno una tale risonanza politica che superano il resto. Essi si ritrovano improvvisamente padroni della situazione agli occhi del mondo. Anche supponendo la loro buona fede e la competenza, la loro responsabilità è ancora pesante”[5]. Chi scrive condivide anche l’opinione dei giornalisti della redazione online de La Voce della Russia nel giorno delle elezioni, in tarda mattinata pubblicano un post dal titolo Le elezioni in Ucraina e il dilemma dell’Occidente si apre con la seguente affermazione: “a giudicare la situazione in Ucraina attraverso il prisma della stampa europea, si ha l’impressione che la principale incertezza riguardo la votazione in corso sia legata non tanto all’identità degli eletti alla Verkhovna Rada, quanto all’accettazione dei risultati da parte dell’Occidente”. Siamo nel 2012 ma l’atmosfera sembra essere quella delle elezioni presidenziali del 2004 quando alla diffusione dei risultati il Segretario di Stato USA Colin Powell rilasciò una dichiarazione dalle chiare “tinte arancioni”:“i risultati delle elezioni non possono essere accettati come legittimi”. Ad oggi non ci sono le premesse per una nuova “rivoluzione arancione” e l’occidente (inteso come Stati Uniti, Europa e NATO) dovrà fare i conti ancora con uno Yanukovic e una maggioranza parlamentare “regionale” da stimolare con la proverbiale “carota” perché l’Ucraina scelga di imboccare una direzione europea. I rapporti di analisi post elettorali invece fungono solamente da severo “bastone”. Partiamo dal report redatto dall’OSCE: “the 28th october parliamentary elections were characterized by the lack of a level playing field, caused primarly by the abuse of administrative resources, lack of transparency of campaign and party financing, and lack of balance media coverage. Certain aspects of the pre-election period constituted a step backwards compared with recent national elections”. Il riferimento, ovvio, è quello alle elezioni organizzate dal governo filoccidentale di Yushenko giudicate “tendenzialmente eque e trasparenti”. Ai contenuti del rapporto dell’organizzazione fanno eco le parole di Matteo Mecacci, membro dell’assemblea parlamentare dell’OSCE che ha preso parte alla missione di osservazione elettorale (“ho constatato di persona che purtroppo l’Ucraina ha fatto passi indietro e non in avanti sulla strada della democratizzazione”) e quelle di Walburga Habsburg Douglas, capo missione OSCE in Ucraina (“considering the abuse of power and the excessive role of money in this election, democratic progress appears to have reversed in U”).

Un’inversione a “U”, a step backwards, passo indietro. Con queste parole il Segretario di Stato USA Hillary Clinton ha espresso tutto il suo rammarico per l’occasione persa da Kiev di allinearsi ai valori democratici dell’Occidente. Anche il documento redatto dalla missione statunitense presso l’OSCE si pone sulla stessa linea di pensiero: “a step backwards from the progress made during previous parlamentary election and the 2010 presidential elections”. Dello stesso tenore le dichiarazioni del Segretario Generale della NATO Rasmussen che ha ribadito come “sia chiaro che le elezioni parlamentari costituiscono un passo indietro per la democrazia ucraina”.

Sempre all’interno dello schieramento occidentale, non sono mancate le voci dei massimi rappresentanti delle istituzioni europee. Così Martin Schulz, Presidente del Parlamento Europeo: “mi dispiace che ci siano state carenze che hanno rovinato la consultazione. […] La campagna e il finanziamento dei partiti hanno mostrato una mancanza di trasparenza e la copertura mediatica ha giocato a favore della maggioranza. Continuare con la detenzione degli attivisti più in vista dell’opposizione ha gettato un’ombra sul processo elettorale”. Anche l’Alto Commissario per la politica estera Catherine Ashton ha ribadito il rammarico delle istituzioni europee per le conseguenze della detenzione e dei processi dei principali esponenti dell’opposizione che non rispettano gli standard internazionali e allontanano l’Ucraina dalla famiglia occidentale degli Stati fondati su valori democratici.

Di tutt’altro avviso gli osservatori dello schieramento interno ed “orientale”. Il Primo Ministro ucraino ha presentato le elezioni del 28 ottobre come “le migliori organizzate nella storia dell’indipendenza”. Sulla stessa linea si è tenuta la delegazione ucraina in seno all’OSCE che nel documento redatto al termine della tornata elettorale ha definito l’intero processo come successfull and legitimate: la campagna elettorale ed i risultati del voto hanno dimostrato che la società ucraina gode di uno sviluppo nella competizione elettorale; in aggiunta, l’assenza di censura nei media ha permesso agli elettori di accedere a differenti prese di posizione e di vedute presentate dalle varie forze politiche. In appoggio all’Ucraina è intervenuta la delegazione russa i cui osservatori si sono espressi in tal modo: “le elezioni si sono svolte in una atmosfera pacifica, senza eccessi e in accordo con gli standard generalmente accettati. […] Non sono state rilevate irregolarità degne di nota. […] Il risultato più grande è che l’Ucraina ha ancora una volta confermato il suo impegno di aderire agli standard di uno Stato democratico regolato dal diritto. Il processo elettorale è stato seguito con interesse in Russia e si spera che il risultato dia maggiore impulso allo sviluppo di una più stretta collaborazione tra Ucraina e Russia”.

I diversi atteggiamenti nei confronti del risultato elettorale palesano due differenti approcci tesi all’attrazione dell’Ucraina nelle rispettive zone di influenza totalmente opposti: se da una parte si cerca di fare pressioni sul governo di Kiev per ottenere quelle riforme in senso democratico tanto gradite e volute a Washington e Bruxelles, dall’altro si lanciano messaggi che si incentrano sulla comunanza di vedute e di orizzonti strategici tra Ucraina e Federazione Russa con quest’ultima che in cambio di una più stretta collaborazione e integrazione con il proprio sistema non chiede nessuna contropartita politica e svolta in senso democratico. Se a occidente si cerca di arrivare ad un definitivo riorientamento delle priorità geostrategiche di Kiev facendo leva sul “bastone” e del do ut des delle timide promesse, a Oriente ci si muove secondo la logica della “carota”: cercando di trasformare il conflittuale rapporto con le istituzioni occidentali in una spinta verso la predilezione per i rapporti bilaterali con la Russia di Putin che ritiene l’Ucraina tassello fondamentale per la costruzione del suo progetto politico integrato tra i Paesi ex- sovietici[6].

 

 

Dopo le elezioni, quale futuro?

La massima putiniana secondo cui in Ucraina non ci sono né politici filorussi né politici filoamericani ma esistono solo politici ucraini [7] è lo specchio dell’attuale condotta estera di Kiev. Il Presidente Yanukovic bollato a più riprese apertamente filorusso, se tale è lo è più per quel che riguarda la concezione delle istituzioni e la gestione del potere interno[8] che per le scelte operate in materia di politica estera. In questo campo, Yanukovic è un politico che può definirsi ucraino: sotto la sua guida l’Ucraina, infatti, sta cercando di condurre una politica estera multivettoriale capace di garantire la difesa degli interessi ucraini nel mondo multipolare, visione strategica che si sintetizza nella formula “3+1”: Yanukovic, abbandonato l’aperto atlantismo del suo predecessore Yushchenko, ha optato per un riavvicinamento a Mosca non in ottica di integrazione post-sovietica quanto in ottica di ri-bilanciamento nelle relazioni con i “tre fronti” della politica estera del Paese, la NATO, la Federazione Russa e l’Unione Europea che dopo la rivoluzione arancione si erano sbilanciate a favore delle istituzioni occidentali. Il paradigma “3+1” mette in evidenza la volontà dell’Ucraina di porsi come entità dichiaratamente non allineata ma in concreto allineata con tutti [9]. D’altronde questo modo di condurre la propria politica estera, che ai media anglosassoni appare una muddled way, sembra incontrare i favori della popolazione ucraina che rivendica per il proprio Paese un ruolo sovrano e paritario rispetto agli altri, una situazione che garantisca un’ indipendenza nel perseguire i propri interessi e obiettivi senza approdare ad integrazioni ma costruendo forti legami con tutti i maggiori attori internazionali.

Il risultato di queste elezioni non cambierà questa prospettiva nel breve periodo: la tendenza di Kiev ad oscillare tra una prospettiva politica tesa verso l’occidente ed una tesa al riavvicinamento con la Russia rimarrà tale e le forze centrifughe delle due metà in cui, come abbiamo visto, è divisa l’Ucraina manterranno il Paese in equilibrio tra la spinta euroatlantista (il Segretario del Consiglio di Sicurezza e di Difesa Andriy Kliuyev a metà novembre ha dichiarato che “i risultati delle elezioni confermano che la linea sull’integrazione europea non è cambiata. La posizione del governo ucraino è solida su questa tematica: il nostro Paese è una parte integrante della civilizzazione europea”) e la spinta verso un maggiore legame con Mosca, legata a Kiev dalla lingua, dalla cultura e dalla religione (così il Patriarca Kirill che si è esposto nel manifestare la volontà di maggiore integrazione fra i popoli “fratelli” dell’area: “il nucleo dell’universo russo è costituito oggi da Russia, Ucraina e Bielorussia).

Quali sono i pericoli per Kiev? La gestione dell’affaire Tymoshenko ha, però, messo in crisi la linea politica dell’equidistanza promossa da Yanukovic portando l’UE ha chiudere le porte per un avvicinamento dell’Ucraina all’integrazione con la Comunità Europea. Non rappresentando, però, l’Unione Europea un’istituzione in grado di fare da contrappeso alla potenza russa, la più grande preoccupazione per Kiev può arrivare da una perdita (non databile, non certa ma possibile) di interesse di Washington per le sorti del Paese scenario che priverebbe Kiev di un reale contrappeso agli interessi russi nella regione. L’Ucraina è la casella pivotal capace di spostare a favore di uno dei due schieramenti l’equilibrio che regna sulla grande scacchiera eurasiatica dove Stati Uniti e Federazione Russa cercano con piccole mosse di conquistare il vantaggio decisivo per il controllo della regione: la Russia, che ha ben compreso come la geopolitica non ammetta vuoti, sta cercando di rafforzare la propria presenza in Ucraina, territorio ritenuto di estrema importanza per la propria sicurezza nazionale a fronte dei tentativi più o meno espliciti e dichiarati di accerchiamento da parte dell’Alleanza Atlantica; per Washington, invece l’ex repubblica sovietica è considerata il tassello fondamentale da cui partire per avanzare in direzione eurasiatica essendo l’Ucraina l’attore principale delle dinamiche della regione.




NOTE:

[1] Il 17 novembre del 2011 il Parlamento ha adottato la nuova legge elettorale salutata con grande favore dalle istituzioni internazionali: così il Parliamentart Assembly of the Council of Europe (PACE) “[We] welcome the adoption, by a broad consensus and with the participation of the opposition, of the parliamentary electoral law as a first step on the way to unified electoral legislation”; in questi termini l’International Foundation for Electoral System s (IFES) “the adopted Law cuts down on the opportunities for election fraud and falsification during the parliamentary elections”; in una nota l’OSCE sosteneva che “the new mixed electoral system has changed the dynamic of these elections in comparison with the 2007 parliamentary elections, as party-nominated and independent candidates are competing strongly at the local level”. La nuova legge, appoggiata sia dai parlamentari della maggioranza sia da quelli dell’opposizione (l’81% dei membri ha votato a favore), prevede un sistema elettorale simile a quelli adottati nel 1998 e nel 2002, un sistema di voto parallelo, misto, con l’elezione di metà dei rappresentanti (225) con un voto di lista proporzionale e l’altra metà con il sistema di voto maggioritario (the first pass the post). Non sono ammesse coalizioni e partecipano alla spartizione dei seggi della fetta proporzionale solamente quelle forze politiche che hanno superato la soglia del 5%. Gli Ucraini possono votare nelle 33.540 sezioni allestite sul territorio nazionale più le114 presenti in 77 Paesi stranieri.

[2]    Per quanto riguarda la rappresentanza eletta su base proporzionale, solamente questi cinque partiti sono riusciti a superare la soglia di sbarramento fissata al 5%. Per quel che concerne il maggioritario, invece, 44 seggi sono andati a rappresentanti “indipendenti”, uno al movimento “Unione”, tre al “Centro Unito”, due al “Partito del Popolo”, uno al Partito Radicale di Oleh Lyashko.

[3]    Articolo apparso sul quotidiano russo Vedomosti e ripreso dal quotidiano italiano Europa il 9 agosto 2006.

[4]    Konstantin Bourdarenko, direttore dell’Istituto di politica dell’Istituto di Politica Ucraina, ha dichiarato a La Voce della Russia che il risultato delle elezioni rappresenta una lezione per Yanukovic dal momento che “l’opposizione ha ottenuto buoni risultati per il fatto che la gente ha votato contro il partito al governo, piuttosto che per l’opposizione. Allo stato attuale, l’opposizione non ha leader luminosi. Yulia Timoshenko è in carcere. Questo è il motivo per cui persone si sono unite intorno all’opposizione. L’opposizione è stata sostenuta da coloro che hanno votato contro il Partito delle Regioni. Allo stesso tempo, sono andati alla ricerca di qualcuno capace di contrastare il partito al governo in futuro”.

[5] Bernard Owen, Maria Rodriguez-McKey, Ukraine : trouver la serenite, http://lecercle.lesechos.fr

[6]  I passi principali dell’avvicinamento tra Ucraina e Federazione Russa sono stati i seguenti: gli accordi russo-ucraini di Kharkov con i quali è stato prolungato per altri 25 anni oltre la scadenza del 2017 (fissata dall’accordo del 1997 tra i presidenti di allora Boris Eltsin e Leonid Kuchma) l’affitto della base navale di Sebastopoli, in Crimea, cui ormeggia la Flotta del Mar Nero a fronte di uno sconto sulle forniture di gas;

l’approvazione della legge (2 luglio 2010) che stabilisce la posizione internazionale dell’Ucraina come Paese “non-allineato” e la conseguente abrogazione dalla legge precedente della frase che proclamava l’integrazione con la NATO una priorità nazionale è stato chiuso il tema dell’adesione all’organizzazione militare che aveva complicato le relazioni bilaterali tra i due Paesi;

la ratifica parlamentare del documento costitutivo della zona di libero scambio della Comunità degli Stati Indipendenti e l’interesse nei confronti del progetto di Unione Eurasiatica, istituzione sovranazionale che intende rappresentarsi come uno dei principali attori globali all’interno di un mondo multipolare;

il riconoscimento del russo come seconda lingua ufficiale nelle regioni russofone.

[7] Alcuni analisti, tra cui il politologo Leonid Radzikhovsky imputano all’allontanamento da una politica “ucraina” a favore di una “filoccidentale” la sconfitta dell’ex Premier Yushchenko e la concomitante sconfitta dei valori fondanti della rivoluzione arancione rei di aver effettuato scelte non collimanti con gli interessi dell’Ucraina a tutto vantaggio delle istituzioni occidentali.

[8]   Yanukovic è un esponente della vecchia gerarchia economica sovietica il cui background è quello delle working class dell’Ucraina industriale della regione del Donbas dove l’obbedienza fedele e incondizionata all’autorità era considerato un alto valore. Yanukovic, quindi, guarda alla Russia come modello di gestione del potere interno e non è azzardato affermare che il Partito delle Regioni di cui il Presidente è il leader abbia una concezione della gestione dell’Ucraina che si fonda nel pensiero politico dell’ex URSS.

[9]   Visti i recenti sviluppi dei rapporti diplomatici con la Cina, la tesi della multivettorialità ricercata da Kiev trova ulteriore fondamento reale e questo potrebbe portare il paradigma del “3+1” ad una visione più allargata tale da divenire “N+1”.

 

 

“COLONNA DI NUVOLE”

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Non è una novità che nel corso del lungo e tragico conflitto arabo-israeliano sia più  volte accaduto che gli “amici” dei palestinesi si siano accordati di nascosto con gli israeliani, al fine di fare i propri interessi usando il popolo palestinese come mera “merce di scambio”. Si pensi, ad esempio, ai numerosi incontri – otto, per la precisione – tra il re di Giordania, Hussein, e il primo ministro israeliano, Golda Meir, prima della guerra del Kippur. Tra l’altro, nell’ultimo di questi incontri, il 25 settembre del 1973, Hussein informò Golda Meir che la Siria e l’Egitto stavano per attaccare Israele. E anche se sembra che Golda Meir abbia frainteso il senso delle parole del re di Giordania, che era giunto in Israele con un elicottero dell’IDF (Israel Defense Force), il 29 settembre Tel Aviv ricevette da Washington il piano di battaglia siriano, consegnato ai servizi statunitensi da una misteriosa “fonte araba”. Eppure, la Giordania decise di partecipare a quella guerra dalla parte dei siriani, anche per non rivelare le proprie reali intenzioni. (1) Nulla esclude perciò che anche “dietro” l’operazione “Colonna di nuvole” si sia voluto nascondere un accordo tra israeliani e alcuni sedicenti acerrimi nemici dello Stato sionista. Comunque sia, è evidente che lo scopo dell’ultima operazione militare contro Gaza avesse assai poco a che fare con i razzi che i palestinesi lanciano contro gli israeliani.

Come ci ricorda il bravo Manlio Dinucci (una delle poche voci libere, non “embedded”, di questo nostro disgraziato Paese, nelle mani del finanzcapitalismo atlantista), in Palestina non si muore solo per mancanza di cibo, di acqua potabile e di medicine, giacché scrive Dinucci, negli ultimi dieci anni diverse migliaia di  palestinesi «sono stati uccisi [...] dagli israeliani a Gaza, di cui 1.200 solo nel 2009, più altri 2000 in Cisgiordania», (2) a fronte di 15 morti israeliani provocati in otto anni dai razzi di Hamas. (E non stupisce nemmeno che Piergiorgio Odifreddi, per averlo scritto, sia stato censurato da “Repubblica”, il noto altoparlante filosionista della finanza angloamericana, che piace tanto al nostro ceto  medio “riflessivo”). Razzi, si badi, non missili, ché anche il Fajar-5 è un razzo – ovvero, secondo gli esperti, un “unguided artillery rocket system“. Il che spiega perché oltre 800 razzi dei circa 1500 lanciati contro Israele, durante l’operazione “Colonna di nuvole”, siano finiti in aperta in campagna, mentre 421 sono stati intercettati dal sistema di difesa Iron Dome e meno di 60 sono giunti in aree urbane. (3) Ancora peggiore, per i palestinesi, il bilancio delle vittime: 170 palestinesi (il numero varia a seconda delle fonti), tra cui decine di donne e bambini, contro 5 israeliani.

Insomma, se Iron Dome è un sistema di difesa non perfetto (benché efficiente, è estremamente costoso, dato che un missile intercettore costa decine migliaia di dollari, da trenta a quaranta volte il costo di un razzo Qassam, e pare che lo si possa “saturare” con il lancio di numerosi razzi, per poterlo poi “bucare” con missili o razzi assai più potenti e precisi – sistemi d’arma di cui però i palestinesi non dispongono), “cantare vittoria” come fanno Hamas, il Jihad islamico e perfino Hezbollah, sembra assurdo, anche tenendo conto del fatto che gli israeliani hanno rinunciato a compiere un’operazione di terra. E tuttavia si deve riconoscere che non è affatto irrilevante che il governo israeliano, dopo aver mobilitato ben 75000 riservisti (praticamente gli effettivi di un corpo d’armata), non abbia dato inizio ad una operazione militare simile a Piombo Fuso (per intendersi), ma abbia accettato una tregua. E’ noto che Israele mobilita i riservisti solo in caso di reale necessità, essendo la mobilitazione una misura decisiva per la sicurezza nazionale del piccolo Stato sionista, che deve essere così rapida da richiedere la massima collaborazione da parte di tutta la popolazione. Tanto è vero che uno dei motivi che videro l’IDF in gravi difficoltà durante la guerra del Kippur dipese proprio dal fatto che Dayan, l’allora ministro della Difesa israeliano, si mostrò restio a dare l’ordine di mobilitazione generale prima dell’attacco siriano ed egiziano (che cominciò alle 14.00 del 6 ottobre 1973). (4)

Del resto, anche la sequenza degli eventi è significativa. La notte del 23 ottobre scorso, viene quasi completamente distrutto da un attacco dell’aviazione militare israeliana il complesso industriale di Yarmouk, a 11 chilometri da Khartoum. Si tratta di uno stabilimento di Stato, costruito nel 1996 con il supporto dell’Iran, che produce armi che, insieme a quelle provenienti dall’Iran, da Port Sudan raggiungono il Sinai, per poi entrare nella striscia di Gaza. L’Iran reagisce subito inviando due fregate che giungono a Port Sudan il 28 ottobre. (5) I primi di novembre si svolgono le elezioni presidenziali statunitensi e nella notte tra il 10 e l’11 novembre a Doha, in Qatar, si dà vita ad una coalizione che comprende la maggior parte dei movimenti che si oppongono a Damasco. A parere di diversi analisti, in realtà si sarebbe in presenza di un ulteriore (e vano) tentativo degli Stati Uniti di far cadere il regime di Assad con l’aiuto della Turchia e delle petromonarchie del Golfo, senza rischiare uno scontro frontale con la Siria e i suoi alleati (sebbene si moltiplichino le voci secondo cui in Siria sarebbero presenti forze speciali americane, britanniche e francesi, che sarebbero responsabili di attentati terroristici assai sofisticati a Damasco e ad Aleppo).(6) Infine, il 13 novembre, il giorno prima dell’inizio dell’operazione “Colonna di Nuvole”, in Israele si conclude la grande esercitazione congiunta Austere Challenge 2012, con la partecipazione di 3.500 specialisti statunitensi della guerra. (7) Il quadro però non sarebbe completo se ci si dimenticasse della visita dell’emiro del Qatar nella striscia di Gaza, nell’ultima decade di ottobre. Un viaggio il cui obiettivo era naturalmente quello di indurre Hamas a voltare le spalle definitivamente alla Siria e all’Iran.

Appare pertanto logico supporre che il vero bersaglio di questo attacco israeliano (non dovendosi dare eccessiva importanza al fatto che Israele abbia criticato aspramente l’emiro del Qatar durante la sua visita nella striscia di Gaza) fosse il legame sempre più forte tra gruppi della resistenza palestinese e l’Iran, nonché quello di testare la capacità di reazione dei Paesi dell’area e soprattutto quella dell’Iran (un Paese contro il quale da anni gli israeliani conducono una “guerra sporca”, mediante attacchi informatici, ammazzando scienziati, fomentando disordini e così via, per bloccare il suo programma nucleare). E’ possibile quindi che Netanyahu, considerata anche la situazione che si è creata in Siria (a cui ora si aggiunge un Egitto, passato dalla “primavera” ad un “autunno caldo”), abbia voluto “forzare la mano” ad Obama perché il presidente americano si decida per un intervento diretto degli Stati Uniti nella regione. Al riguardo, non è un caso che il Pentagono sostenga che occorrono 75000 uomini da inviare in Siria, per impadronirsi delle armi chimiche prima che cadano in mano a Hezbollah, (8) né che aumentino gli impegni militari degli Usa nell’area , mentre si moltiplicano i contatti tra Morsi, Israele e gli Stati Uniti. (9) E non è neppure casuale che i cosiddetti “ribelli siriani” compiano numerose azioni che di fatto favoriscono gli israeliani, danneggiando strutture militari che possono servire solo contro “nemici esterni”, come la più importante stazione radar siriana per monitorare l’attività degli aerei dell’IDF. (10)

Si deve d’altronde anche prendere in considerazione che sotto il profilo strategico Israele potrebbe aver commesso un errore, ossia, anziché indebolire i gruppi palestinesi filo-iraniani, potrebbe aver ottenuto l’effetto opposto. Peraltro, ora anche Morsi deve affrontare un situazione interna tutt’altro che facile, il regime di Assad non pare sul punto di crollare e un intervento militare della Nato o degli Usa è ostacolato non poco dalla posizione nettamente contraria della Russia e della Cina. In ogni caso, oltre alle difficoltà di carattere militare, non si vede come gli Stati Uniti o delle “forze occidentali” potrebbero gestire direttamente un’area geopolitica così difficile e delicata come quella del Medio e Vicino Oriente. Un compito che è anche ben al di là delle possibilità del Qatar e dell’Arabia Saudita. Per cercare di mutare la cartina geopolitica dell’intera regione a favore delle “forze occidentali”, occorrerebbe un cambio di regime in Iran, che portasse anche all’isolamento di Hezbollah. Ma non è uno scenario molto probabile. Nonostante che in Iran vi siano alcuni seri problemi di politica interna, non vi sono ragioni di ritenere che la Repubblica islamica iraniana non sia sufficientemente salda e coesa. E una “rivoluzione colorata” non sembra abbia reali possibilità di successo.

D’altra parte, è indubbio che per Israele la questione del nucleare iraniano sia decisiva. Epperò se è vero che si tratta di una questione politica più che militare, un’operazione come “Colonne di nuvole” mostrerebbe  solo che Israele non riesce a far coincidere scopo politico e obiettivo militare. E questo, in definitiva, è il modo in cui Nasrallah e Ahmadinejad hanno interpretato la “retromarcia” dell’esercito israeliano, congratulandosi di conseguenza con la resistenza palestinese per la “vittoria” contro l’IDF. Da questo punto di vista, non è allora strano che una vittoria militare possa rivelarsi una sconfitta politica. Infatti, Israele può colpire Gaza, continuare a massacrare i civili e distruggere migliaia di razzi e postazioni militari palestinesi. Può perfino attaccare un’altra volta Hezbollah o addirittura sferrare un’offensiva contro lo stesso Iran. Ma non può impedire indefinitamente la crescita e lo sviluppo dell’Iran o di altri Paesi della regione. Una regione i cui equilibri geopolitici sono in rapida evoluzione e in cui non vi può essere posto unicamente per la politica di potenza israeliana. Vi è quindi per Israele un problema che prescinde, in un certo senso, dalla stessa questione del nucleare iraniano e che, mutatis mutandis, è lo stesso che devono affrontare gli Stati Uniti a livello globale, dato che il multipolarismo concerne sia gli equilibri mondiali che quelli regionali. Nondimeno, è innegabile che non sia un problema che Israele possa risolvere con un successo militare o vincendo una guerra regionale. Ma non ci si dovrebbe illudere che sia questo il motivo per cui gli israeliani hanno accettato una tregua.

Vero che la “geopolitica del caos” è un’arma a doppio taglio. E che forse adesso sia gli Stati Uniti che Israele se ne stanno rendendo conto. Ma non è da Israele né dagli Stati Uniti che ci si può attendere il riconoscimento della necessità di dar vita a nuovi assetti geopolitici, giacché entrambi i Paesi da tempo non riescono ad adeguare il “passo” della politica a quello della potenza militare. Si è così venuto a generare uno “squilibrio” pericoloso, che potrebbe indurre tanto gli israeliani quanto gli americani a cercare di superarlo con una disastrosa “fuga in avanti”, basandosi sulla loro potenza militare e sulla “particolare” alleanza con le petromonarchie del Golfo. Perciò, la terribile partita geopolitica che si gioca in terra di Siria non deve essere assolutamente persa da Damasco e dai suoi alleati. Cedere qui, significherebbe favorire la “geofollia” sionista e non poter più contrastare la “pre-potenza” statunitense nell’intera regione (compresa tutta l’area mediterranea). Ecco perché anche il futuro della Palestina dipende dal conflitto che oppone Damasco (e Teheran) a Doha e Teheran a Tel Aviv. Un futuro incerto, benché sia chiaro non solo da che parte stanno gli “amici” del Qattar e chi ha da guadagnare dalla destabilizzazione del Medio e Vicino Oriente, ma pure, per così dire, in che direzione soffia il vento che ha generato “Colonna di nuvole”. Un vento così forte che ha sollevato un gran polverone, ma non tanto da impedire ad Hezbollah e all’Iran di comprendere qual è l’autentico obiettivo di Israele.

 

 

 

1. Si veda Benny Morris, Vittime, Garzanti, Milano, 2001, p. 503.

2. http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44590

3. http://www.idfblog.com/2012/11/22/operation-pillar-of-defense-summary-of-events/

4. Benny Morris, op. cit., p. 504- 506.

5. http://www.analisidifesa.it/2012/11/il-sudan-nel-mirino-di-israele/

6. http://www.globalresearch.ca/larte-della-guerra-siria-la-nato-mira-al-gasdotto/5308518

7. Si veda l’articolo di Manlio Dinucci cui si rimanda nella nota 2.

8. Ibidem.

9. http://www.debka.com/article/22560/Middle-East-in-high-suspense-for-Gaza-operation-sequels

10. http://www.debka.com/article/22566/Syrian-rebels-destroy-Assad%E2%80%99s-radar-station-facing-Israel

L’ARRIÈRE-PAYS ROUMAIN DE JEAN PARVULESCO

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Le texte suivant reproduit l’intervention du directeur d’”Eurasia” au colloque sur Jean Parvulesco qui a eu lieu à Paris le 23 novembre 2012.

 

Ma première rencontre avec le nom de Jean Parvulesco date du 1974, quand j’étais l’objet d’attention des mêmes juges italiens qui, dans le cadre d’une enquête politique, s’intéressaient aussi à ce mystérieux roumain lequel appelait à être prêt pour le Endkampf (un mot très suspect aux yeux des chasseurs de sorcières, qui, dans leur orthographe, devenait endekampf) (1).

Selon les enquêteurs, le roumain aurait voulu réaliser, avec deux des accusés, un accord fondé sur deux points: “a) adhésion à la politique de lutte internationale contre le bipolarisme russo-américain dans la perspective de la ‘Grande Europe’, de l’Atlantique aux Ourals; b) contacts avec les forces du gaullisme et du neutralisme eurasien qui se proposaient cette ligne internationaliste” (2).

Trois ans après, en 1977, je lus dans le bulletin “Correspondance Européenne”, dirigé par Yves Bataille, un longue article intitulé L’URSS et la ligne géopolitique, qui semblait confirmer les bruits diffusés par quelques “dissidents” soviétiques au sujet de l’existence d’une mouvance pro-eurasienne agissant plus ou moins clandestinement de l’intérieur de l’Armée Rouge.

J’ai publié la traduction de cet article dans le premier numéro (janvier-avril 1978) d’une petite revue italienne qui s’appelait “Domani”.

L’auteur en était Jean Parvulesco, qui résumait dans la façon suivante les thèses fondamentales de certains milieux russes présentés comme “les groupes géopolitiques de l’Armée Rouge”, thèses exprimées dans une série de documents semi-clandestins arrivés en sa possession.

1. Le “Grand Continent” eurasiatique est un et indivisible, “de l’Atlantique au Pacifique”.

2. La politique européenne de la Russie soviétique ne saurait donc être qu’une politique d’unité continentale, solidaire avec une Europe intégrée autour de la France et de l’Allemagne.

3. L’unité du Gran Continent eurasiatique doit être poursuivie, aussi, à travers la mise en place d’une structure de relations économiques et politiques avec l’Afrique, le Monde Arabe, le Japon, l’Indonésie.

4. L’ennemi fondamental de l’unité géopolitique eurasiatique reste les Etats-Unis.

5. La mission historique de la Russie n’est pas terminée, elle ne fait que commencer.

Selon un “mince livret” cité dans l’article de Parvulesco, le jour de la mort de Staline trois saints staretz étaient partis à pied de Kiev, en assumant, chacun d’eux, la responsabilité apostolique du renouveau final de l’Orthodoxie dans une aire culturelle du Continent. Des trois staretz, Élie prit la Russie, Alexandre la “Grande Sibérie” e Jean l’Europe.

Ce dernier, Frère Jean, bien que poursuivi pendant des années par la Securitate roumaine, aurait produit par sa seule présence sur place le “changement intérieur” du régime communiste de Bucarest.

Pour soutenir cette affirmation, Parvulesco évoque le témoignage du roman Incognito de Petru Dumitriu, paru en 1962 chez les Éditions du Seuil.

Petru Dumitriu (1924-2002) a été un romancier roumain, dont le chef-d’oeuvre, Cronica de familie, a été également publié en France par Seuil, en 1959. En 1960, voyageant en Allemagne de l’Est, il passa clandestinement à Berlin Ouest et demanda asile politique aux autorités françaises, qui le lui refusèrent; il l’obtint en Allemagne Fédérale. Ensuite il vécut à Frankfurt et à Metz, où il mourut en 2002.

Le Frère Jean qui figure dans Incognito de Petru Dumitriu est vraisemblablement l’alter ego littéraire du moine russe Ivan Koulyguine (1885- ?), représentant d’un filon hésychaste remontant au grand staretz ukrainien Païssius Vélitchkovsky (1722-1794), qui vécut au XVIIIe siècle au monastère de Neamtz en Moldavie et ensuite à Optina Poustyne.

En novembre 1943 le Père Ivan Koulyguine s’était enfui de l’Union Soviétique avec le métropolite de Rostov et avait trouvé refuge dans le monastère Cernica, près de Bucarest. Appelé en Roumanie Ioan Străinul, c’est à dire Jean l’Étranger, le Père Ivan devint le guide spirituel du Buisson Ardent (“Rugul Aprins”), un groupe d’intellectuels roumains qui se proposait de ranimer la tradition hésychaste.

Ivan Koulyguine fut arrêté par les Soviétiques en octobre 1946; poursuivi en justice et condamné en janvier 1947 à dix ans de travaux forcés, il fut transféré en URSS, où l’on perdit sa trace.

Jean Parvulesco n’est pas le seul à parler d’un “changement intérieur” produit en Roumanie par l’action de Frère Jean, c’est à dire du Père Ivan.

Aussi Alexandru Paleologu, qui a été ambassadeur de la Roumanie à Paris, a écrit qu’après la libération des survivants du groupe du Buisson Ardent, qui eu lieu grâce à l’amnistie voulue par Gheorghiu-Dej, “les nouvelles générations, les jeunes assoiffés de Dieu, (…) devinrent, en quelque sorte, les témoins au deuxième degré d’un mouvement chrétien qui a su jouer un rôle encore plus important qu’on aurait pu le croire et qui, à la vérité, s’avérait être de ‘longue haleine’ et d’une influence profonde” (3).

Ensuite, j’ai trouvé l’état civil de Jean Parvulesco dans une fiche de la Securitate roumaine rédigée dans les années ’50, que je vais traduire:

“Jean Pîrvulescu, fils de Ioan et de Maria, né le 29 septembre 1929 à Piteşti, dernier domicile à Craiova, str. Dezrobirii n. 25. En 1948 il a disparu de son domicile et il a passé frauduleusement la frontière; en 1950 il a écrit de Paris, France, à ses proches en RPR. En 1956 on a signalé que, avec l’espion Ieronim Ispas, il était sur le point de venir en Roumanie sous couverture du rapatriement, en mission d’espionnage. Dans le cas où il est identifié, il doit être arrêté” (4).

Piteşti, la ville natale de Jean Parvulesco, se trouve au bord de l’Argeş, une rivière qui constitue le scénario d’une fameuse légende roumaine: la légende de Maître Manole, constructeur de ce monastère de Curtea de Argeş qui fut commissionné par Negru Voda, duquel la mère de Jean Parvulesco serait une descendante.

Piteşti est située très près de la région historique de l’Olténie, dont Craiova est la capitale. Dans cette même région se trouve la localité de Maglavit, où, depuis le 31 mai 1935, un berger illetré du nom de Petrache Lupu (1908-1994) était le destinataire des communications d’une entité qu’il appellait Moşul, c’est à dire “le Vieux”, et qui était considérée comme une sorte de théophanie. “À Maglavit et dans les alentours – rapporte la presse de l’époque – prévaut un état d’esprit complètement nouveau. Les gens ont accueili les exhortations de Petrache Lupu à chercher de s’imposer un type de vie différent” (5).

L’écho que ces événements ont en Roumanie (on parle de la “psychose de Maglavit”) conduit Emil Cioran à changer d’avis sur le scepticisme du peuple roumain et à placer ses espoirs en un prochain grand phénomène spirituel et politique. “On ne peut pas dire – écrit Cioran – ce qu’il sera; mais on peut dire que, s’il ne naît pas, nous sommes un pays condamné” (6).

Mihai Vâlsan (1911-1974) reçoit du voyant de Maglavit une sorte de “bénédiction” (binecuvântare); et, comme les messages du “Vieux” semblent annoncer aux Roumains que leur terre deviendra le siège d’un centre spirituel comme l’avait déjà été la Dacie dans l’antiquité, Vâlsan pense que tout cela a affaire avec le Roi du Monde. On connaît le développement de cette histoire.

Ce qui peut nous intéresser ici, c’est la position de Parvulesco face à ces deux Roumains d’expression française – Cioran et Vâlsan.

Pour ce qui est de Cioran, Parvulesco a dit dans un entretien avec Michel d’Urance paru dans “Éléments”: “Je porte encore en moi le deuil atroce que j’avais ressenti devant l’effroyable auto-mutilation que Cioran avait infligée à son génie profond, à son inspiration la plus intime, afin qu’il puisse se faire relativement admettre au banquet des noces démocratico-marxistes d’après la guerre – qui battait alors son plein. Le nihilisme de Cioran, aussi loin qu’il pût aller, n’avait jamais représenté un choix doctrinal, n’ayant en aucun cas constitué que le signe exacerbé d’un constat de désastre face à l’effondrement en cours de la civilisation européenne tout près de sa fin” (7).

Quant à Michel Vâlsan, Jean Parvulesco a dû voir en lui, dans quelque façon, l’intermédiaire secret entre l’enseignement de René Guénon et le Général De Gaulle.

Dans La spirale prophétique il se demande: “Quels sont (…) les rapports encore présents et les rapports à venir entre l’oeuvre de René Guénon et celle de Michel Vâlsan? Y a-t-il eu, y a-t-il, de l’une ou l’autre, la continuation d’un même ministère, exclusivement, ou bien l’oeuvre de Michel Vâlsan apparaît-elle, ou commencerait-elle à apparaître comme la proposition, comme le fruit ardente d’une spécification déjà differenciée?” (La spirale prophétique, p. 75). En tout cas, Parvulesco était convaincu de “l’existence d’une convergence voilée mais très profonde entre l’enseignement de René Guénon et les dimensions confidentielles, voire occultes, de l’action historique et transhistorique entreprise par Charles de Gaulle (…)” (8).

Si nous devions ajouter foi aux dires de Jean Robin, Michel Vâlsan aurait joué un rôle occulte auprès de “ce grand guénonien que fut le général de Gaulle” (9), rangé par Vâlsan lui-même – toujours selon Jean Robin – parmi les “préfigurations du Mahdi” (10) qui se sont manifestées au XXe siècle. Rapportant une information qu’il déclare avoir recueillie auprès de “certains disciples de Michel Vâlsan” (11), Jean Robin fait allusion à une correspondance épistolaire entre Vâlsan et le Général, ainsi qu’à une “mystérieuse initiation” que le premier aurait transmise au second dans les jardins de l’Élysée; il ajoute que Vâlsan était en mesure d’annoncer à l’avance à ses disciples les décisions de Charles de Gaulle y compris les moins prévisibles.

Cependant, Michel Vâlsan ne figure pas dans la liste des écrivains qui, selon ce que Parvulesco dit dans l’entretien paru dans “Éléments”, “ont le plus compté pour [lui], qui ont souterrainement nourri [son] oeuvre”. Il s’agit d’une liste de trente-six auteurs, parmi lesquels il y a Virgile et Dante, Rabelais et Pound, Gobineau et Saint-Yves d’Alveydre; on y trouve aussi Haushofer, Hamsun, Drieu La Rochelle, Céline, Guénon, Corbin, Heidegger.

Le seul compatriote que Parvulesco ait cité dans cette liste est “Basile Lovinesco”, c’est à dire ce Vasile Lovinescu (1905-1984) qui nous a donné l’exégèse hermétique de la légende de Maître Manole.

D’ailleurs, lorsque dans La spirale prophétique nous lisons la phrase sur les “remanences carpathiques de l’ancien culte du dieu Zamolxis” (12), c’est bien Vasile Lovinescu qui nous vient à l’esprit, avec son essai sur la “Dacie hyperboréenne”, écrit sous le pseudonyme de “Géticus” et originellement paru en français dans plusieurs livraisons de la revue “Études Traditionnelles” en 1936-1937.

Pour ce qui est de Mircea Eliade, dans l’entretien avec Michel d’Urance Jean Parvulesco dit que, selon une information qu’il avait reçu à la rédaction d’”Etudes”, Jean Daniélou aurait demandé à Eliade, sur instance du pontife Pie XII, de s’engager dans un travail intellectuel ayant pour but d’exposer une nouvelle vision de l’histoire des religions, pour combattre dans les milieux universitaires l’hégémonie culturelle du marxisme et de ses dérivés. L’engagement d’Eliade dans cette entreprise, observe Parvulesco dans l’entretien citée plus haut, “ne lui a plus permis de tellement s’occuper de littérature, alors que ses romans roumains d’avant la guerre, ainsi que ses nouvelles plus récentes, n’avaient pas cessé d’administrer  la preuve éclatante de son extraordinaire vocation de romancier”.

Parvulesco nous dit que deux nouvelles d’Eliade, Minuit à Serampore et Le secret du Docteur Honigberger (respectivement parues en Roumanie en 1939 et en France chez Stock en 1956 et 1980), recèlent une conception tantrique occulte et interdite envisageant la suspension et le changement du cours et de la substance même de l’histoire (13).

Il nous dit encore que tous les grands romans roumains écrits par Eliade avant la guerre “instruisent pathétiquement le procès de cette génération [c'est à dire la "nouvelle génération" roumaine entre les deux guerres mondiales, génération, il dit,] de hauts mystiques sacrifiés dans un dessein très occultement providentiel, et qui eurent à subir, en quelque sort, l’épreuve de l’immolation sanglante jusqu’à l’avoir eux-mêmes inexorablement attirée sur eux” (14).

Parmi les romans éliadiens d’avant-guerre, c’est surtout Le retour du Paradis (Întoarcerea din rai) qui a touché Parvulesco, et cela à cause d’une citation poétique insérée dans ce texte. Il écrit: “C’est en lisant, adolescent encore, Le retour du Paradis de Mircea Eliade que j’avais en effet pris conscience des pouvoirs suprahumains contenus dans un hymne orphique de Dan Botta, qui s’y trouvait cité (sans doute très à dessein, je ne le sais plus). Quarante ans après, des fragments de l’hymne orphique de Dan Botta viennent me hanter encore. (…) Ce fut à l’instant même de la première lecture de l’hymne orphique de Dan Botta que Chidher le Vert est venu se saisir de moi, porté par le sommet d’une immense vague de lumière verte, supracosmique, lumière fondamentale (…) de la Voie Deltaïque, qui concerne l’humanité dans les cycles de son devenir impérial occulte d’avant et d’après le cycle actuel, Voie Deltaïque régie, dans les abîmes, par la divine Una, la jeune femme verte, la vierge supracosmique dont le nom et la figure irradiante se perpétuent irrationnellement dans les remanences carpathiques de l’ancien culte du dieu Zamolxis” (15).

Le roumain Dan Botta (1907-1958), poète, dramaturge, essayiste, philologue, traducteur de Sophocle, Euripide, Shakespeare, Villon et Poe, appartenait à la “nouvelle génération” et adhéra au mouvement légionnaire; il fut membre du comité de direction de l’Encyclopédie Roumaine et fonda en 1941 la revue “Dacia”.

Comme poète, il débuta en 1931 avec un volume de vers intitulé Eulalii et préfacé par Ion Barbu (1895-1961), dans lequel se trouve la plus célèbre de ses créations poétiques, Cantilena, écrite dans les formes et les rythmes d’une poésie populaire. Or, l’”hymne orphique de Dan Botta” est justement Cantilena et le passage cité par Eliade qui a hanté longuement Jean Parvulesco est le suivant:

 

Pe vântiri ascult

Orficul tumult 

(…) 

Oh, mă cheamă-ntruna

Palida nebuna 

Fata verde Una, 

Şi-n mine se strânge 

Piatra ei de sânge…

 

Parvulesco nous en donne une belle traduction, un peu libre, faite vraisemblablement par lui même:

 

exposé sur les hauts vents

un orphique tumulte j’entends

quand elle dresse soudain sa lyre,

la fille verte de mon délire

Una, et qu’en moi se tend

la pierre rouge de son sang.

Dans le même chapître du Retour du Paradis où sont cités les vers de Cantilena, quelques personnages du roman d’Eliade essayent de comprendre pourquoi la femme aimée par le protagoniste, Anicet, porte le nom de Una; l’un d’eux pense à la Junon des Etrusques, qui s’appellait Uni, tandis qu’un autre pense au Dialogue entre Monos et Una de Edgar Poe. Mais on n’arrive pas à une explication conclusive.

En 1960, vingt-six ans après la publication du Retour du Paradis, Mircea Eliade est revenu sur les vers de Cantilena, écrivant dans une revue de l’émigration roumaine: “Pour Dan Botta, le monde devenait réel quand il commençait à révéler ses structures profondes; c’est à dire, quand l’oeuil de l’esprit commence à saisir, derrière les apparences, les images éternelles, les figures mythiques. Tu pénétrais dans le mystère d’une nuit d’été quand tu arrivais à te la révéler comme dans ces vers de Cantilena: ‘Pe vântiri ascult – Orficul tumult – Când şi ardică struna – Fata verde, Una, – Duce-i-aş cununa…‘ Alors le cosmos entier dévoilait ses significations profondes, car le vent, la lune étaient la chiffre de mythes et drames anciens, qui faisaient déjà partie de l’histoire spirituelle de l’homme. Plus exactement: de l’homme balcanique, entendant par ce terme ethno-géographique toute l’Europe de l’est (…) Dan Botta avait un faible pour ce territoire (…) Dans une certaine façon c’était une géographie sacrée, parce que sur ces plaines et ces montagnes les hommes avaient rencontré Apollon et Dionysos, Orphée et Zamolxis” (16).

La relation entre la suprême divinité des Daces et l’activité de Eliade a été soulignée par Jean Parvulesco, qui, à propos des “remanences carpathiques de l’ancien culte du dieu Zamolxis”, écrit: “D’ailleurs, juste avant la dernière guerre, Mircea Eliade n’avait-il pas commencé l’édition d’une collection de cahiers de l’histoire des religions intitulée, précisément, Zamolxis ?” (17).

Pour revenir à la “fille verte Una”, il faut citer un autre passage de La spirale prophétique, qui est le suivant: “Je rappelle que, dans certains groupements spirituels des plus spéciaux et actuellement des plus retirés, c’est le 7 juillet [rappellez cette date] que des rassemblements se font, à l’abri du plus parfait secret, pour célébrer la ‘déesse verte’ Una, l”infiniment absente, l’infiniment lointaine, l’infiniment silencieuse mais qui, bientôt, ne le sera plus’ ” (18).

Dans “la fille verte Una” (fata verde Una) évoquée par Dan Botta, Eugène Ionesco y a vu une épiphanie de Diane rattachable à la mythologie légionnaire, probablement parce que la couleur verte était la couleur symbolique de la Garde de Fer.

Mais il faut dire, aussi, qu’en Dacie on a trouvé des nombreuses inscriptions dédiées à Diane (Diana regina, vera et bona, mellifica), avec laquelle a été identifiée une divinité traco-gétique.

Il faut ajouter que le nom latin de Diana a produit en roumain le mot zână, qui signifie “fée”, tandis que Sancta Diana a donné origine à la forme plurielle Sânziene. Le Sânziene sont fêtées dans la nuit du 24 juin, une fête solsticiale qui coïncide avec la nativité de Saint Jean le Baptiste. C’est précisement cette nuit la “nuit d’été” que Eliade – dans le passage que je viens de vous lire – a mis en relation avec les vers de Cantilena qui hantaient Jean Parvulesco.

Je rappelle aussi que Noaptea sânzienelor, “La nuit des fées”, est le titre d’un roman de Mircea Eliade (publié en 1955 chez Gallimard avec le titre de Forêt interdite), où le protagoniste, Ştefan Viziru, se trouve emprisonné avec les légionnaires à Miercurea Ciuc, exactement comme le fut Mircea Eliade.

Or, Jean Parvulesco a écrit un texte mystique qui s’appelle Diane devant les Portes de Memphis, imprimé exactement le 7 juillet 1985 et présenté comme une liturgie de Diane.

Qui est donc cette Diane célébrée par Jean Parvulesco? D’après ce qu’il dit, on la peut l’identifier avec la mystérieuse “femme couverte de soleil, la lune sous ses pieds et couronnée dedouze étoiles” (19) qui se tient, dit Parvulesco, au centre de la future civilisation impériale eurasiatique.

Ici il faut donc souligner une autre convergence essentielle entre Mircea Eliade et Jean Parvulesco. C’est leur commune reconnaissance du destin unitaire du Continent eurasien. Dans ses entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Eliade déclarait avoir découvert qu’en Europe “les racines sont bien plus profondes que nous l’avions cru (…) Et ces racines nous révèlent l’unité fondamentale non seulement de l’Europe, mais aussi de tout l’ékoumène qui s’étend du Portugal à la Chine et de la Scandinavie à Ceylan” (20).

Presque simultanément, Jean Parvulesco s’engageait dans les voies de l’avènement de la nouvelle Europe grande-continentale, de l’ « Empire Eurasiatique de la Fin ».

 

 

 

1. Fiasconaro e Alessandrini accusano. La requisitoria su la strage di Piazza Fontana e le bombe del ’69, Marsilio, Padova 1974, p. 231.

2. Fiasconaro e Alessandrini accusano, cit., p. 142.

3. André Paléologue, Le renouveau spirituel du “Buisson Ardent”, “Connaissance des Religions”, avril 1990, p. 132.

4. Mihai Pelin, Culisele spionajului românesc. D.I.E. [Direcţia de Informaţii Externe] 1955-1980, Editura Evenimentul Românesc, Bucarest 1997, p. 42.

5. H. Sanielevici, Rasa lui Petrache Lupu din Maglavit, “Realitatea Ilustrată”, IXe année, n. 447, 14 août 1935.

6. E. Cioran, Maglavitul şi cealalta Românie, “Vremea”, VIIIe année, n. 408, 6 octobre 1935, p. 3.

7. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, “Éléments”, 126, Automne 2007, pp. 54-57.

8. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, Guy Trédaniel, Paris 1986, p. 76.

9. Jean Robin, René Guénon. La dernière chance de l’Occident, Guy Trédaniel, Paris 1983, p. 9.

10. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, Guy Trédaniel, Paris 1985, p. 211.

11. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, cit., p. 335.

12. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, cit., p. 325.

13. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 255-256.

14. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 324-325.

15. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, p. 325.

16. Mircea Eliade, Fragment pentru Dan Botta, “Prodromos”, 7, juillet 1967, p. 21.

17. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 325-326.

18. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 328.

19. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, cit., p. 53.

20. Mircea Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 70.

 

 


“LA POLÍTICA EXTERIOR RUSA DESPUÉS DE LA GUERRA FRÍA – HUMILLACIÓN Y REPARACIÓN”

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Il libro:

ISBN: 978-987-24469-3-2
Casa Editrice: Areté Grupo Editor
Categoría: Politica Internazionale.
Anno di edizione: 10/2011
Lingua: spagnolo

Pagine: 384

 

L’autore.

Alberto Hutschenreuter ha studiato Scienze Politiche ed ha completato la laurea di secondo grado in Controllo e Gestione delle Politiche Pubbliche ed ha ottenuto, con una laurea con lode, un dottorato in Relazioni Innternazionali presso l’Università del Salvador. Si è laureato nel Corso di Studi Superiori della Scuola di Difesa Nazionale.

E’ stato professore nell’Università di Buenos Aires e attualmente è titolare della cattedra di Geopolitica nella Scuola Superiore di Guerra Aerea. Attualmente è anche coordinatore dell’area di Geopolitica  nel Centro Argentino di Studi Internazionali e saggista. E’ membro del Comitato Scientifico di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

 

Recensione.

Il Professore Alberto Hutschenreuter ci propone un saggio importante per la comprensione del declino dell’URSS (fine della Guerra Fredda) e la successiva ascesa della Federazione Russa, tra l’altro ancora in atto.

Il testo si articola in tre distinte fasi storiche che agevolano il lettore in una facile comprensione delle dinamiche concernenti il blocco sovietico e le tematiche trattate. In tutta la sua esposizione, il saggio non perde mai la chiarezza rendendo piacevole ogni approfondimento necessario.

Nella prima parte si analizza il ventennio antecedente la caduta del Muro di Berlino e la conclusione della Guerra Fredda. L’autore analizza con estrema cura il declino russo indicando quale causa della fine del bipolarismo la stessa URSS, incapace di reagire al cambiamento tecnologico produttivo e militare. Pertanto si evince un collasso del sistema e non una “vittoria” cercata dagli Stati Uniti. Appare evidente, infatti, che il blocco occidentale appariva rassegnato ad accettare il bipolarismo e la politica estera statunitense era propensa al dialogo post Guerra Fredda. Sul finire degli anni ’70, però, si è palesata l’incapacità russa di ottemperare alle esigenze di ristrutturazione economica interna e rimodernamento militare.

La seconda parte del saggio focalizza l’attenzione sul processo di “umiliazione” subito dal blocco sovietico a partire dalla fine degli anni ’80. Qui la Russia attiva la famosa Perestroika, ossia apre il proprio mercato e la propria politica al modello occidentale globalizzante. L’autore identifica dal 1987 al 1993 ben 12 eventi determinanti per il declino di uno degli attori più importanti del IXX e di gran parte del XX secolo:

-       L’Accordo sulle Forze Nucleari di Fascia Media (1987)

-       La caduta dell’impero sovietico nell’Europa Centro-Orientale (1989-1990)

-       La riunificazione della Germania

-       La dissoluzione dell’Organizzazione del Trattato di Varsavia (1991)

-       La Guerra del Golfo (1991)

-       Lo sgretolamento e la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991)

-       L’adattamento incondizionato alle direttive statunitensi

-       L’adozione dell’economia di mercato

-       Il Trattato di Riduzione delle Armi Strategiche (START II)

-       La situazione delle armi convenzionali

-       La guerra nei Balcani

-       L’iniziativa di ampliamento della NATO

Tutti fattori irrimediabilmente fondamentali al declino e all’umiliazione internazionale di Mosca. Tuttavia, proprio negli anni ’90, Hutschenreuter individua l’esistenza di una corrente antiliberista, volta a riportare l’area di influenza russa al di là delle frontiere dell’ex URSS.

Tale pensiero risulta essere alla base del nuovo corso russo (terza parte dell’opera) improntato su una riconquista concreta della qualità di superpotenza internazionale alla pari degli Stati Uniti. Tale percorso, iniziato nella seconda metà degli anni ’90 e tutt’oggi in atto, tende a ricostruire relazioni internazionali orizzontali e non più verticali (struttura propria dell’unilateralismo). Altra tappa fondamentale di tale processo è la ristrutturazione del sistema interno dello Stato, tappa fondamentale per una proiezione esterna forte e capace di porsi quale concreta alternativa al dominio statunitense. Sulla base di tale analisi comprendiamo agevolmente le tappe della riparazione russa: riqualificazione come Stato; riposizionamento quale primo referente degli stati nati dallo smembramento dell’URSS; riotteni mento del riconoscimento mondiale del ruolo di potenza economica e militare.

Il Professor Hutschenreuter, nella sua analisi, focalizza l’attenzione sulle dinamiche concernenti la politica estera di Mosca, senza tuttavia trascurare i fondamenti di una politica e di un’economia interna fondamentali nella comprensione dei tre periodi storici descritti.

Infine, l’Autore rileva l’ambiguità della persistenza della NATO, così come la scarsa coerenza della sua operatività in diverse aree del globo.

 

 

INTERVISTA ALL’AUTORE.

B. – Buon giorno Professore. Innanzitutto le faccio i complimenti per il suo saggio, frutto di un’importante opera di ricerca e studio corredato da numerosi viaggi a Mosca per avere una visione a 360 gradi della tematica trattata. Nel suo saggio Lei considera l’ascesa politica di Gorbaciov come una rivoluzione generazionale nel Cremlino. Si può dire, a tale proposito, che anche l’ascesa di Putin ha avuto un analogo significato. Tali cambiamenti hanno portato a mutamenti radicali della politica russa, sia a livello endogeno che esogeno. Nel primo caso, con Gorbaciov si è vissuto un liberismo che di fatto ha sancito la sconfitta dell’URSS nella Guerra Fredda; nel secondo caso, Putin ha ricostruito l’identità russa seguendo una politica pragmatica volta a ristrutturare e difendere il proprio mercato dalle intemperie della globalizzazione. Dopo Putin ci sarà l’ennesima rivoluzione con una nuova Perestroika o le prospettive del multipolarismo si concretizzeranno?

H. – Bella domanda. Capisco che ci sono differenze tra Gorbaciov e Putin: mentre il primo è stato una guida di natura trasformativa, il secondo è stato ed è un leader più convenzionale. Non è noto se, in effetti, Gorbaciov abbia voluto apportare cambiamenti (prevalentemente socioeconomici) su vasta scala, al fine di salvare l’Unione Sovietica dalla stagnazione in cui si trovava da  anni (praticamente dagli anni Cinquanta, quando il sistema economico sovietico iniziò ad accusare problemi di produttività), e trasformarla in una superpotenza più completa o meno unidimensionale, cioè non solo una superpotenza strategico-militare, ma senza abbandonare il modello ideologico socialista;  tuttavia si è trattato di un politico consapevole del fatto che i cambiamenti comportavano l’abbandono di questi modelli e la necessità di intraprendere qualcosa di sconosciuto. Ciò di cui sono sicuro è che Gorbaciov non immaginava che con la sua ristrutturazione sarebbe finita, oltre al socialismo, anche la stessa Unione Sovietica. Lo specialista Jacques Levesque è stato esplicito nella sua analisi: “Gorbaciov, l’uomo scelto per salvare il sistema, paradossalmente fu colui che lo liquidò”.

Per quanto riguarda Vladimir Putin, è una guida che fa parte della tradizione zarista-sovietica, cioè assegna la priorità alle questioni inerenti il settore esterno, all’armamento militare, al nazionalismo, ecc. La sua grande sfida, che determinerà la sua definizione quale guida della Russia, è la modernizzazione del paese. Se nei prossimi anni il presidente russo riesce a trasformare la Russia in un attore maggiormente plurale in termini di potenza, ossia la Russia arriva a svolgere un crescente ruolo nel segmento economico, tecnologico, commerciale, ecc, allora Putin si unirà al gruppo delle guide zar-sovietico-russe protagoniste delle grandi trasformazioni: Pietro il Grande, Caterina, Alessandro II, Stalin, Gorbaciov e Eltsin. Fino ad ora ha dimostrato di essere un leader tradizionale con un po’ di Potemkin, vale a dire più “illusioni” che fatti (sempre parlando del problema della modernizzazione).

 

B. – Giorni fa, durante una conferenza organizzata dal CeSEM, Igor Panarin, un  importante geopolitico russo, ha illustrato la centralità del blocco eurasiatico quale possibile realtà “antagonista” al blocco occidentale. Nella fattispecie Panarin illustrava come grande obbiettivo finale per Mosca, quello di estendere la propria influenza dalla Scozia alla Nuova Zelanda. In concreto appare  uno scenario molto distante dal prossimo futuro. Tuttavia appare interessante la formazione di un asse Berlino-Mosca (che di fatto coinvolgerebbe l’intera Europa). Come valuta il modello eurasiatico e che prospettive ne dà?

H. – Beh, la concezione geopolitica di Panarin gode di una relativa adesione in Russia, dato che non è difficile associare il suo movimento con il vecchio riflesso o vizio geopolitico di timbro imperiale ed espansionista, un’idea che è costata cara alla Russia, e, soprattutto, all’URSS che ha conosciuto il costo che ha implicato l’estensione geopolitica senza la debita stima  geoeconomica. Altri geopolitici seguono questa idea in Russia, ma onestamente è molto difficile immaginare per ora una Russia “seguita” da attori come la Germania, Cina, Giappone, ecc… Mi riferisco alla sostenibilità di un seducente concetto di politica interna ed estera che risulta interessante nella misura in cui “tutti vogliono ciò che vuole la Russia”, per dirla in termini di “soft power” utilizzati da Joseph Nye. Anche all’interno della sua tradizionale area di influenza, la Federazione Russa deve affrontare problemi di “riluttanza” da parte delle ex repubbliche sovietiche durante il consolidamento di uno spazio complementare (e non di incorporamento). Si è cercato di far rivivere l’”eurasiatismo”, una concezione geopolitico-geoculturale del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo che visualizza la Russia rivolta verso Oriente piuttosto che verso Occidente, ma finora non è stato superato il dibattito, dal momento che non pochi identificano questo concetto con  un modello protostorico russo di dominazione ed imperialismo.

D’altra parte, è importante non confondere la rilevanza energetica (somministrazione di gas e petrolio) con l’attrattività o l’influenza. Tuttavia, è interessante seguire alcune idee che sostengono un crescente riavvicinamento tra l’Europa e Russia, più propriamente, tra Germania e Russia, un rapporto che, tranne durante le guerre mondiali, è sempre stato buono. Il geopolitico Alexander Dugin scommette (a mio parere in modo troppo ottimistico) sul rapporto tra Europa e Russia.

 

B. – Rimanendo in tema di multipolarismo, se U.S.A. e Russia si contendono l’Europa per ampliare la propria area d’influenza e se la Cina, impenetrabile e capillare nel resto del mondo, appare ormai un interlocutore internazionale imprescindibile, l’America Latina sembra finalmente matura dal punto di vista politico per liberarsi dalla nomenclatura di “cortile di casa”  degli Stati Uniti. Tuttavia manca ancora l’emancipazione di Stati importanti quali Colombia, Cile e Messico. Questi rappresentano attori cruciali capaci di dare all’intera regione la consacrazione ad ennesimo polo decisionale del globo terrestre. Tre stati che per dimensioni e importanza potrebbero far cedere ogni resistenza liberista filostatunitense propria di sovranità più piccole (Paraguay, Perù, Haiti, Panama, ecc….). Cosa ci possiamo aspettare dalla regione latinoamericana nel prossimo futuro?

H. – Ci sono diverse questioni nella sua riflessione. Per prima cosa, in effetti, gli Stati Uniti non sono più l’attore egemone nella regione. Geopoliticamente, lo spazio di maggiore interesse degli Stati Uniti rimane il Messico, America Centrale ed i Caraibi: un “mare nostrum” americano. Poi l’interesse è discendente. Il punto è che gli Stati Uniti non hanno attualmente alcun concetto per la regione che potrebbe favorire i paesi dell’America Latina e che a sua volta implichi l’ottimizzazione degli interessi statunitensi. In questo senso, direi che l’ultimo presidente che ha avuto un’idea molto chiara è stato Clinton. Si è trattato fondamentalmente di un’idea basicamente economico-commerciale che nel concreto ha causato un massiccio smantellamento della capacità dello Stato in materia di barriere economiche. Non tutti i paesi crederono nella “bontà” del “regime della globalizzazione”, una posizione che ha permesso loro di stabilire livelli di protezione più elevati rispetto ad altri.
Attualmente la regione offre diverse sfumature ideologiche: direi che ci sono paesi con regimi conservatori che non mettono in discussione i rapporti con Washington e cercano di raggiungere vantaggi economico-commerciali, per esempio, Colombia, Cile; altri di natura socialdemocratica che basano il rapporto con gli Stati Uniti su un modello pragmatico, come il Brasile, Perù, Uruguay; in fine altri che ancora credono che contrapporsi agli Stati Uniti paga. Queste differenze non contribuiscono, ovviamente, alla consolidazione di una complementarietà regionale che sono fondamentali quando si costruisce il potere. E’ per questo che il Brasile è più identificato come attore del “gruppo BRICS” che come attore del (svalutato) Mercosur.
In questo contesto, altri attori sono sbarcati nella regione: oggi la Cina è l’attore più importante nei rapporti commerciali del Brasile. Però allo stesso modo si è accresciuta la partecipazione di soggetti al di fuori della regione, ad esempio, la Russia, in particolare nel settore della difesa. Non vi è nulla di negativo nel fatto che avvenga ciò. Il rovescio della medaglia è che i paesi latinoamericani continuano a considerare i termini d’integrazione internazionale in chiave individuale, rinviando per l’ennesima volta la necessaria costruzione di una potenza regionale.

 

B. – Mi permetta un’ultima riflessione sul Sud America. Il Partido de los Trabajadores (PT) brasiliano ha consolidato il suo progetto politico dimostrando di poter fare a meno del carisma di Lula; la Bolivia sembra creare un socialismo che vada ben oltre la figura di Morales; i prossimi sei anni in Venezuela sembrano focalizzati sul consolidamento del progetto socialista di modo che questo possa sopravvivere anche senza Chavez. In Argentina, quali saranno le idee che seguiranno al kirchnerismo e al carisma dell’attuale presidentessa?

H. – Il kirchnerismo definisce il suo modello da una cosiddetta “matrice di inclusione sociale”. Però manca di una strategia per realizzare questo modello. Poi succede quello che è successo a tutti coloro che in America Latina hanno perseguito idee senza sapere come raggiungerle: cadere nel populismo, che è il modo più rapido per l’impoverimento e per gettare il presente e il futuro del paese dalla  finestra. L’unico modo per raggiungere la simmetria tra la democrazia sostanziale, la crescita economica e l’equità sociale è il miglioramento istituzionale. Lo sviluppo sano delle istituzioni pubbliche è una questione di carattere strategico. Quando un paese raggiunge la salute istituzionale, le elezioni diventano una procedura. In Argentina, le elezioni sono una questione di sostanza, mentre lo sviluppo istituzionale diventa una questione procedurale.

 

B. – Mi permetta una ultima domanda che è d’obbligo visto quanto accade nel Vicino Oriente. Tra rivolte arabe e conflitto israelo-palestinese, si palesano a mio avviso due realtà ormai longeve: il colonialismo non passa mai di moda e mentre i grandi attori globali “giocano” ad ampliare i propri confini d’influenza, Israele appare ostinato ad ottenere una supremazia regionale, incurante del precario equilibrio geopolitico al quale Tel Aviv stessa appartiene e che coinvolge l’intera regione. Come valuta, Professore, queste due grandi costanti della storia (il persistere del colonialismo e l’ostinazione israeliana)?

H. – Non so se chiamarlo colonialismo; ciò di cui sono certo è che al momento di valutare le cause della violenza regionale, si deve essere avere un approccio plurale e non parziale. Quello che voglio dire è che senza dubbio il terrorismo di matrice islamista è un fattore di instabilità inevitabile, ma è necessario chiedersi perché il terrorismo esiste: in gran parte le azioni di terrorismo sono dovute ad una distribuzione ineguale della giustizia, per esempio , le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza la cui osservanza si esige in Siria, in relazione alla sua occupazione del Libano, e le risoluzioni la cui osservanza non è necessaria, ad esempio, per Israele in relazione agli spazi occupati nel territorio palestinese. Queste sono conosciute come politiche di doppio criterio, e sarà sempre un fattore o agente di violenza.
Inoltre, ci sono attori della regione che hanno costruito il loro potere, ma a cui viene negato il riconoscimento strategico: in particolare, sto parlando dell’Iran. Penso che se domani Teheran si dovesse impegnare a rispettare l’esistenza di Israele (che si dovrebbe fare), la pressione internazionale continuerà. Questa è un’altra causa di instabilità. Per quanto riguarda l’ostinazione israeliana, la collego ad una categoria geopolitica evidenziata da autorevoli specialisti: dal 1967 i riferimenti territoriali israeliani sono stati modificati, nel senso che Israele crede di non dover restituire i territori occupati nella guerra di quell’anno, considerandoli spazi appartenenti al “popolo” israeliano e non allo “Stato” di Israele. Se così fosse, e finora non vi è alcuna indicazione contraria, c’è poco spazio per l’ottimismo.

 

 

* William Bavone è Segretario Scientifico e responsabile dell’area latinoamericana del CeSEM (Centro Studi Eurasia Mediterraneo).


LA PARABOLA AMERICANA, UN SAGGIO DI GIACOMO GABELLINI

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Parabola, nella lingua italiana, indica sia l’andamento di un fenomeno che ascende fino al suo punto più alto per poi volgere al declino sia la “comparazione” – solo più tardivamente la narrazione a scopo edificante – per mezzo della quale si chiarisce un argomento problematico.

Il saggio di Giacomo Gabellini La Parabola – geopolitica dell’unipolarismo statunitense (303 pagine, Anteo edizioni 2012) corrisponde all’una e all’altra accezione del termine, descrivendo efficacemente il percorso intrapreso dagli USA fra la fine degli anni Ottanta (inizio della fase unipolare in seguito al crollo dell’Unione Sovietica) e i giorni nostri.

Il testo si distingue per la completezza – e la ricchezza di dettagli – della storia raccontata, e particolarmente per la capacità di “comparare” e di mettere in relazione fra di loro fatti che spesso sono superficialmente considerati come slegati l’uno dall’altro.

Poco più di venti anni comprendono il trionfo e l’apogeo di una Superpotenza che attraverso la globalizzazione e interventi militari a raffica (vale a dire con le buone o con le cattive) ha messo sotto i piedi o pesantemente condizionato il mondo intero; ma anche i sintomi e i segni premonitori di un declino che l’arroganza tipicamente yankee non può nascondere all’osservatore attento.

Gabellini insiste sulla dicotomia unipolarismo/multipolarismo e la questione è effettivamente fondamentale: bisogna far venir meno l’assurdo e innaturale sistema unipolare a guida statunitense – sostenuto da quella visione occidentale moderna che pretende di porsi come misura di giudizio di qualsiasi civiltà – per ridare equilibrio al mondo e favorire il recupero e il rispetto delle diverse specificità culturali, etniche e religiose.

In questo quadro, osserva l’Autore riferendosi all’Europa, “ un alleanza strategica con i BRICS, che ponga l’accento sull’aspetto economico, potrebbe costituire la chiave di volta per l’instaurazione di un sistema geopolitico globale che promuova la salvaguardia del vecchio ‘nomos della terra’ dalla hybris imperiale statunitense – che persegue il cosiddetto full spectrum dominance – foriera di guerre e crisi globali”.

La lettura del libro – che è arricchito dalla prefazione di Fabio Falchi e dall’introduzione di Mahdi Darius Nazemroaya – risulta essere estremamente scorrevole e appassionante: un pregio ulteriore  per questo manuale di storia esauriente e documentato.

http://www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/store/products/la-parabola-geopolitica-dellunipolarismo-statunitense/

PARTITA A SCACCHI GEOPOLITICA DIETRO L’ATTACCO A GAZA

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Le recenti ostilità tra la Striscia di Gaza e Israele devono essere considerate nel contesto del grande scacchiere geopolitico. Gli eventi di Gaza sono legati alla Siria e alle manovre regionali degli Stati Uniti contro l’Iran e il suo sistema di alleanze regionale. La Siria è stata compromessa come rifornitrice di armi di Gaza, a causa della sua instabilità interna. Israele ne ha capitalizzato politicamente e militarmente. Benjamin Netanyahu non solo ha cercato di garantirsi la propria vittoria elettorale alla Knesset attraverso l’attacco a Gaza, ma ha utilizzato l’instabilità  sponsorizzata in Siria come un’opportunità per cercare di colpire i depositi di armi dei palestinesi. Netanyahu ha calcolato che Gaza non sarà in grado di riarmarsi, mentre la Siria e i suoi alleati sono distratti. Il bombardamento della fabbrica d’armi Yarmouk in Sudan, che Israele dice essere di proprietà della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, faceva probabilmente parte di questo piano ed era  un preludio all’attacco israeliano a Gaza.
In questa partita a scacchi, siedono i cosiddetti “moderati”, un’etichetta fuorviante utilizzata congiuntamente da George W. Bush Jr. e Tony Blair per imbiancare la loro cabala regionale di tiranni e regimi arretrati, assieme all’amministrazione Obama e alla NATO. Questi cosiddetti moderati sono i dittatori del deserto del feudale Gulf Cooperation Council (GCC), la Giordania, Mahmud Abbas e la Turchia. Nel 2011, le file dei moderati furono incrementate dal governo della Libia installato dalla NATO e supportata dalle milizie anti-governative che la GCC/NATO ha  scatenato in Siria. Dall’altro lato della scacchiera si contrappone il Blocco della Resistenza composto da Iran, Siria, Hezbollah (e dagli alleati di Hezbollah in Libano, come Amal e il Movimento patriottico libero), il cosiddetto fronte del rifiuto palestinese, e sempre più l’Iraq. I Fratelli Musulmani, emersi quale nuova forza regionale, sono sempre più spinti nel campo moderato da Stati Uniti e CCG, nel tentativo di giocare, in ultima analisi, la carta settaria contro il Blocco della Resistenza.

 
 
Forti contrasti tra Gaza e Siria
L’attacco israeliano a Gaza è stato un banco di prova. Tutte le voci che spingono continuamente per una McJihad degli USA contro il governo siriano, in nome della libertà, sono sparite dai loro pulpiti o si sono silenziate improvvisamente quando Israele ha attaccato Gaza. Il tele-predicatore di al-Jazeera Yusuf al-Qaradawi e il Gran Mufti Abdul Aziz, prescelto dal dittatore dell’Arabia Saudita, sono rimasti in silenzio. Adnan al-Arour, uno squinternato esiliato religioso siriano che risiede in Arabia Saudita, come i capi spirituali delle forze antigovernative siriane, ha minacciato di punire chiunque dica che al-Qaida è presente tra le loro fila, ed ha anche rimproverato Hamas e i Palestinesi per voler combattere contro Israele.
I combattimenti a Gaza li hanno veramente messi nei guai. Qui vediamo le contraddizioni della loro “primavera araba”. Vediamo veramente chi sostiene a parole la liberazione della Palestina e chi no. Inoltre, i sostenitori stranieri della Coalizione nazionale siriana, un rimaneggiamento del Consiglio nazionale siriano sono, ironicamente, tutti sostenitori di Israele. Questo è il motivo per cui ricordare che il sostegno che l’Iran, la Siria e Hezbollah hanno fornito a Gaza è diventato un tabù tra i sostenitori delle forze antigovernative in Siria. Tutto quello che possono dire è che, qualsiasi riconoscimento del sostegno che Teheran, Damasco e Hezbollah hanno fornito a Gaza, è un tentativo di “ripulire Bashar al-Assad e i suoi sostenitori.”
 
 
Iran, Siria ed Hezbollah hanno aiutato i palestinesi di Gaza
Il razzo iraniano Faijr-5 incarna simbolicamente il sostegno di Teheran alla Palestina. Nonostante il fatto che Israele e Gaza siano di gran lunga impari, sono state prevalentemente le armi e le tecnologie iraniane che hanno cambiato i rapporti di forza. Teheran è stato il principale alleato e sostenitore della resistenza palestinese. Stati Uniti, Israele, Hezbollah, Hamas, Jihad islamica palestinese, e lo stesso Iran hanno riconosciuto ciò in modi diversi. La Jihad islamica palestinese, che è nettamente filo-iraniana, ha apertamente dichiarato che tutto ciò che Gaza ha utilizzato nella lotta contro Israele, dai proiettili ai razzi, è stato generosamente fornito da Teheran. E’ stato anche riportato, durante i combattimenti, che Hezbollah, utilizzando una speciale unità dedicata all’armamento dei palestinesi, riforniva la Striscia di Gaza con alcuni dei propri razzi a lunga gittata. Tutto questo è avvenuto mentre i cialtroni di Arabia Saudita, Qatar e Turchia hanno invece armato le milizie antigovernative siriane. Egitto e Giordania continueranno ad essere dei partner importanti nell’impedire che le armi iraniane arrivino ai palestinesi.
I combattenti palestinesi sono stati addestrati in Libano, Siria e Iran. Ironia della sorte, le forze antigovernative in Siria prendono di mira anche i membri dell’Esercito di Liberazione palestinese in Siria. Il sostegno che il Blocco della Resistenza ha dato ai palestinesi mette attori come la Turchia e il Qatar, contrari al governo siriano, in una situazione critica. Questi cosiddetti stati sunniti sono imbarazzati, non solo non riescono ad aiutare una popolazione prevalentemente sunnita, ma la loro mancanza di sincerità è palese. È per questo che vi è lo sforzo attivo di negare il sostegno che l’Iran e i suoi alleati hanno fornito a Gaza.
 
 
Scollegare Hamas dal Blocco della Resistenza e iniziare una guerra civile musulmana
L’attacco israeliano a Gaza e il corteggiamento dei moderati verso Hamas non puntano solo alla neutralizzazione di Gaza. I capi di Hamas vengono indotti a scegliere tra il campo moderato e la Resistenza, e sempre più tra l’amministrazione o la resistenza attiva all’occupazione israeliana. Attraverso ciò, una qualche forma di accomodamento tra Stati Uniti e Israele viene ricercata da Hamas. Gli obiettivi sono svincolare i palestinesi, in particolare Hamas, dal Blocco della Resistenza, al fine di presentare l’Iran e i suoi alleati come ripiegati nell’alleanza sciita per dominare i sunniti. Se si è abbastanza stupidi da cadere in questa trappola, si entra nella fitna (“scisma”) statunitense in pieno dispiegamento, che mira ad innescare una guerra regionale civile musulmana tra sciiti e sunniti. L’amministrazione Obama sta cercando di costruire e allineare un asse sunnita contro gli sciiti della regione.
Si tratta della classica strategia del divide et impera, che prevede che USA e Israele dominino la regione mentre i musulmani sono bloccati dal loro salasso interno. Gli sciiti sono sistematicamente vilipesi per gentile concessione della nuova guerra mediatica: Iran, Hezbollah, Bashar al-Assad (un alawita sempre etichettato come sciita per favorire questo piano) e l’amministrazione di Nuri al-Maliki in Iraq sono ritratti come i nuovi oppressori dei sunniti. Al loro posto la Turchia, con la sua quasi defunta politica estera del neoottomanesimo, e l’Egitto sotto i Fratelli Musulmani vengono presentati come i campioni dei sunniti. Non importa che in Egitto Mohamed Morsi abbia continuato il blocco di Gaza per conto d’Israele o che la Turchia di Erdogan abbia perso la voce quando Israele ha iniziato a bombardare Gaza.
Gli Stati Uniti stanno cercando di utilizzare i Fratelli Musulmani d’Egitto per controllare Hamas, poiché è il Cairo che ha stabilito un cessate il fuoco tra Israele e Gaza. Mentre l’Iran offre tecnologia militare, sostegno logistico e finanziario, gli egiziani si sono presentati a Gaza per stabilire una qualche forma di normalità e il GCC per dare finanziamenti alternativi. Questo è il motivo per cui l’emiro del Qatar al-Thani ha visitato Gaza, adescando Hamas con la sua offerta di petrodollari.
 
 
La divisione tra sciiti e sunniti è un artificio politico
All’interno di Hamas vi sono divergenze in merito.  Mentre Damasco, Teheran e Hezbollah desiderano una qualche forma di riconoscimento pubblico della loro assistenza vitale ad Hamas e ai palestinesi, i funzionari di Hamas sono stati attenti nelle loro dichiarazioni. Quando Khaled Meshaal ha ringraziato Egitto, Qatar e Tunisia nel corso di una conferenza stampa importante, ha malapena menzionato l’Iran. Il fare politico di Meshaal non è sfuggito al segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, che ha risposto poche ore dopo chiedendosi retoricamente chi abbia fornito e faticosamente trasferito i razzi Fajr-5 a Gaza? Nasrallah ha chiesto alla gente di ignorare gli amici opportunisti di Gaza, come i qatarioti e i sauditi che pensano di poterli comprare per accedere nelle grazie dei palestinesi, ma a guardare verso gli amici di Gaza che le hanno permesso di resistere da sola. Poi il leader libanese ha ribadito il sostegno continuo del Blocco della Resistenza al popolo palestinese.
Nonostante la posizione del suo Politburo sulla Siria, Hamas fa ancora parte del Blocco della Resistenza. Ma con una nuova forma, ora. Se la Grecia e la Turchia erano in contrasto tra di loro, mentre erano alleati della NATO, allora Hamas può avere le sue differenze verso la Siria ed essere ancora alleata del Blocco della Resistenza contro Israele. La frattura in Medio Oriente non è settaria, tra sciiti e sunniti, ma è fondamentalmente politica. L’alleanza dei movimenti della resistenza palestinese, prevalentemente sunniti, e del Movimento Patriottico Libero, il più grande partito politico cristiano del Libano, con l’Iran ed Hezbollah a maggioranza sciita, deve disinnescare la percezione che gli Stati Uniti e i loro alleati stanno cercando di coltivare.

 
 
 

Mahdi Darius Nazemroaya è sociologo e ricercatore associato presso il Centre for Research on Globalization (CRG) di Montréal e autore di La globalizzazione della NATO (Clarity Press).
Copyright © 2012 Global Research

 
FONTE: http://www.globalresearch.ca/the-geopolitical-chess-game-behind-the-israeli-attack-on-gaza/5313649?print=1


 
 

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

MODELLO BORGHESE E STILE TRADIZIONALE: INTERVISTA ALL’INTELLETTUALE IRANIANO HASAN ABBASI

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Nell’ultimo decennio si è molto discusso dello stile di vita della società iraniana e dei cambiamenti rapidi accaduti in questo periodo. Abbiamo deciso quindi di contattare il famoso intellettuale iraniano Hasan Abbasi, direttore del centro studi “Andishkade Yaqin”, per porgli la questione e sentire la sua opinione al riguardo. Ogni scienza tende a studiare l’evoluzione dello stile di vita di una società sotto il proprio punto di vista, per cui la sociologia affronterà il tema dell’”American way of life” (modello borghese), apparentemente dominante nel mondo, e che sta avendo la sua influenza anche in Iran, soprattutto nei grandi centri, dando delle risposte peculiari, mentre diverso sarà l’approccio religioso, e ancora diverso sarà l’approccio della filosofia ecc. Ma quale è l’approccio delle scienze strategiche? Hasan Abbasi negli ultimi anni si è distinto per la sua analisi profonda della lotta tra stile di vita borghese e modello islamico nella società, un aspetto riconducibile alla grande rivalità culturale tra l’imperialismo occidentale e la civiltà islamica rivoluzionaria, che ha nel pensiero islamo-iranano, uno dei suoi aspetti più interessanti. Hasan Abbasi in tutto ciò tende a distinguere tra vari modelli occidentali, e ci tiene a ribadire che oggi l’avversario culturale da sconfiggere, in quanto nemico del mondo islamico e dell’umanità, non è tanto il pensiero occidentale di Cristoforo Colombo o Vasco da Gama, ma quello imperante oggi, mediaticamente parlando, cioè quello di Huntington e Fukuyama. Questo è uno scontro culturale, propagandistico, non bellico. Evidentemente ha anche dei risvolti nella guerra propriamente detta, come la guerra all’Afghanistan o all’Iraq, ma è principalmente un campo di battaglia per conquistare il cuore dei popoli, non i territori. All’imperialismo di oggi interessa più il plagio delle menti che non dispendiose guerre che spesso mandano nel caos gli stessi imperialisti. I danni provocati ai popoli del mondo da un’emittente televisiva sono molto più grandi dei danni di una bomba. Basterebbe pensare alla logica dell’intrattenimento, mezzo attraverso il quale milioni di individui vengono narcotizzati e rimbambiti (si pensi al Grande Fratello o cose simili) per divenire docili prede del pensiero edonistico occidentale. Basti pensare a come il cinema cerchi di influenzare le menti dei popoli, con film che puntualmente hanno l’obiettivo di fare propaganda politica per un governo o per un gruppo politico particolare (si pensi a film come Rocky o Rambo, dove è presentato un superuomo nordamericano che riesce a sconfiggere i nemici in circostanze anormali, del tipo uno solo contro mille nemici).

 

 

Lei ha sempre visto nello stile di vita della società e nella sua evoluzione o involuzione, una lotta tra modelli differenti per il dominio strategico. Perché?

Col nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso. E’ normale che ognuno studi i fenomeni in base al proprio settore scientifico. I medici e gli psicologi affrontano il tema dei comportamenti sociali da un punto di vista tecnico, mentre i sociologi si occupano dei lati tattici, se così possiamo dire. Questi scienziati si occupano della società così come è, mentre un esperto di strategia deve occuparsi della società ideale, quella che dovrebbe esserci in base alla propria appartenenza ideologica. Loro, i medici o gli psicologi o i sociologi, a prescindere dall’approccio tecnico o tattico, sono studiosi dell’uomo e della società così come si presenta. Noi studiosi delle scienze strategiche cerchiamo invece di porre le basi per la nostra società ideale. Loro analizzano le cose oggettivamente, noi cerchiamo di “costruire” un modello sociale e di farlo applicare.

 

 

Quindi lei ritiene che uno stratega pensa di “costruire” ex novo una società, mentre il sociologo analizza quello che c’è già?

Lo stratega analizza il futuro e in questo ambito noi parliamo di Strategic Planning. Per addentrarci nel discorso possiamo dire che, da un punto di vista coranico, esistono due stili di vita, quello puro e quello impuro. Questi sono due stili di vita antitetici, due modelli ideali, nel senso di teorici. L’impostazione coranica è quindi strategica, perché ci presenta un modello sociale ideale, stavolta nel senso positivo del termine, che fino ad oggi non è esistito; Iddio nel Corano ci dice di attenerci ad un modello per creare un certo tipo di società. L’impostazione è quindi decisamente strategica.

 

 

Quindi nell’Islam lo studio del modello sociale da un’ottica strategica risale agli albori della comunità musulmana (1400 anni fa). Ma ciò  in che epoca è stato preso in considerazione nel mondo occidentale?

Oggettivamente, nel mondo contemporaneo, lo stile di vita che attraverso la globalizzazione è stato maggiormente pubblicizzato, è quello americano (“american way of life”). Questo modello che noi oggi vediamo imperante nel mondo è stato teorizzato circa 40 anni fa.

 

 

Ovvero negli anni ’70?

Esattamente. In questo periodo alcuni studiosi nordamericani hanno analizzato l’evolversi della società statunitense dal 1901 in poi, coniando il termine di “neoindividualismo”, caratteristica saliente della società borghese occidentale in generale, e nordamericana in particolare. Una prima fase di questo progetto neoindividualista si concretizza ai tempi della Grande Guerra, grazie al lavoro di alcuni intellettuali vicini al presidente Wilson. Questi strateghi, rifacendosi ad alcune teorie di S. Freud, hanno come obiettivo quello di creare un’atmosfera politica e sociale favorevole alla scalata egemonica nordamericana, utilizzando il prestigio ottenuto dagli USA tramite la vittoria nella Prima Guerra Mondiale. Si narra che quest’idea si fece più forte quando Wilson, andato in Francia per i trattati successivi al conflitto, venne accolto molto positivamente dal popolo francese. Tutto ciò incentivò gli strateghi americani a fare in modo di canalizzare in modo intelligente quella simpatia, per creare le condizioni di un diffuso sentimento filoamericano in Europa. Il legame con le idee di Freud si concretizza in questo senso: egli pensava che l’uomo avesse due anime o due sensibilità contrapposte, una razionale e l’altra irrazionale, legata quest’ultima agli istinti materialistici e sessuali. Gli strateghi americani partendo da questo presupposto, e sapendo anche che la maggioranza degli uomini sono più inclini alla sensibilità irrazionale e animalesca, sempre in base alla visione pessimistica dell’indole umana di stampo freudiano, decisero di sfruttare ciò in modo da potenziare l’egemonia statunitense. Quindi, bisognava studiare un modo per cavalcare gli ideali materialistici dell’uomo, attraverso una sorta di architettura sociale basata sulla ricerca del piacere edonistico. La pubblicità e le pubbliche relazioni avevano un ruolo fondamentale in tutto ciò. Ma in Europa si stava creando nello stesso periodo, ovvero quello tra le due guerre mondiali, un altro modello basato sulla propaganda su grande scala, ovvero il sistema nazista. Il modello nordamericano e quello tedesco quindi, in quel periodo storico erano in concorrenza tra loro. I mezzi attraverso i quali gli stili di vita venivano pubblicizzati per condizionare le masse erano le radio, i giornali e successivamente le televisioni. Si dice ad esempio che un grosso imprenditore del tabacco negli USA fosse molto turbato dal fatto che i suoi clienti erano in prevalenza uomini (stiamo parlando degli anni ’30) ed egli voleva incentivare le donne al fumo, visto che allora era una sorta di tabù. Attraverso un abile propaganda mediatica, incentivata anche dagli stessi strateghi che collaboravano col governo, le donne in poco tempo iniziarono a fumare in massa, facendo crescere notevolmente questo commercio, in quanto venne fatta passare l’idea che una donna fumatrice è una donna emancipata e “uguale” all’uomo. L’idea di fondo di questo progetto era che l’essere umano è una sorta di animale che non ha una sua coscienza autonoma, ma è come una forma di argilla che deve essere modellata attraverso la propaganda dall’alto, soprattutto attraverso una pubblicità che incentivi uno stile di vita dissoluto e alla ricerca del piacere materiale. Il vero motore di questo progetto neoindividualista è senza ombra di dubbio il consumismo. Allora la democrazia non è più il governo del popolo, ma è il governo del popolo che consuma, che compra. Negli anni successivi poi a tutto ciò bisognerà aggiungere la cosiddetta rivoluzione sessuale, che completerà l’opera della formazione del modello borghese americano, da esportare all’estero, per creare le condizioni sociali del dominio americano. Per dominare i popoli bisogna prima cambiare la loro cultura sociale, il loro stile di vita.

 

 

Negli stessi anni in cui si pubblicizzava questo stile di vita l’America fu vittima della crisi del 1929, quindi vuol dire che questo modello non riuscì a svolgere la sua funzione in modo completo. Come si spiega tutto ciò?

Sì è vero. Ma i risultati di questi progetti non si ottengono nel breve periodo, ma dopo molto tempo. Poi bisogna anche considerare che la politica di Roosevelt si basò non più sull’idea che l’uomo fosse una sorta di animale inaffidabile, in base alle teorie freudiane, ma si partì dal presupposto che l’essere umano era un animale affidabile, ribaltando in parte le politiche dell’era Wilson. Detto in modo sintetico, con Wilson si cercava il plagio delle menti in basa alla volontà dei governanti; questo era il succo del regime propagandistico incentrato sulle pubbliche relazioni. Nel modello rooseveltiano invece, attraverso un metodo ancora in voga oggi, ovvero quello del sondaggio, si cercò di influenzare le masse seguendo i desideri delle masse stesse. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio vero e proprio dell’egemonia mondiale nordamericana, in concomitanza del ritorno al potere in America di esponenti legati più alla logica wilsoniana che non rooseveltiana, e con l’affluire degli intellettuali tedeschi e austriaci, tra i quali molti ebrei in America, vi fu un ritorno alla propaganda ultracapitalista. Addirittura, grazie ad un ingente investimento della GM, si creò una città proiettata nel futuro, che doveva rappresentare l’America del domani, basata sul modello capitalistico e sulla democrazia borghese, che alcuni ribattezzarono “Democra-City”. Quelli erano gli anni della massima espansione dell’impero americano, del suo massimo vigore e della sua massima forma. Erano gli anni della bomba atomica e dell’inizio della Guerra Fredda, della contrapposizione tra il modello capitalista e quello sovietico. L’America si sentiva invincibile. Questa era l’età dell’oro degli USA. Gli oppositori del sistema, con le accuse più varie, come quella di comunismo, venivano perseguitati e nulla sembrava poter scalfire lo strapotere dei gruppi dirigenti americani, sia in politica che in economia. Ma progressivamente i malumori per quello che era divenuto un vero e proprio regime poliziesco incominciarono a venire fuori e le proteste studentesche del ’68 ne furono un esempio lampante. Ma la repressione fu molto dura e il movimento si sfaldò e cadde in una sorta di profonda depressione. Gli studenti demoralizzati dal fallimento del movimento, cercarono allora un’altra via per consolarsi. “Siccome non possiamo cambiare il sistema allora dobbiamo cambiarci noi”. Come dire, ora che il sistema ci ha sconfitti, è inutile cercare una riscossa, ma è bene integrarsi nel sistema per usufruire almeno dei suoi apparenti vantaggi. Tutto ciò segnò anche una grande vittoria per la CIA e i servizi di sicurezza americani. Essi compresero che attraverso la pressione sull’opinione pubblica, e anche la violenza, si riusciva a eliminare fattori di disturbo, per poi incanalarli in un percorso di deviazione, che possa rafforzare l’egemonia del regime stesso. In questo modo si neutralizzano gli avversari, facendoli divenire di fatto degli alleati. Questa logica fu utilizzata anche per neutralizzare i movimenti di Malcolm X e M. L. King e integrarli nel sistema, rendendoli invulnerabili. Negli stessi anni però iniziava a farsi strada una nuova teoria sociale, influenzata dall’esistenzialismo, basata non più sull’animalità dell’uomo, e quindi della necessità del suo controllo dall’alto, ma su un presupposto antitetico, nel quale l’uomo era un essere autosufficiente, non una marionetta delle istituzioni. Questi ideali influenzarono alcuni movimenti in America, ovvero gli hippies, i pank e altri ancora. In quel periodo gli americani iniziarono a sentire i primi segni di decadenza, dovuti in primo luogo alla guerra in Vietnam e agli esiti della guerra arabo-israeliana del 1973, con la crisi petrolifera che ne scaturì. Tutto ciò costrinse gli americani a dei nuovi progetti per mantenere il loro ruolo egemonico. Un tentativo di alleggerimento di questa situazione di stallo fu la volontà di Nixon di sganciare il dollaro dall’oro.

 

 

Quale fu allora la chiave di volta degli americani per uscire da quella situazione di stallo? Esiste un legame tra ciò e lo stile di vita americano e borghese?

Assolutamente sì. La via d’uscita fu la teorizzazione ufficiale dell’american way of life negli anni ’70, grazie alla combinazione dell’impostazione wilsoniana basata sul controllo delle masse attraverso la propaganda e gli ideali rooseveltiani legati al dominio delle masse attraverso l’opinione pubblica stessa. In questo modo il modello borghese e capitalista poteva rinascere sotto nuove vesti, per protrarre l’egemonia americana fino alla fine del XX secolo. Da questo momento in poi la presentazione del modello borghese americano al mondo non sarà solo una questione culturale e sociale, ma strategica, con l’intento ufficiale di influenzare più persone possibili nel mondo, e proporre l’apparente innocuo stile di vita nordamericano come un cavallo di Troia per la successiva colonizzazione politica di tutti i Paesi. Statisti come Reagan, Bush (sia il padre che il figlio) e Clinton sono tutti, a prescindere dalla provenienza partitica, persone legate fortemente alla sponsorizzazione globale dello stile di vita borghese. All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, Bush junior disse: “Ora è sotto attacco lo stile di vita americano”. Questa affermazione non ha un valore sociologico, ma assolutamente strategico. Questa stessa frase è stata pronunziata da Bill Clinton nel 1993, dopo gli attacchi al parcheggio sotterraneo delle Twin Towers. Lo stile di vita americano si basa principalmente sull’esistenza dell’economia capitalistica, che trae la sua linfa vitale dal consumismo, tipico della borghesia anglosassone, bianca e protestante. Questo modello è la base dell’egemonia nordamericana, che viene esportata a secondo dei casi e dei contesti, attraverso le rivoluzioni colorate, oppure la forza bruta. Il neoindividualismo borghese è il frutto più evoluto del modello nordamericano, che prima di essere un sistema economico o politico, è un modello sociale e culturale, legato alle abitudini e allo stile di vita.

 

 

Fino adesso abbiamo accennato alla dimensione sociologica o strategica dello stile di vita. Quale è l’approccio invece della religione?

Anche la religione analizza l’argomento in modo non difforme rispetto alle scienze strategiche. Il modello borghese anglosassone ha le sue radici nel pensiero umanista, che antitetico rispetto alla visuale teocentrica della religione. Per l’umanesimo l’uomo è al centro di tutto; questo modus cogitandi è direttamente legato alla teoria dei diritti umani. D’altro canto nella religione è Dio che è al centro di tutto. Un’analisi completa della religione porta a comprendere che essa, insieme al fatto di creare un legame tra l’uomo e Dio, ha come obiettivo quello di plasmare la condotta umana. La religione quindi è in tutto e per tutto uno stile di vita. Essendo nell’ottica religiosa Dio al centro dell’esistente, è Lui che stabilisce la condotta umana e non l’uomo. Vediamo come lo stile di vita religioso sia quindi in antitesi rispetto al modello borghese anglosassone. Quest’ultimo modello è quello che nell’Islam viene chiamato “modello impuro”, ovvero un sistema che vuole rovesciare i valori tradizionali ed istaurare nel mondo la perversione edonistica.

 

 

Se il modello borghese americano dovesse prendere il sopravvento anche in Iran, cosa accadrebbe?

Io penso che al momento più della metà delle istituzioni (in senso sociologico e non giuridico) della Repubblica islamica dell’Iran siano profondamente influenzate dallo stile borghese. Basterebbe dare un’occhiata all’economia iraniana, assolutamente basata su un modello di banking, che a parte qualche eccezione, è di stampo capitalistico. Sì è vero, nell’economia iraniana lo Stato è molto presente e nel modello ideale anglosassone non dovrebbe essere così. Ma a parte questo, la logica del sistema “danarocentrico” è sempre la stessa. Dobbiamo notare però che ciò non ha avuto particolari ripercussioni sulla classe dirigente, nel senso che le guide del Paese, quelle che veramente hanno un ruolo fondamentale nelle istituzioni, e non un semplice ministro che ricopre una carica per qualche anno per poi sparire, e lo stesso vale anche per i parlamentari o altri ancora, mantengono chiare istanze rivoluzionarie. D’altronde la società iraniana ha recepito molto dello stile di vita borghese. Basterebbe vedere la cultura imperante nelle grandi città iraniane, non troppo diverso dal modello anglosassone. Anche nella politica dei partiti noi vediamo questa influenza. Per ciò che concerne lo stile di vita partitocratico della borghesia, essa si caratterizza per una sorta di duopolio basato sull’alternanza. A grandi linee anche in Iran, col delinearsi di una coalizione di sinistra (riformatori) e una conservatrice (tradizionalisti), abbiamo qualcosa di molto simile. D’altronde anche l’università è fortemente influenzata dallo stile di vita borghese. Più della metà dei corsi di scienze umanistiche e sociali si basano sugli insegnamenti di studiosi di cultura anglosassone; nell’economia, nella filosofia, nella psicologia, nel management e in altre materie, l’influenza borghese è fortissima. La cultura tradizionale è in ritirata, e avanza il modello nordamericano. Mi preoccupa molto questa sostituzione di una sapienza etica e religiosa con una sorta di psicologia borghese, per usare una terminologia cara a Shariati. Possiamo dire che in Iran è successo un fenomeno strano negli ultimi decenni, all’avanzata dello stile di vita borghese non è corrisposto un imborghesimento dell’ideologia rivoluzionaria dello Stato; oggi ci troviamo dinnanzi a uno strano modello sociale, una sintesi tra cultura borghese e Islam rivoluzionario. Questo fenomeno, cioè il fatto che la cultura islamo-rivoluzionaria sia riuscita ad assorbire la cultura borghese, senza ripercussioni catastrofiche, mi rende in ogni caso ottimista.

 

 

Questa secondo lei la situazione in Iran. Ma quale è la prospettiva borghese nel mondo e soprattutto in America?

Innanzi tutto bisogna dire che lo stile di vita borghese si caratterizza fortemente per essere la base sociale del capitalismo finanziario. L’attuale crisi finanziaria che sta attanagliando i Paesi industrializzati, dimostra che questo modello è ormai al capolinea. Ogni giorno che passa le sommosse sociali aumentano sia in Europa che negli USA. La borghesia senza il capitalismo è come un pesce senza l’acqua. Il fallimento del modello capitalistico è il fallimento della cultura borghese. Il modello nordamericano, immerso nel debito pubblico più importante del mondo, è ormai alla frutta e non potrà protrarsi ancora per troppo tempo. Inoltre il modello borghese è vittima di una grande involuzione etica, rappresentata dal proliferare di siti a carattere pornografico. Il canale Russia Today ha riferito dell’esistenza di circa 25 milioni di siti di questo tipo negli USA, cioè per circa tredici americani esiste un sito porno. Questo conferma che lo stile di vita americano è quello più corrotto e più immorale; non a caso l’imam Khomeini definì l’America come la “madre della corruzione”. Il sostegno dei fautori dello stile di vita borghese anglosassone a dittatori e despoti in tutto il mondo islamico, dall’Arabia Saudita al Bahrain, dalla Giordania al Marocco, ha reso agli occhi di tutti ed in particolare dei musulmani, gli USA come un Paese avversario. La decadenza morale della borghesia e la crisi dell’istituto fondamentale della società, ovvero la famiglia, è un altro degli aspetti di ripiegamento della cultura nordamericana.

 

 

Il popolo iraniano riuscirà secondo lei a sconfiggere l’aggressione borghese e a farla definitivamente soccombere?

Se noi analizziamo la storia iraniana ci rendiamo conto che gli abitanti di questa terra si sono sempre caratterizzati per un’alta capacità di influenzare l’aggressore e di farlo ripiegare. Ad esempio ai tempi dell’invasione mongolica dell’Altopiano iranico, i mongoli apparentemente conquistarono il territorio, ma i loro cuori furono conquistati dalla cultura e dalla religione degli iranici. La dinastia Mugul in India non fu altro che il frutto dell’”iranizzazione” dei mongoli, che poi esportarono quel modello culturale in tutto il Subcontinente indiano. Quale arabo avrebbe mai pensato che dopo l’invasione dell’Altopiano iranico, e l’islamizzazione dei popoli iranici, la prima Repubblica islamica ortodossa sarebbe nata proprio in quella regione, quattordici secoli dopo? Oggi la nazione iraniana è il principale baluardo nel mondo islamico contro l’imperialismo nordamericano, e a Dio piacendo, anche questo avversario dell’Iran verrà ridimensionato. Oggi l’Iran può vantare il principale esercito etico, ideologico ed indottrinato del mondo, le “Forze Resistenti della Mobilitazione degli Oppressi” (in persiano “Niruie Moqavemate Basije Mostazafin”, gli appartenenti a questo esercito popolare  generalmente sono chiamati  “Basiji”, cioè “Volontari”). Anche se in Iran la cultura borghese si è espansa, finché vi sarà una parte consistente di popolazione che aderirà ai valori islamici autentici e rivoluzionari, la malattia borghese sarà una cosa passeggera, e come tutte le mode sparirà, prima o poi. Ripeto, da questo punto di vista sono ottimista.

 

Tratto da http://www.andishkadeh.ir/News/Content/?n=40

IL RETROTERRA ROMENO DI JEAN PARVULESCO

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Il testo seguente riproduce l’intervento del direttore di “Eurasia” al colloquio su Jean Parvulesco che ha avuto luogo a Parigi il 23 novembre 2012.

 

Quando, adolescente, vidi al cinema Fino all’ultimo respiro, non potei immaginare che in seguito mi sarei occupato di Jean Parvulesco, il cui ruolo era interpretato nella pellicola da Jean-Pierre Melville. Invece alcuni anni dopo, nel 1974, appresi dagli atti di un processo politico che il personaggio della storia di Jean-Luc Godard esisteva realmente e avrebbe voluto realizzare insieme con altri sovversivi, nella prospettiva di un prossimo Endkampf (1), un accordo fondato su due punti: “a) adesione alla politica di lotta internazionale al bipolarismo russo-americano nella prospettiva della ‘Grande Europa’, dall’Atlantico agli Urali; b) contatti con le forze che dal Gaullismo e dal neutralismo euroasiatico si proponevano questa linea internazionalistica” (2).

Tre anni dopo, nel 1977, mi capitò di leggere in un bollettino redatto da Yves Bataille, “Correspondance Européenne”, un lungo articolo intitolato L’URSS e la linea geopolitica, che sembrava confermare le voci diffuse da alcuni “dissidenti” sovietici circa l’esistenza di una tendenza eurasiatista all’interno dell’Armata Rossa. L’autore dell’articolo (del quale pubblicai la traduzione italiana numero di gennaio-aprile 1978 di un periodico che si intitolava “Domani”) era Jean Parvulesco, il quale riassumeva nei punti seguenti le tesi fondamentali di quelli che egli presentava come “i gruppi geopolitici dell’Armata Rossa”, tesi espresse in una serie di documenti semiclandestini giunti in suo possesso.

1. Il “Grande Continente” eurasiatico è uno e indivisibile, “dall’Atlantico al Pacifico”.

2. La politica europea della Russia sovietica può dunque essere soltanto una politica di unità continentale, solidale con un’Europa integrata intorno alla Francia ed alla Germania.

3.L’unità del Grande Continente eurasiatico deve essere perseguita anche mediante l’istituzione di una struttura di relazioni economice e politiche con l’Africa, il Mondo Arabo, il Giappone, l’Indonesia.

4. Gli Stati Uniti restano il nemico fondamentale dell’unità geopolitica eurasiatica.

5. La missione storica della Russia non è terminata; essa è appena iniziata.

 

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Secondo uno “smilzo libretto” citato nel lungo articolo di Parvulesco, nel giorno stesso della morte di Stalin tre santi staretz sarebbero partiti a piedi da Kiev, ciascuno di loro assumendo la responsabilità apostolica del rinnovamento finale dell’Ortodossia in un’area culturale del Continente. Dei tre staretz, Elia avrebbe preso la Russia, Alessandro la Siberia, Giovanni l’Europa.

Quest’ultimo, il Fratello Giovanni, benché perseguitato per anni dalla Securitate romena, avrebbe prodotto, con la sua sola presenza sul luogo, il “cambiamento interno” del regime comunista di Bucarest. Per sostenere questa affermazione, Parvulesco evoca la testimonianza del romanzo Incognito di Petru Dumitriu (1924-2002), apparso nel 1962 nelle Éditions du Seuil.

Petru Dumitriu (1924-2002) fu un romanziere romeno, il cui capolavoro, Cronica de familie, era stato anch’esso pubblicato in Francia da Seuil, nel 1959. Nel 1960, approfittando di un viaggio nella Repubblica Democratica Tedesca, Dumitriu passò clandestinamente a Berlino Ovest e chiese asilo politico alle autorità francesi, che glielo rifiutarono; lo ottenne nella Germania Federale. In seguito visse a Francoforte e a Metz, dove morì nel 2002.

Il Frère Jean che compare in Incognito di Petru Dumitriu è verosimilmente l’alter ego letterario del monaco russo Ivan Kulygin (1885-?), esponente di una linea esicastica risalente al grande staretz ucraino Paisie Velickovskij (1722-1794), che visse nel XVIII secolo nel monastero di Neamtz in Moldavia e poi a Optina Pustyn’. Nel novembre 1943 il Padre Ivan Kulygin era fuggito dall’Unione Sovietica insieme col metropolita di Rostov e aveva trovato rifugio nel monastero di Cernica, a Bucarest. Chiamato in Romania Ioan Străinul, cioè Giovanni lo Straniero, il Padre Ivan divenne la guida spirituale del Roveto Ardente (Rugul Aprins), un gruppo d’intellettuali romeni che si proponeva di rivivificare la tradizione esicastica. Ivan fu arrestato dai Sovietici nell’ottobre 1946; processato e condannato nel gennaio 1947 a dieci anni di lavori forzati, fu deportato in URSS, dove si persero le sue tracce.

Jean Parvulesco non è il solo a parlare di un “cambiamento interno” prodotto in Romania dall’azione spirituale del Fratello Giovanni, ossia del Padre Ivan. Anche Alexandru Paleologu, che fu ambasciatore di Romania a Parigi, scrisse che, dopo la liberazione dei sopravvissuti del gruppo del Roveto Ardente, che ebbe luogo grazie all’amnistia voluta da Gheorghiu-Dej, “le nuove generazioni, i giovani assetati di Dio, (…) diventarono, in qualche modo, i testimoni di secondo grado di un movimento cristiano che seppe svolgere un ruolo ancor più importante di quanto non si potesse credere e che, in verità, si rivelò di ‘ampio respiro’ e di influenza profonda” (3).

 

*

 

In seguito, ho trovato alcuni dati biografici di Jean Parvulesco in una scheda della Securitate romena compilata negli anni Cinquanta, che traduco integralmente. “Jean Pîrvulescu, figlio di Ioan e di Maria, nato il 29 settembre 1929 a Piteşti, ultimo domicilio a Craiova, strada Dezrobirii n. 25. Nel 1948 è scomparso dal suo domicilio ed ha passato la frontiera in maniera fraudolenta; nel 1950 ha scritto da Parigi, Francia, ai suoi congiunti nella RPR [Repubblica Popolare Romena]. Nel 1956 è stato segnalato che, insieme con la spia Ieronim Ispas, era in procinto di venire in Romania sotto copertura di rimpatrio, in missione di spionaggio. Nel caso in cui venga identificato, sia arrestato” (4).

Piteşti, la città natale di Jean Parvulesco, sorge sulla riva dell’Argeş, un fiume che rientra nello scenario di una celebre leggenda romena: la leggenda di Mastro Manole, costruttore del monastero commissionato da Negru Voda, dal quale la famiglia Parvulesco rivendica la propria ascendenza.

Piteşti è situata vicino alla regione storica dell’Oltenia, la cui capitale è Craiova, ultimo domicilio romeno di Jean Parvulesco. La casa di strada Dezrobirii, espropriata dalle autorità della RPR, dopo la “rivoluzione” del 1989 è stata demolita per far posto ad un McDonald’s. Quod non fecerunt barbari…

Nella medesima regione – in cui nacque anche Vintilă Horia (1915-1992), destinato pure lui a scrivere in francese -  si trova la località di Maglavit, dove, dal 31 maggio 1935, un pecoraio illetterato di nome Petrache Lupu (1908-1994) diventò il destinatario delle comunicazioni di un’entità che egli chiamava  Moşul, ossia “il Vecchio”, e che veniva ritenuta una sorta di teofania. “A Maglavit e nei dintorni – si legge sulla stampa dell’epoca – prevale uno stato d’animo del tutto nuovo. La gente ha accolto le esortazioni di Petrache Lupu a cercar d’imporsi un tipo di vita diverso” (5).

L’eco che questi avvenimenti ebbero in Romania (si parlava della “psicosi di Maglavit”) indusse Emil Cioran a mutar parere circa lo scetticismo del popolo romeno ed a riporre le sue speranze in un imminente grandioso fenomeno spirituale e politico. “Non si può dire – scriveva Cioran – che cosa sarà; ma si può dire che, se non si verifica, noi siamo un paese condannato” (6).

Il veggente di Maglavit trasmise una sorta di “benedizione” a Mihai Vâlsan (1911-1974); siccome i messaggi del “Vecchio” sembravano annunciare ai Romeni che la loro terra sarebbe diventata la sede di un centro spirituale come la era già stata la Dacia nell’antichità, Vâlsan pensava che tutto ciò avesse a che fare col Re del Mondo di cui parlava René Guénon in un suo libro. E’ noto lo sviluppo di questa storia (7).

 

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Quello che qui ci può interessare, è la posizione di Parvulesco nei confronti di Cioran e di Vâlsan, due romeni che, come lui, scelsero di abbandonare la lingua materna per scrivere esclusivamente in francese.

Per quanto riguarda Cioran, Parvulescu ha detto a Michel d’Urance in un’intervista apparsa su “Éléments”: “Reco ancora in me il dolore atroce provato davanti alla spaventosa automutilazione che Cioran aveva inflitta al suo genio profondo, alla sua ispirazione intima, per potersi fare relativamente ammettere al banchetto di nozze democratico-marxista del dopoguerra – che allora era al culmine. Il nichilismo di Cioran, per quanto potesse andare lontano, non ha mai rappresentato una scelta dottrinale, non avendo mai rappresentato nient’altro che il segno esacerbato della constatazione del disastro, davanti allo sprofondare della civiltà europea ormai giunta alla fine” (8).

Quanto a Michel Vâlsan, Jean Parvulesco dovette vedere in lui, in qualche modo, l’intermediario segreto tra l’insegnamento di René Guénon e il Generale De Gaulle.

Nella Spirale prophétique Parvulesco si chiede: “Quali sono (…) i rapporti ancora esistenti e i rapporti a venire tra l’opera di René Guénon e quella di Michel Vâlsan? Vi è stata, vi è, dell’una o dell’altra, la continuazione di uno stesso ministero, in maniera esclusiva, o invece l’opera di Michel Vâlsan appare, o comincia ad apparire, come la proposta, come il frutto ardente, di una specificazione già differenziata?” (9).

Parvulescu era convinto dell’ “esistenza di una convergenza velata ma assai profonda tra l’insegnamento di René Guénon e le dimensioni confidenziali, anzi occulte, dell’azione storica e transistorica intrapresa da Charles de Gaulle” (10).

Se dovessimo dar credito alle affermazioni di Jean Robin, Michel Vâlsan avrebbe svolto un ruolo occulto presso “quel grande guénoniano che fu il generale De Gaulle” (11), collocato dallo stesso Vâlsan – sempre a dire di Jean Robin – tra le prefigurazioni del Mahdi” (12) che si sono manifestate nel XX secolo. Riportando un’informazione che egli dichiara di aver raccolta da “certi discepoli di Michel Vâlsan” (13), Jean Robin fa allusione ad una corrispondenza epistolare intercorsa tra Vâlsan e il Generale, nonché ad una “misteriosa iniziazione” che il primo avrebbe trasmessa al secondo nei giardini dell’Eliseo ed aggiunge che Vâlsan era in grado di preannunciare ai suoi discepoli le decisioni di Charles de Gaulle, comprese le meno prevedibili.

Ciononostante Michel Vâlsan non figura nella lista degli scrittori che, stando a quanto affermato da Parvulesco nell’intervista apparsa su “Éléments”, “hanno contato di più per [lui], hanno sotteraneamente alimentato la [sua] opera”. Si tratta di un elenco di trentasei autori, tra i quali troviamo Virgilio e Dante, Rabelais e Pound, Gobineau e Saint-Yves d’Alveydre, ma anche Haushofer, Hamsun, Drieu La Rochelle, Céline, Guénon, Corbin, Heidegger.

L’unico connazionale citato da Parvulesco in questa lista è “Basile Lovinesco”: quel Vasile Lovinescu (1905-1984) che ci ha fornito l’esegesi ermetica della leggenda di Mastro Manole. D’altronde, quando nella Spirale prophétique leggiamo la frase sui “residui carpatici dell’antico culto del dio Zamolxis” (14), è proprio Vasile Lovinescu che ci viene in mente, col suo saggio sulla “Dacia iperborea”, firmato con lo pseudonimo di “Géticus” e originariamente apparso in francese tra il 1936 e il 1937 su “Études Traditionnelles” (15).

 

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Per quel che riguarda Mircea Eliade, nell’intervista rilasciata a Michel d’Urance Jean Parvulesco dice che, secondo un’informazione da lui ricevuta nella redazione di “Etudes”, Jean Daniélou avrebbe esortato Eliade, su richiesta di Pio XII, ad impegnarsi in un lavoro intellettuale avente lo scopo di esporre una nuova visione della storia delle religioni, per combattere negli ambienti universitari l’egemonia culturale del marxismo e dei suoi derivati. L’impegno di Eliade in questa impresa, osserva Parvulesco nella medesima intervista, “non gli ha più consentito di occuparsi tanto di letteratura, quando i suoi romanzi romeni d’anteguerra, come le sue novelle più recenti, non avevano cessato di fornire la prova clamorosa della sua straordinaria vocazione di romanziere”. In particolare, Parvulesco afferma che due romanzi di Eliade, Minuit à Serampore e Le secret du Docteur Honigberger (rispettivamente pubblicati in Romania nel 1939 e in Francia da Stock nel 1956 e nel 1980), contengono un’occulta concezione tantrica riguardante la sospensione e il cambiamento del corso e della sostanza stessa della storia (16). Tutti i grandi romanzi romeni scritti da Eliade prima della guerra, dice ancora Parvulesco, “istruiscono pateticamente il processo di questa generazione [la "nuova generazione" o "giovane generazione" della Romania interbellica] di alti mistici sacrificati in un disegno occultamente provvidenziale, i quali dovettero in qualche modo subire la prova dell’immolazione cruenta, fino ad attirarla inesorabilmente su loro stessi” (17).

 

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Tra i romanzi eliadiani d’anteguerra, è stato soprattutto Întoarcerea din rai (“Il ritorno dal paradiso”) a toccare l’anima di Parvulesco, e questo per via di una citazione poetica inserita da Eliade nel testo. “Leggendo ancora adolescente Il ritorno dal paradiso di Mircea Eliade, – scrive Parvulesco –acquisii la consapevolezza dei poteri sopraumani contenuti in un inno orfico di Dan Botta che vi si trovava citato (senza dubbio a ragion veduta, non so più). Quarant’anni più tardi, ci sono dei frammenti dell’inno orfico di Dan Botta che ancora mi ossessionano. (…) Fu nel momento stesso della prima lettura dell’inno orfico di Dan Botta che venne ad impadronirsi di me Khidr il Verde, sulla cresta d’un’immensa onda di luce verde, sopracosmica, luce fondamentale (…) della Via Deltaica, che riguarda l’umanità nei cicli del suo occulto divenire imperiale antecedenti e successivi al ciclo attuale, Via Deltaica governata, negli abissi, dalla divina Una, la giovane donna verde, la vergine sopracosmica, il cui nome e la cui figura irradiante si perpetuano irrazionalmente nei residui carpatici dell’antico culto del dio Zamolxis” (18).

Il romeno Dan Botta (1907-1958), poeta, drammaturgo, saggista, filologo, traduttore di Sofocle, Euripide, Shakespeare, Villon e Poe, apparteneva alla “nuova generazione” e aderì al movimento legionario; membro del comitato di direzione dell’Enciclopedia Romena, fondò nel 1941 la rivista “Dacia”. Come poeta, Dan Botta esordì nel 1931 con un volume di versi intitolato Eulalii e prefato da Ion Barbu (1895-1961), nel quale si trova la più famosa delle sue creazioni poetiche, Cantilena, scritta nelle forme e nei ritmi d’una poesia popolare. Ora, l’ “inno orfico di Dan Botta” è per l’appunto Cantilena e il brano citato da Eliade che ossessionava Jean Parvulesco è il seguente:
 

Pe vântiri ascult

Orficul tumult 

(…) 

Oh, mă cheamă-ntruna

Palida nebuna 

Fata verde Una, 

Şi-n mine se strânge 

Piatra ei de sânge… (19)

 
Parvulesco ce ne dà una bella traduzione, un po’ libera, eseguita verosimilmente da lui stesso:

 

exposé sur les hauts vents

un orphique tumulte j’entends

quand elle dresse soudain sa lyre,

la fille verte de mon délire

Una, et qu’en moi se tend

la pierre rouge de son sang.

 

Nel medesimo capitolo di Întoarcerea din rai in cui sono citati i versi di Cantilena, alcuni personaggi del romanzo di Eliade cercano di capire perché mai la giovane donna amata dal protagonista, Aniceto, porti il nome di Una; uno di loro pensa alla Giunone etrusca, che si chiamava Uni, mentre un altro pensa al Dialogo di Monos e Una di Edgar Poe; ma non si arriva ad una spiegazione decisiva.

Nel 1960, ventisei anni dopo la pubblicazione di Întoarcerea din rai, Mircea Eliade ritornò sui versi di Cantilena, scrivendo in una rivista dell’emigrazione romena: “Per Dan Botta, il mondo diveniva reale quando cominciava a rivelare le sue strutture profonde, vale a dire, quando l’occhio dello spirito comincia a cogliere, dietro le apparenze, le immagini eterne, le figure mitiche. Tu penetravi nel mistero d’una notte d’estate quando riuscivi a rivelartela, come in questi versi di Cantilena: ‘Pe vântiri ascult – Orficul tumult – Când şi ardică struna – Fata verde, Una, – Duce-i-aş cununa…‘ (20). Allora il cosmo intero svelava i suoi significati profondi, poiché mil vento, la luna, erano la cifra di miti e drammi antichi, che facevano già parte della storia spirituale dell’uomo. Più esattamente: dell’uomo balcanico, intendendo con questo termine etno-geografico tutta l’Europa orientale (…) Dan Botta aveva un debole per questo territorio (…) In un certo modo era una geografia sacra, perché su queste pianure e su queste montagne gli uomini avevano incontrato Apollo e Dioniso, Orfeo e Zamolxis” (21).

La relazione tra la suprema divinità dei Daci e l’attività di Eliade è stata sottolineata da Jean Parvulesco, il quale, a proposito dei “residui carpatici dell’antico culto del dio Zamolxis”, scrive: “D’altronde, proprio prima dell’ultima guerra, Mircea Eliade non aveva cominciato a pubblicare una serie di quaderni di storia delle religioni intitolata, per l’appunto, ‘Zamolxis’ ?” (22).

Per tornare alla “fanciulla verde Una” (fata verde Una), bisogna citare un altro brano della Spirale prophétique: “Ricordo che, in certi gruppi spirituali dei più speciali e attualmente dei più ritirati, è il 7 luglio [notare la data] che si tengono le riunioni, al riparo del più perfetto segreto, per celebrare la ‘dea verde’ Una, la ‘infinitamente assente, l’infinitamente lontana, l’infinitamente silenziosa, che però presto non lo sarà più’ ” (23).

Nella “fanciulla verde Una” evocata da Dan Botta, Eugène Ionesco ha visto un’epifania di Diana ricollegabile alla mitologia legionaria, probabilmente perché il verde era il colore simbolico della Guardia di Ferro. Ma occorre anche ricordare che in Dacia sono state ritrovate diverse iscrizioni dedicate a Diana (Diana regina, vera et bona, mellifica), con la quale è stata identificata una divinità traco-getica. Conviene poi aggiungere che il nome latino Diana ha prodotto in romeno la parola zână, che significa “fata”, mentre Sancta Diana ha dato origine al plurale Sânziene: si tratta delle fate cui è dedicata la festa solstiziale del 24 giugno, coincidente con la natività di San Giovanni Battista. Ed è proprio quella del 24 giugno la “notte d’estate” che Eliade mette in relazione coi versi della Cantilena che ossessionavano Jean Parvulesco. Ricordo infine che Noaptea sânzienelor (“La notte delle fate”) è il titolo di un romanzo d’Eliade (pubblicato nel 1955 da Gallimard col titolo Forêt interdite), in cui il protagonista, Ştefan Viziru, controfigura dell’autore, si trova imprigionato insieme coi legionari a Miercurea Ciuc.

Ebbene, Jean Parvulesco ha scritto un testo mistico che s’intitola Diane devant les Portes de Memphis, stampato esattamente il 7 luglio 1985 e presentato come una liturgia di Diana.

Chi è dunque la Diana celebrata da Jean Parvulesco? La possiamo senza dubbio identificare con la misteriosa “donna coperta di sole, la luna sotto i piedi, coronata di dodici stelle” (24), che si trova, dice Parvulesco, al centro della futura civiltà imperiale eurasiatica.

E qui bisogna evidenziare un’altra convergenza essenziale tra Mircea Eliade e Jean Parvulesco: si tratta del loro comune riconoscimento del destino unitario dell’Eurasia.

Nella sua lunga conversazione con Claude-Henri Rocquet, Eliade dichiarava di avere scoperto che in Europa “le radici sono molto più profonde di quanto non avessimo creduto (…) E queste radici ci rivelano l’unità fondamentale non solo dell’Europa, ma anche di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon” (25).

Quasi simultaneamente, Jean Parvulesco s’impegnava sulle vie dell’avvento dell’ “Impero eurasiatico della Fine”.

 

 

 

1. Parola alquanto sospetta agli occhi degl’inquisitori, che nella loro requisitoria la trascrissero nella forma endekampf. Cfr. Fiasconaro e Alessandrini accusano. La requisitoria su la strage di Piazza Fontana e le bombe del ’69, Marsilio, Padova 1974, p. 231.

2. Fiasconaro e Alessandrini accusano, cit., p. 142.

3. André Paléologue, Le renouveau spirituel du “Buisson Ardent”, “Connaissance des Religions”, avril 1990, p. 132.

4. Mihai Pelin, Culisele spionajului românesc. D.I.E. [Direcţia de Informaţii Externe] 1955-1980, Editura Evenimentul Românesc, Bucarest 1997, p. 42.

5. H. Sanielevici, Rasa lui Petrache Lupu din Maglavit, “Realitatea Ilustrată”, IXe année, n. 447, 14 août 1935.

6. E. Cioran, Maglavitul şi cealalta Românie, “Vremea”, VIIIe année, n. 408, 6 octobre 1935, p. 3.

7. Claudio Mutti, Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, pp. 47-57.

8. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, “Éléments”, 126, Automne 2007, pp. 54-57.

9. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, Guy Trédaniel, Paris 1986, p. 75.

10. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, p. 76.

11. Jean Robin, René Guénon. La dernière chance de l’Occident, Guy Trédaniel, Paris 1983, p. 9.

12. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, Guy Trédaniel, Paris 1985, p. 211.

13. Jean Robin, Les Sociétés secrètes au rendez-vous de l’Apocalypse, cit., p. 335.

14. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, cit., p. 325.

15. Geticus, La Dacia iperborea, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1984.

16. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 255-256.

17. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 324-325.

18. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, p. 325.

19. “Esposto ai venti, ascolto – l’orfico tumulto (…) Oh, mi chiama di continuo – la pallida, la folle, – la fanciulla verde Una, – e in me si solidifica – la sua pietra di sangue”.

20. “Esposto ai venti, ascolto – l’orfico tumulto – quando pizzica la sua corda – la fanciulla verde, Una, – le porterei la ghirlanda”.

21. Mircea Eliade, Fragment pentru Dan Botta, “Prodromos”, 7, juillet 1967, p. 21.

22. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 325-326.

23. Jean Parvulesco, La spirale prophétique, pp. 328.

24. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, cit., p. 53.

25. Mircea Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 70.

ULTIMA FERMATA BENGASI

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“Stevens ha disinteressatamente servito gli Stati Uniti e il popolo libico nella nostra missione. Come ambasciatore in Libia ha sostenuto la transizione verso la democrazia e la sua eredità vivrà ovunque gli esseri umani lottano per raggiungere la libertà e la giustizia. É particolarmente duro che abbia perso la vita a Bengasi, la città che ha contribuito a liberare”. Con queste parole il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha reso omaggio a Chistopher Stevens, ambasciatore della missione diplomatica USA in Libia, con un discorso alla Casa Bianca. Martedì 11 settembre scorso, 11° anniversario degli attacchi dell’11 settembre 2001, è stato sferrato un duro attacco al consolato statunitense presso Bengasi, città della zona orientale della Libia. L’ambasciatore Stevens e altri tre impiegati nella missione diplomatica (un funzionario dell’intelligence USA e due marines) sono rimasti uccisi. La notizia, resa pubblica dal Ministro degli Interni libico, è stata prontamente confermata dal presidente Obama, che ha condannato duramente l’attacco, annunciando l’invio di 50 marines con lo scopo di rafforzare la sicurezza nella città, e ordinando di alzare al livello massimo l’allerta in tutte le ambasciate statunitensi nel mondo, in particolar modo in quelle che situate in Paesi a maggioranza islamica.

I disordini hanno avuto inizio con una protesta contro un film sulla vita del profeta Muhammad prodotto negli Stati Uniti. Circa un’ora prima dell’attacco, un convoglio di vetture si era diretto verso il consolato trasportando numerosi manifestanti, ai quali si erano però uniti una cinquantina di miliziani armati. Questi ultimi, dichiaratisi musulmani difensori del Profeta e dell’Islam, hanno aperto il fuoco e, penetrati nelle installazioni del consolato, hanno appiccato incendi al loro passaggio. Tra gli assaltatori sono stati riconosciuti membri di Ansar al-Sharia – gruppo fondamentalista salafita con legami con Al Qaeda, formatosi durante la rivoluzione libica del 2011, e che non riconosce il governo nato dalla transizione post Gheddafi – i quali hanno partecipato all’attacco, lanciando bombe artigianali e contribuendo a mettere fuori gioco le forze militari libiche. Il capo della sicurezza del consolato ha tentato immediatamente di trasferire l’ambasciatore e i funzionari in una zona sicura, tuttavia, nel caos provocato dall’attacco, il gruppo si è separato e si sono perse le tracce di Stevens. Nel frattempo, l’edificio principale andava in fiamme e si produceva uno scontro a fuoco durato diverse ore tra gli aggressori e le forze di sicurezza. Solo verso le due del mattino i militari statunitensi e libici sono stati in grado di riprendere il controllo di tutte le zone del consolato. A quel punto, Stevens era già stato trasportato in ospedale: giunto in fin di vita a causa di un arresto cardio-respiratorio dovuto al fumo inalato, non sono stati sufficienti 45 minuti di rianimazione a fargli superare la grave crisi.

Chistopher Stevens è divenuto il sesto ambasciatore degli Stati Uniti morto per atti violenti dal 1968, e il primo del XXI secolo. Cinque dei suoi omologhi precedenti furono assassinati in Afghanistan, Sudan, Guatemala, Cipro e Libano durante gli anni Sessanta e Settanta. Stevens era un diplomatico di lunga carriera ed esperienza nel Medio Oriente. Prima di essere designato ambasciatore del nuovo governo libico, aveva partecipato alle negoziazioni con il Consiglio Nazionale di Transizione formato durante la guerra civile, che aveva messo fine a più di 40 anni di governo di Muammar Gheddafi. Il suo ruolo nella rivolta che ha rovesciato Gheddafi è stato fondamentale, proprio per la collaborazione con la causa dei ribelli. Inoltre, il suo apporto fu decisivo per ottenere l’intervento della NATO, che nel marzo 2011 segnò l’inizio di una nuova strategia internazionale – 19 Paesi coordinarono, infatti, l’attacco alle forze di Gheddafi – e un cambio nelle priorità degli Stati Uniti. Sin dall’inizio delle operazioni, Stevens divenne il principale collegamento tra l’amministrazione Obama a Washington e le forze ribelli che guadagnavano terreno. Il futuro ambasciatore era rimasto profondamente colpito dall’iniziativa del popolo libico che era insorto. Il suo appoggio ai ribelli gli costò l’espulsione dal Paese, che non gli impedì di tornare in Libia il 22 maggio scorso, insignito dell’incarico di ambasciatore.

Come già accennato, l’apparente motivo scatenante di questa rappresaglia, si può rintracciare nella produzione di un film dal titolo “Innocence of Muslims” di un regista israelo-americano, Sam Bacile, che ha destato le ire dei fondamentalisti. Le reazioni hanno prodotto effettivamente manifestazioni popolari, ma su di esse si è innestata una vera e propria azione militare preorganizzata condotta dalla milizia di stampo tribale Ansar Al-Sharia. Tale gruppo ha fatto parte della resistenza contro Gheddafi ed è decisa a instaurare un regime islamico; attualmente, il governo libico non è in grado di controllarla. Secondo fonti note alla CNN, l’attacco alla sede diplomatica è stato pianificato di concerto con Al Qaeda, e la protesta contro la pellicola su Maometto è stato un diversivo. Dietro l’attacco si concretizzerebbe, infatti, una vendetta della nota organizzazione terroristica, che in un comunicato ha fatto sapere che si tratta di una reazione alla conferma della morte di Abu al-Libi, ucciso in un attacco di drone lanciato dalla CIA in una zona tribale del Pakistan. Al-Libi aveva preso il posto di numero due al comando di Al Qaeda quando l’egiziano Ayman Al-Zawahri era diventato leader, dopo l’uccisione di Osama bin Laden. Ideologo e combattente, si era fatto strada all’interno del gruppo combattente libico, per divenire successivamente l’anello di congiunzione tra i miliziani in Pakistan e le operazioni di Al Qaeda in altri Paesi come Yemen e Iraq.

Secondo il sottosegretario libico all’Interno, Wanis al-Sharif, gli Stati Uniti avrebbero dovuto ritirare il loro personale diplomatico in Libia quando la notizia della produzione del film “blasfemo” ha cominciato a diffondersi. “Sono da rimproverare semplicemente per non aver ritirato il loro personale dalle sedi – ha detto – nonostante ci fosse già stato un incidente simile quando Abu al-Libi è stato ucciso. Sarebbe stato necessario che prendessero precauzioni, è una loro colpa che non le abbiano prese”. Effettivamente, nessun rapporto di intelligence aveva messo in guardia le ambasciate USA nel Medio Oriente del rischio di rappresaglie. Per tale motivo nessuna squadra di marines del Fleet Antiterrorism Security Teams (FAST) era stata messa in allerta. Questa speciale unità, formata da circa 500 marines, è incaricata della sicurezza delle ambasciate e delle installazioni statunitensi nel mondo, la loro missione si riassume nel motto “Anytime, Anyplace”: la base per l’Europa è situata a Cadice, l’area del Pacifico è coperta da un’altra compagnia con base in Giappone e Guantanamo, una terza brigata è situata nel Bahrein. Solo ad attacco avvenuto, 50 marines di tale unità volavano a Bengasi a bordo di aerei C-130 per farsi carico della sicurezza del consolato USA.

L’amministrazione Obama è stata duramente criticata, sia dalle fila repubblicane, sia da quelle democratiche per i possibili errori di analisi dell’intelligence. Il disappunto nasce proprio da una mancanza di azione che viene imputata al Presidente. Due giorni prima dell’attentato, il più grave incidente diplomatico per gli USA dalla crisi degli ostaggi in Iran del 1979, Wissam bin Ahmed e Muhammad al Gharabi, a capo di alcune milizie che garantivano l’ordine a Bengasi, hanno minacciato di ritirare i propri uomini dalla città perché non più in grado di garantire la sicurezza. Secondo i due capi-milizia, la causa sarebbe il sostegno di Washington a Mahmoud Jibril, leader del governo di transizione libico. Questo allarme, assieme ad altri espliciti richiami a una situazione sempre più caotica e pericolosa, è stato trasmesso in un dispaccio non classificato, ma giudicato sensibile, inviato dall’ambasciatore Stevens a Washington poco prima della sua morte. Nonostante gli avvisi di pericolo, la sicurezza attorno al perimetro di difesa del consolato nordamericano non era stata rafforzata. L’attentato all’ambasciatore Stevens è avvenuto anche perché il protocollo di sicurezza, che garantiva gli spostamenti del personale diplomatico presente a Bengasi, non è stato modificato, nonostante l’allarme del diplomatico. Nessuna procedura che limita gli spostamenti fuori dal perimetro di sicurezza del consolato è stata adottata.

Secondo il “New York Times”, in questo momento gli Stati Uniti si trovano in una fase di raccolta di informazioni, che è sempre precedente al lancio di un attacco militare su un obiettivo straniero. Lo “Special Operations Command”, incaricato della pianificazione e realizzazione di operazioni segrete – in ambito di antiterrorismo, controguerriglia, guerra non convenzionale, ricognizione speciale – anche in aree di guerra, è impegnato nell’analisi di dati che potrebbero essere utilizzati per catturare o eliminare alcuni dei militanti islamisti sospettati dell’attacco. Le opzioni che si concretizzano all’orizzonte includono attacchi su obiettivi libici – simili alle operazioni che portarono all’uccisione in Pakistan di Osama bin Laden – che comportano, però, alti rischi politici e diplomatici. Sarebbe già stata recapitata al Pentagono una lista di “High Value Targets” da colpire, per vendicare la morte di Stevens, e la CIA avrebbe ricevuto una lista di dieci operativi da eliminare elaborata dalla sezione del Counterterrorism Center. Le informative sui sospetti sarebbero sufficienti ad autorizzare un lancio dei droni americani se ci si trovasse in Afghanistan, Pakistan o Yemen. Non esistono, però, analoghi accordi militari con la Libia.

L’assassinio dell’ambasciatore Stevens, coinvolto direttamente con il processo di democratizzazione del Paese, è un chiaro segno dell’instabilità interna alla nazione. Il governo salito al potere dopo le elezioni di luglio si dimostra particolarmente debole e impotente di fronte alla crescente violenza politica, al consolidamento di milizie territoriali e all’auge dell’islamismo più radicale. Oltre all’attacco al consolato di Bengasi, sono stati già effettuati attentati con macchine-bomba a Tripoli, e distrutti luoghi sacri di culto a carico di fanatici salafiti. A Bengasi è venuta alla luce non solo l’inefficienza delle forze di sicurezza, incapaci di contenere un attacco organizzato, ma anche l’incapacità del governo che guida il Paese in maniera provvisoria fino all’approvazione, l’anno prossimo, di una nuova Costituzione. La Libia non emergerà come uno stato di diritto, fino a quando non saranno eliminati i gruppi armati che dettano le leggi tribali e la persecuzione del fondamentalismo violento.

In piena corsa elettorale, il segretario di stato statunitense Hillary Clinton si è assunta la piena responsabilità dell’accaduto, cercando di liberare il Presidente dal pesante fardello. Di contro, Barack Obama ha tempestivamente fatto sapere ai suoi cittadini che si ritiene responsabile dell’attacco e delle perdite subite, dato che tutte le persone dell’entourage presidenziale fanno riferimento a lui. Nel secondo dibattito televisivo che vedeva contrapposti i due pretendenti alla Casa Bianca, Romney ha cercato di assestare un colpo al Presidente proprio in materia di politica estera in riferimento ai fatti di Bengasi: le dure accuse mosse hanno riguardato la negligenza di Obama nel non qualificare, durante la conferenza stampa successiva all’accaduto, l’atto come terroristico ma come una protesta finita fuori controllo. Romney rincarava la dose, sottolineando che il Presidente il giorno seguente all’attacco era impegnato a Las Vegas e in Colorado per la raccolta fondi della sua campagna. Obama, a questo punto, interveniva reputando inqualificabile il tentativo dell’opposizione repubblicana di politicizzare la morte di quattro cittadini statunitensi, aggiungendo che in materia di sicurezza nazionale la sua amministrazione ha realizzato quello che aveva promesso: terminare la guerra in Iraq, ritirare le truppe in Afghanistan ed eliminare Osama bin Laden. “Cattureremo i responsabili della morte dei nostri concittadini e li porteremo davanti a una corte di giustizia”, così Obama terminava il suo intervento, con l’enfasi tipica di un messaggio alla nazione, e non di un dibattito elettorale.

 

 

UN SUCCESSO DELLA SCIENZA IRANIANA

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Iran: nuova speranza per cura tumore al seno, il segreto nella microalga Chlorella

Gli scienziati iraniani hanno scoperto proprietà anticancro della microalga Chlorella che potrebbe offrire nuove terapie per il tumore della mammella.

La Chlorella è una microalga verde unicellulare. Il suo nome, «la piccola verde», deriva dal suo colore. Si sviluppa in particolare nel mare Baltico.

Ora, un gruppo di ricercatori della facoltà di scienze e nuove tecnologie dell’Università di Teheran ha scoperto che un tipo di peptidi (piccole proteine) provenienti dalla Chlorella contribuiscono a fornire nuove speranze per curare il tumore al seno.

Per raggiungere questo risultato, questi ricercatori hanno prodotto un peptide denominato Bioavtive Peptide, isolando le protenie della microalga verde Chlorella ultilizzando le tecniche biologiche.

Il Bioactive Peptide ha le proprietà antitumorali utili per combattere con il tumore della mammella, stando a quanto riferisce l’Agenzia di Stampa iraniana ISNA.

 
 
Fonte: Radio Italia Irib

IL KURDISTAN

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In curdo, il termine “kurd” significa “rude”. Nella lingua turca, la stessa parola significa “lupo”, come talvolta i Curdi si effigiano. In entrambi i casi, il termine dovrebbe indicare l’indomita natura di un popolo. Da lupi orgogliosi, i Curdi sono stati però trasformati negli anni in cani randagi, cacciati dai loro ripari più miseri.

Il popolo curdo consta di oltre 40 milioni di persone. Secondo l’Encyclopædia Britannica, il Kurdistan occupa 190.000 km², mentre ne occuperebbe 392.000 secondo l’Encyclopædia of Islam (di cui 190.000 km² solo in Turchia, 125.000 km² in Iran, 65.000 km² in Iraq, e 12.000 km² in Siria).

Dietro queste cifre, si nasconde uno dei luoghi più ricchi di petrolio del mondo, soprattutto in territorio iracheno. Nel territorio del Kurdistan turco, invece, continuano a sorgere numerose dighe, dove anche l’acqua è una risorsa. E’ in questa terra che corre il gasdotto che va dall’Iran alla Turchia e diversi oleodotti strategici iracheni.

Risalendo fino al 1514, dopo la battaglia di Cialdiran, il Kurdistan risultava già diviso tra l’Impero Ottomano e la Persia. Questa situazione, formalizzata poi con il Trattato di Zuhab del 1639, perdurò sostanzialmente fino al Novecento.

Alla fine della prima guerra mondiale, il principio di autodeterminazione dei popoli si era ormai radicalmente affermato ovunque. Con il trattato postbellico di Sèvres, che nell’agosto del 1920 regolava la pace tra gli alleati e l’Impero Ottomano, l’impero si ritrovò di fatto alla sua conclusione e fu suddiviso in nuovi territori. Il trattato prevedeva anche la tutela delle minoranze nazionali quali quella armena e quella curda. Gli articoli 62 e 64 garantivano ai Curdi la possibilità di indipendenza all’interno di confini scelti dalla Società delle Nazioni.

Sarà il “Padre dei Turchi” Mustafa Kemal Pasha, a rimettere in discussione il trattato dopo aver vinto la guerra d’indipendenza (combattuta dal 1920 al 1923). A Losanna, nel 1923, fu ratificato tra la Turchia e le ex potenze alleate un nuovo accordo che cancellava le concessioni fatte ai Curdi (così come agli Armeni). Il Kurdistan fu allora suddiviso tra gli altri stati.

Degna di nota fu la proclamazione della Repubblica Popolare Curda (con capitale a Mahabad), nella regione iraniana, il 22 gennaio 1946, con l’appoggio dell’Unione Sovietica. Anche in questo caso, la repubblica dura poco, solo fino al ritiro delle forze sovietiche. Il territorio fu riconquistato dalle truppe iraniane e i dirigenti della repubblica, compreso il presidente Qazi Muhammad, furono condannati a morte.

Arrivando ai giorni nostri, gli irredentisti curdi hanno spesso fatto uso della forza, sottoforma di guerriglia o di quelli che sono definiti comunemente come atti terroristici (più di terroristi però sarebbe corretto parlare di insorti). Ciò è riconducibile al fatto che i governi degli stati dove risiedono non soltanto storicamente non hanno accettato la loro indipendenza ma spesso hanno negato la stessa esistenza di una identità nazionale e politica curda.

Il Partito Democratico del Kurdistan e l’Unione Patriottica del Kurdistan in Iraq, come il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano ed il Partito per la Libertà del Kurdistan in Iran sono gruppi armati che risultano ben equipaggiati ed addestrati. I Curdi hanno ricevuto l’appoggio del governo degli Stati Uniti sia in Iraq sia in Iran.

In passato, in Iraq, ad ogni mossa curda è seguita una repressione, come il bombardamento di Halabja da parte di Saddam Hussein (unica testimonianza del fatto che avesse avuto a disposizione armi chimiche). Dopo gli avvenimenti intercorsi dal 1990 al 2003 e conclusi con la caduta del regime di Hussein, il governo americano si è dimostrato favorevole alla creazione di una regione indipendente curda (con capitale a Kirkuk), sperando di veder sorgere in quella regione un governo filoamericano. In seguito, però, anche per pressione della Turchia (che da sempre teme che una indipendenza curda in un’altra regione possa comportare insurrezioni curde nella propria) il progetto è stato scartato. Le città, ricche di petrolio, di Kirkuk e Mossul non sono entrate a far parte della regione curda e i Curdi iracheni hanno accettato un Iraq federale (con capitale a Baghdad), chiedendo non più l’autonomia né l’indipendenza, ma un riconoscimento della loro stessa esistenza. (Di fatto, però, il Kurdistan iracheno risulta del tutto autonomo).

Non è infatti solo l’indipendenza politica che è negata al Kurdistan. Del loro popolo si è tentato di cancellare quasi ogni testimonianza. Si prenda ad esempio la lingua. In Siria i Curdi sono l’11% della popolazione, ma la loro lingua non ha nessun riconoscimento ed è stata anzi bandita dalle scuole pubbliche, dai canali televisivi e dalle stazioni radiofoniche. Inoltre, non vi sono giornali in lingua curda nè manifestazioni culturali correlate. In questa regione, negli anni ‘60 e ‘70, dalle zone curde gli insegnanti d’origine curda furono allontanati e sostituiti da insegnanti arabi. I toponimi curdi furono sostituiti da toponimi arabi. Migliaia di Curdi furono arrestati per il possesso di opere scritte in lingua curda o per aver preso parte, secondo l’accusa, ad organizzazioni clandestine curde. Il governo siriano deportò una parte della popolazione curda verso le zone centrali e sudoccidentali del paese. Nel 1963 fu tolta la cittadinanza a circa 100.000 Curdi.

In Turchia, lo stesso termine “curdo” è stato sostituito con “turco della montagna”. Il Kurdistan è infatti una regione montuosa e proprio tra le montagne vivono molti degli insorti. E’ tra le montagne che si trova quello che talvolta viene chiamato “il piccolo Kurdistan libero”. “La libertà è più difficile da toccare che il fuoco o la vetta di una montagna. E’ solo tra le montagne che impari cosa sia la libertà” ha affermato un membro del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. La lingua curda vicina al persiano, così come la loro identità e la loro origine. “Sin dal primo giorno di scuola il maestro disse di smettere di parlare curdo, perché non era una lingua vera: bisognava parlare la lingua turca, la lingua dei veri uomini”.

I Curdi in Turchia restano ancora un’organizzazione rurale e tribale, a differenza del resto del tessuto turco. Il Kurdistan turco ha un reddito pro-capite che è meno della metà della media nazionale. I servizi sanitari e di istruzione, così come il settore industriale, risultano terribilmente arretrati. Vi è, da questo punto di vista, una netta linea di confine tra il Kurdistan e il resto della Turchia.

 

 

IL PKK

Il PKK è il partito nato il 27 novembre 1978 da un movimento di matrice maoista sorto sette anni prima. Il partito è stato sin da subito sotto la guida dei fratelli Osman e, principalmente, Abdullah Öcalan. Meno di due anni dopo, in Turchia l’esercito prese il potere tramite un colpo di stato. Tutti i partiti furono vietati e il parlamento fu sciolto. Questa situazione perdurò per quattro anni, quando si passo ad una nuova forma di governo, formalmente democratico, ma monopartitico e sotto la guida dell’esercito. In queste condizioni, il PKK scelse la via della lotta armata. Nel 1980, quando cominciò la ventinovesima rivolta degli irredentisti Curdi, non fu solo una rivolta locale ma fu una vera e propria guerra: il PKK aveva dato inizio alla lotta per la liberazione del Kurdistan turco.

Il giorno del capodanno curdo (Newroz) del 1982, il 21 marzo, giorno da cui inizia il periodo di maggiore luminosità quale l’estate, il detenuto politico Mazlum Dogan si appicca il fuoco in carcere per denunciare la spregevole condizione dei detenuti curdi nelle carceri turche. Fuoco e luce, nella filosofia curda, rappresentano la libertà.

Dopo tredici anni di violenta lotta, senza aver ancora raggiunto il suo obiettivo, il PKK, d’intesa con altri partiti irredentisti curdi quali il PDK e l’UPK, accettò di deporre le armi in cambio dell’autonomia. Si arrivò così ad una tregua tra il PKK e il governo turco e a porre le basi per un negoziato di pace. Il governo sospettò però che la tregua fosse solo un diversivo dei ribelli per procurarsi intanto nuove armi ed organizzare nuovi attentati e, di risposta, intensificò la repressione che si estese anche ai simpatizzanti non curdi del PKK. Tra questi, va ricordata la parlamentare Leyla Zana che sottolineò in un discorso al parlamento (tenuto in lingua curda) il bisogno di concedere ai Curdi un loro stato.

Nel 1998 Abdullah Öcalan, che è tutt’ora il capo del PKK, si trasferì in Italia chiedendo asilo politico. Sotto pressione del governo turco, il governo D’Alema temporeggiò. Nel 1999, Öcalan si diresse in Kenya sperando di ottenere un’accoglienza migliore. Lì fu raggiunto, senza risultati, da Giuliano Pisapia e Luigi Saraceni, suoi avvocati. Öcalan fu però intercettato dalla CIA e dal MIT (i servizi segreti turchi), riportato in Turchia e da allora è confinato nell’isola di Imrali, in completa solitudine (non ha avuto la possibilità di incontrare né i parenti né i suoi legali negli ultimi diciotto mesi).

Da lì giungono notizie inquietanti sulla salute di Öcalan, ma egli continua a scrivere importanti opere sul tema del futuro della Turchia. (Il tribunale italiano gli concesse l’asilo politico quando era ormai già detenuto da tempo nel carcere turco. La scorsa estate, durante un suo soggiorno in Turchia, l’avvocato che lo difese è stato fatto rientrare subito in Italia in quanto “ospite non gradito”). A volte, arrivano sue dichiarazioni in cui si definisce dispiaciuto per la situazione e per le violenze nel paese ma bisogna tener presente che quello che trapela dalle sue affermazioni è in ogni caso controllato e filtrato dal governo turco. Intanto, la Turchia arrivò nel 1998 agli accordi di Adana, in cui la Siria cessava di appoggiare il PKK, come aveva fatto precedentemente, per puntare invece ad un atteggiamento conciliatorio con il governo turco. Gli accordi di Adana sono il risultato della minaccia turca di un conflitto armato contro. Infatti, il governo turco aveva già ammassato le sue truppe al confine siriano.

Nel 2000 l’Unione Europea invitò a Strasburgo un rappresentate del Kurdistan turco come portavoce permanente. La Turchia ha recentemente consentito la trasmissione in televisione di programmi in curdo, sebbene l’uso della lingua curda in ambito politico (e non solo) resti severamente proibito. Si ricorda il caso del processo avviato dalla Alta corte criminale contro 152 politici curdi accusati di promuovere il terrorismo, ai quali non fu permesso difendersi in curdo. Negli ultimi anni la concessione di maggiori diritti per la popolazione curda è sembrata intesa a favorire il processo di entrata di Ankara nell’Unione europea.

Tuttora, la pena per chi manifesta in favore del Kurdistan può ammontare fino a 35 anni di carcere.

 

 

ANNI RECENTI

Il dirigente curdo Murat Karayilan, del PKK, ha dichiarato: “Innanzitutto le armi devono tacere. Non bisognerebbe lanciare nuovi attacchi e a quel punto dovremmo confrontarci non con le armi, ma con il dialogo. Vogliamo che si metta fine allo spargimento di sangue perché gli anni passano e continuiamo a tornare sempre allo stesso punto. Non si metterà fine al PKK con l’uso delle armi”.  Nonostante queste affermazioni, numerosi attentati presero luogo verosimilmente per volere del PKK, come quello del 14 luglio 2011: a Silvan, nella provincia del sud-est di Diyarbakır, considerata la “capitale curda”, uno scontro a fuoco tra l’esercito e i guerriglieri del PKK ha fatto 13 morti tra i soldati e 7 tra gli assalitori. Stando però ad un rapporto alternativo del PKK, di cui si occupò il quotidiano indipendente Taraf, a Silvan si è verificato uno scontro fortuito, non un’imboscata. Proprio il 14 luglio, il DTK, una rete di organizzazioni a favore dei Curdi, aveva discusso di un’autonomia democratica per il Kurdistan turco e ciò fu percepito dal governo turco come una provocazione pericolosa.

Ancora, il 25 luglio del 2011 altri tre soldati turchi sono stati uccisi in un’imboscata dei guerriglieri nel sud-est del paese nella provincia di Mardin. Il 17 agosto per la prima volta aerei da guerra turchi hanno sconfinato nello spazio aereo iracheno per bombardare postazioni dei guerriglieri curdi del PKK. Il 24 settembre i guerriglieri curdi del PKK hanno lanciato un attacco ad una stazione di polizia uccidendo cinque poliziotti e ferendone una decina.

Occorre però risalire di qualche mese, tornando all’attentato dinamitardo del 31 ottobre 2010 a piazza Taksim di Istanbul, dove persero la vita 32 persone. Il PKK ha subito dichiarato l’estraneità ai fatti. Da mesi infatti vigeva un cessate il fuoco e da anni non avvenivano attentati suicidi da parte del PKK. Inoltre, Karayilan aveva rilasciato un’intervista a Ertuğrul Mavioğlu, del quotidiano Radikal, dichiarando che il gruppo non avrebbe più colpito civili. E’ stato ipotizzato allora che alcune cellule del PKK presenti in Turchia operassero autonomamente. “Anche nel caso dell’attacco in cui sono stati uccisi 32 soldati, quello della regione di Reşadiye e del bombardamento a Diyarbakır, il PKK in un primo momento aveva negato ogni coinvolgimento. Poi però aveva dovuto ammettere che a compiere gli attentati erano state alcune cellule del partito”, ha ricordato Hüseyin Yayman, analista del SETAV (Istituto per la ricerca politica, economica e sociale) allo Hürriyet Daily News Economic Review.

La conferma dell’esistenza di cellule indipendenti arrivò pochi giorni dopo, quando i TAK, i Falchi della Libertà del Kurdistan, rivendicarono l’attacco. Sul loro sito si leggeva che l’attentatore, Vedat Acar, nome in codice Derweş, aveva agito di sua iniziativa. I media turchi hanno riferito che Acar è stato addestrato in un campo PKK nell’Iraq settentrionale. Sempre sul sito internet del TAK, è spiegato che il TAK stesso fosse originariamente parte del PKK e solo successivamente si fosse distaccato dato che non riteneva troppo deboli i metodi usati dal PKK, nonostante continui a considerare Öcalan il proprio leader. In risposta, il PKK ha condannato il gesto del TAK immediatamente, ha invocato la fine delle violenze, ha ribadito di non aver controllo sul TAK e quindi che non può esserne considerato il responsabile. Resta però una domanda: cosa sarebbe, secondo il governo turco, delle migliaia di militanti del PKK se abbandonassero le armi?

In Iraq, dopo la caduta di Saddam, sono arrivati investimenti finanziari da parte della Turchia di cui lo stesso leader dei Curdi, Barzani, ha usufruito. Va ricordato come l’esportazione di gas naturale e petrolio dall’Iraq passi attraverso la Turchia. Il governo turco attua questo comportamento per accattivarsi una parte del Kurdistan e dividerlo dall’interno. In coordinazione con gli Usa e il Governo regionale del Kurdistan iracheno, l’esercito turco poté portare avanti, nel 2008, delle incursioni nell’Iraq settentrionale contro i militanti del PKK. E’ lì che gli irredentisti curdi turchi e iraniani hanno una parte delle loro basi operative.

Cosa è accaduto con lo scoppio della rivolta in Siria? Ufficialmente, il governo siriano aveva tenuto fede agli accordi di Adana e accusato il PKK di terrorismo. Nonostante ciò, alcuni  avvenimenti avevano fatto sorgere il dubbio che il governo siriano appoggiasse i Curdi, da quando la Turchia ha preso le distanze da Bashar al-Assad ed ha ospitato l’Esercito libero siriano. Il numero due e capo di fatto delle forze di guerriglia del PKK, Cemal Bayik, ha detto che, se la Turchia dovesse attaccare il governo siriano, il PKK si schiererebbe in suo aiuto. Soprattutto, gli attacchi del PKK sono aumentati, con violenza pari a quella di prima degli accordi di Adana, cioè quando la Siria lo appoggiava.

Sembrerebbe anche che il governo siriano non abbia perso l’area nord-est, una delle regioni più ricche di petrolio e acqua, ma che l’abbia tacitamente affidata alle milizie curde. (Che però ora si ritrovano ad interagire con i Curdi dell’Iraq di Barzani, partner economico della Turchia). Ciò sembra testimoniato dalla facilità con cui sono stati rilasciati questi territori dal regime siriano ai Curdi, in assenza di scontri armati contro il regime. La repressione del regime è stata infatti più blanda che nel resto del paese. Questa estate, su 17.042 uccisi in 16 mesi di violenze in Siria, stando al Centro di documentazione delle violazioni in Siria,  solo 119 si sarebbero registrati nel capoluogo della regione nord-orientale. Forse, ancor più che voler lasciare il territorio ai Curdi, il governo siriano ha preferito concentrarsi esclusivamente contro i ribelli e non disperdere le forze su più fronti contrastando entrambe le fazioni.

La frontiera tra la Turchia e la Siria resta territorio curdo. La situazione bellica ha comportato l’aumento dell’emigrazione. Secondo l’Institut Kurde di Parigi, in Germania vivono circa 500 mila curdi, in Francia 100 mila, nei Paesi Bassi 80 mila, in Svizzera 70 mila, in Austria e Belgio 60 mila, in Svezia 30 mila, in Gran Bretagna e in Grecia 25 mila. Mi sono diretto ad Istanbul durante la celebrazione dello scorso Ramadan: ciò che non appare evidente è come, anche grazie a questo processo migratorio, Istanbul sia diventata la città turca maggiormente abitata dai Curdi. Anche in Italia è presente una comunità curda, ma di dimensioni ridotte. Ho avuto anche modo di incontrare la comunità curda a Roma, ma in Italia i Curdi sono concentrati principalmente a Modena.

Quale è la situazione in Siria, tra i Curdi che appoggiano la rivolta? Alcuni sostengono la rivolta contro il governo siriano, ma prendono le distanze dai ribelli non curdi. Altri, la maggioranza, non si schierano a favore dei ribelli per non trovarsi alleati con la Turchia. Altri ancora non si sbilanciano e attendono di capire chi sia il vincitore.

Negli ultimi giorni, in Turchia, nonostante non si sia dato nessun risalto su pressoché nessuna testata, 700 detenuti politici (e si vocifera 10.000 persone esterne al carcere) hanno effettuato uno sciopero della fame. Lo sciopero, indetto per protestare contro le condizioni di isolamento carcerario imposte ad Öcalan, è terminato soltanto quando a quest’ultimo è stata data la possibilità, dopo diciotto mesi, di incontrare un suo parente, suo fratello. Con lo sciopero della fame sono state altresì denunciate le condizioni in cui vertono le carceri turche in cui sono detenuti i Curdi.


L’AFGHANISTAN NELL’ANALISI DI MARX, ENGELS E LENIN

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«La posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata»(1). Così Friedrich Engels scriveva nel 1857 all’interno di un breve saggio dedicato al Paese asiatico. Oggi la Repubblica Islamica dell’Afghanistan è uno Stato dell’Asia centromeridionale, esteso lungo un territorio pari a 652.864 km². La sua popolazione stimata è di circa 29.118.000 abitanti ed è suddivisa tra le etnie che tradizionalmente ne hanno abitato i territori: il gruppo etnico di maggioranza relativa è quello dei pashtun (42%), una popolazione di origine indo-iranica e di lingua pashtu, molto numerosa nella regione, che tutt’oggi rivendica l’unità etnica nel tentativo di ricostruire il vecchio territorio del cosiddetto Pashtunistan, compreso tra l’Afghanistan e il Pakistan meridionale, e da tempo frammentato in base ai criteri di spartizione territoriale stabiliti dalla Linea Durand; segue poi la comunità tagika (27%), prevalentemente stanziata nella parte nordorientale del Paese, tuttavia maggioritaria anche nella capitale Kabul, che ha origini iraniche e parla il dari, una delle varianti orientali del farsi; vi sono poi gli hazara (9%) e gli aimak (4%), che vanno a completare il quadro dei gruppi etnici di origine persiana; chiudono uzbeki (9%) e turkmeni (3%), minoranze ancora molto legate alle rispettive terre di derivazione e alle loro origini altaiche.

Quando Engels completava il suo manoscritto e ne consegnava il resoconto alle stampe dell’opera The New American Cyclopedia, il regno afghano esisteva ormai da trentaquattro anni, cioè da quando, nel 1823, Dost Mohammed Khan aveva raccolto le redini del territorio centrosettentrionale dell’Impero Durrani, ormai decaduto, dando vita al primo Emirato dell’Afghanistan. L’imperialismo britannico, contemporaneamente attivo in India e in Persia, cercava così con tutte le forze di rovesciare questo Emirato, per ricomprenderlo all’interno della propria sfera d’influenza. Alle vecchie lotte interne all’Asia meridionale tra la Persia, l’Afghanistan e ciò che restava dell’Impero Mogul si sovrappose la vastissima opera di penetrazione intrapresa da Londra in Oriente, dando il via ad una delle più complesse trame geopolitiche della storia moderna. Secondo Karl Marx, per comprendere i meccanismi di quello scontro era dunque necessario affrontare una retrospettiva storica, a partire dalle origini della rivalità tra gli Afghani e i Persiani. In un suo articolo del 1857, egli scrisse: «Questo antagonismo politico tra gli Afghani e i Persiani, fondato su differenze razziali, consolidato da reminiscenze storiche, tenuto in vita da dispute di frontiera e rivendicazioni politiche, è anche, per così dire, suggellato dall’antagonismo religioso, essendo gli Afghani islamici sunniti, ovvero di fede ortodossa, mentre la Persia costituisce la roccaforte di quella che viene considerata l’eresia sciita»(2). Per Engels, invece, la divisione confessionale non rappresentava un ostacolo così insormontabile, visto che tra gli stessi Afghani «le alleanze tra sciiti e sunniti non sono affatto infrequenti»(3). A dirla tutta, anche le differenze razziali richiamate da Marx in realtà non sussistevano, dal momento che i principali gruppi etnici dell’Afghanistan avevano e hanno origini indoiraniche esattamente come i Persiani. In ogni caso, secondo l’autore del Capitale, il punto di contatto registrabile tra le due popolazioni sarebbe stato raggiunto nel quadro di una comune ostilità verso l’espansionismo zarista, che aveva invaso la Persia prima sotto Pietro il Grande, poi sotto Alessandro I, privando l’imperio dello Shah di dodici province caucasiche a seguito del trattato di Ghulistan (1813) e, più tardi ancora, sotto Nicola I privando la Persia di ulteriori territori distrettuali e del diritto di navigazione sul Mar Caspio a seguito del trattato di Turkmenchaj (1827).

Il territorio afghano aveva fatto parte dell’Impero Persiano durante il regno di Nādir Shāh Afshār, un periodo in cui, secondo Engels, «l’Afghanistan raggiunse l’apice della grandezza e della prosperità in tempi moderni»(3). Entrambi i popoli avrebbero dunque potuto inquadrare nella Russia un nemico religioso e, secondo Marx, addirittura un gigante pronto ad inghiottire l’Asia. Tutto ciò avrebbe in un primo momento senz’altro portato i regnanti locali a considerare l’Impero Britannico come un alleato. Ma il Grande Gioco non lasciava troppo spazio a strategie di lungo termine, poiché ogni tattica seguiva criteri di opportunismo e un’alleanza poteva facilmente ed in brevissimo tempo trasformarsi in una rivalità. All’epoca dei loro scritti sull’Asia, quasi tutti pubblicati tra il 1850 e il 1860, Marx ed Engels potevano soltanto prendere in esame la prima delle tre guerre anglo-afghane, ma tanto bastò per annotare il tentativo di manipolazione operato da Londra su quei territori attraverso la figura di Sujah Shah, un vecchio regnante della dinastia Durrani caldeggiato dalla reggenza anglo-indiana ed imposto da Londra come fantoccio a Kabul. Nel suo resoconto, Friedrich Engels scrisse: «La conquista dell’Afghanistan sembrava compiuta, e così gran parte delle truppe fu rispedita indietro. Ma gli afghani non erano affatto contenti di essere governati dai Ferìnghee Kaffirs (infedeli europei) e nel corso di tutto il 1840 e del 1841 le insurrezioni si susseguirono in ogni parte del Paese. Le truppe anglo-indiane erano sempre all’erta. Tuttavia, Macnaghten dichiarò che per la società afghana si trattava di una situazione normale e inviò dispacci affermando che tutto procedeva bene e che il potere di Sujah Shah si stava consolidando. Fu vano ogni ammonimento dei militari e dei rappresentanti politici. Dost Muhammad, che si era arreso ai britannici nell’ottobre del 1840, fu tradotto in India; tutte le insurrezione dell’estate del 1841 furono represse con successo e verso il mese di ottobre Macnaghten, nominato governatore di Bombay, si preparò a partire per l’India con un altro contingente militare. Fu allora che scoppiò la tempesta. L’occupazione dell’Afghanistan costava alle casse indiane 1.250.000 sterline all’anno: si dovevano pagare 16.000 soldati, tra anglo-indiani e truppe di Sujah Shah, di stanza nel paese; poi c’erano altri 3.000 uomini nel Sind e al passo di Bolan; gli sfarzi regali di Sujah Shah, i salari dei suoi funzionari e tutte le spese della corte e del governo, erano coperti dal denaro indiano e, inoltre, da questa stessa fonte si sovvenzionavano, o meglio si corrompevano i capi afghani affinché si tenessero fuori dalla mischia. Essendo stato informato dell’impossibilità di proseguire su questi livelli di spesa, Macnaghten tentò di arginare le uscite, ma l’unico modo praticabile sarebbe stato quello di tagliare gli appannaggi dei capi locali. Il giorno stesso in cui il tentativo fu messo in atto i capi ordirono una congiura diretta allo sterminio dei britannici e, di conseguenza, fu proprio Macnaghten a causare la concentrazione delle forze insurrezionali che fino ad allora avevano lottato isolatamente, senza unità né accordo, contro gli invasori; tuttavia, è anche certo che, a quel punto, tra gli afghani l’odio per la dominazione britannica aveva raggiunto il suo apice»(4).

Così le truppe afghane, guidate dal figlio di Dost Mohammad Khan, Akhbar Khan, sconfissero nettamente l’esercito anglo-indiano di William Elphinstone, sir William Macnaghten cadde vittima della resistenza e, in generale, le truppe britanniche stanziate lungo l’impervia strada che da Kabul porta a Jalalabad furono completamente decimate. La resistenza del popolo pashtun contro le truppe di Sua Maestà rappresenta ancora oggi una delle sconfitte più umilianti per la Gran Bretagna, che si rifarà soltanto in parte al termine della seconda guerra anglo-afghana (1878-1880), ottenendo un protettorato sugli affari esteri dell’Emirato sebbene non l’accorpamento del suo territorio nel Raj coloniale indiano. Engels sottolineava a ragion veduta che gli Afghani «sono coraggiosi, intrepidi e indipendenti» e che «per loro la guerra è un’impresa eccitante e una distrazione dalla monotonia delle abituali attività»: insomma, un popolo al quale «soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono […] di diventare una nazione potente»(5), ma era sicuramente stato ben più profetico nell’osservare che «questa stessa irregolarità e incertezza nell’azione li rende dei pericolosi vicini, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni»(6). La terza guerra anglo-afghana ebbe luogo tra il maggio e l’agosto del 1919 e, con l’ascesa al trono di Amānullāh Khān, sancì la liberazione dell’Afghanistan dal protettorato britannico, impostando le direttrici politiche ed economiche del nuovo regno sulla base del modello nazionalista e modernizzatore di Kemal Atatürk, dal quale pare giunsero sostegno e aiuti. In assenza delle riflessioni dei due padri putativi del comunismo, fu Vladimir Lenin a documentare ed interpretare questa nuova situazione sul piano politico. Se ne occupò indirettamente ma in modo chiaro ed esplicito, quando sostenne che «la lotta dell’emiro afghano per l’indipendenza dell’Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell’emiro e dei suoi seguaci», all’interno di uno dei suoi più celebri saggi, dedicato ai concetti di autodecisione nazionale e sovranità(7) e ripreso nel 1924 da Stalin ne I Principi del Leninismo, dove il capo sovietico rimarcò i criteri per stabilire il grado di efficacia dei movimenti di liberazione nazionale, riferendosi anche agli «altri paesi coloniali e dipendenti, più grandi, come l’India e la Cina, ogni passo dei quali sulla via della loro liberazione, anche se contravviene alle esigenze della democrazia formale, è un colpo di maglio assestato all’imperialismo, ed è perciò incontestabilmente un passo rivoluzionario»(8).

In tutto ciò, era senz’altro evidente l’interesse del neonato Stato bolscevico in Russia ad eliminare tutto ciò che restava della fase coloniale britannica intorno ai suoi confini, in un meccanismo geopolitico che, sebbene su termini diversi, riproponeva lo scontro tra Mosca e Londra a distanza di quasi vent’anni dalla conclusione dell’accordo anglo-russo, raggiunto dai due imperi per chiudere le dispute in Asia e per fortificare la Triplice Intesa in funzione antitedesca. Per quanto riguardava l’Afghanistan, in base a quell’accordo tra la Russia zarista e la Gran Bretagna, veniva confermato il protettorato inglese. La Russia, in sostanza, aveva accettato di considerare l’Afghanistan estraneo alla sua sfera d’influenza e aveva così garantito che, a differenza di quanto avvenuto in passato, avrebbe evitato ogni intromissione unilaterale nel Paese, in cambio di agevolazioni commerciali attraverso la mediazione di Londra. Così come per la tattica adottata nella Rivoluzione d’Ottobre, dove decisivo fu l’aiuto fornito a Lenin dall’Impero Tedesco, anche in questo caso la politica estera zarista fu praticamente ribaltata dalla prassi bolscevica. Per la Russia Sovietica, la questione relativa all’indipendenza e all’emancipazione dell’Afghanistan era tutt’altro che chiusa e tornava di stringente attualità in un leit-motiv che avrebbe segnato in modo inevitabile la storia di un nuovo “Grande Gioco”, quello della Guerra Fredda. Quando nel dicembre del 1979 l’Armata Rossa entrò nel Paese su richiesta del governo socialista afghano, alla presenza dei servizi segreti di Londra si era ormai aggiunta quella della CIA che, attraverso rifornimenti e sostegno logistico, supportava l’estremismo e il terrorismo interni allo scopo di detronizzare il presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Nur Muhammad Taraki, ed imporre un nuovo “Sujah Shah” come proprio fantoccio. Dopo l’ascesa al potere dei Talebani nel 1996, la brutale esecuzione dell’ex presidente Najibullah, ormai già deposto, e l’ulteriore spaccatura interna tra i nuovi estremisti religiosi e la cosiddetta Alleanza del Nord, l’Afghanistan è ripiombato prepotentemente al centro della scena internazionale con l’attentato dell’Undici Settembre, al quale è seguito un intervento militare guidato dagli Stati Uniti che perdura ancora oggi nel quadro della cosiddetta Guerra al Terrore, avviata da George W. Bush e Donald Rumsfeld. L’evidente fallimento della missione militare nordatlantica, nata con lo scopo di distruggere le centrali del terrorismo internazionale e di arginare il narcotraffico, ripropone da vicino tutte le enormi difficoltà gestionali di questo territorio e l’instabilità politica interna. Ironia della sorte, è stato proprio un ex mujāhid della resistenza antisovietica degli anni Ottanta, Karim Khalili, oggi vicario di Amid Karzai, a chiedere aiuto a Mosca e Pechino durante l’ultimo vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. La realtà non sembra così distante da quanto scriveva Engels centocinquanta anni fa: “pericolosi vicini, sballottati dai venti più mutevoli”.

 

 

 

Note
 

1. F. Engels, Afghanistan, The New American Cyclopœdia, vol. III, 1858.

2. K. Marx, The War Against Persia, “New-York Daily Tribune”, No. 4937, 14 febbraio 1857; si veda anche K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia. Le premesse per tre rivoluzioni (a cura di B. Maffi), Il Saggiatore, Milano, (©1960) 2008, pp. 161-167.

3. F. Engels, Afghanistan, The New American Cyclopedia, vol. III, 1858.

4. Ibidem.

5. Ibidem.

6. Ibidem.

7. V. Lenin, Bilancio della discussione sull’autodecisione, Vol. XlX, pp. 257-258.

8. J. Stalin, Principi del Leninismo, 1924.

INTERVISTA AL DIRETTORE DI RADIO IRIB ITALIA, DR. DAVOOD ABBASI

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La Redazione di EURASIA ha contattato telefonicamente il direttore di Radio IRIB Italia, Dr. Davood Abbasi, per rivolgere all’illustre collega alcune domande. I temi affrontati durante i circa quaranta minuti di colloquio, hanno spaziato dal recentissimo episodio della cattura di un drone statunitense da parte dell’Aviazione Iraniana allo storico esito in sede ONU che ha sancito l’ingresso della Palestina nell’Organizzazione in qualità di membro osservatore, sino alle nuove proteste scoppiate al Cairo che hanno costretto il presidente Mohammed Morsi alla fuga.

 

A BIŠKEK VA IN ARCHIVIO IL VERTICE DEI CAPI DI GOVERNO DELL’ORGANIZZAZIONE PER LA COOPERAZIONE DI SHANGHAI

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Il 5 dicembre scorso si sono riuniti a Biškek, in Kirghizistan, i capi di governo dei Paesi membri a pieno titolo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Russia, Cina, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan) e dei Paesi membri osservatori (Afghanistan, Iran, Mongolia, Pakistan e India). Il primo ministro kirghiso Žantoro Satibaldjev, dopo aver dato il benvenuto agli ospiti, ha posto l’accento sulla decisiva questione legata alla cooperazione industriale e commerciale tra i sei Stati raccolti nell’organizzazione intergovernativa, per cercare di favorire le economie più arretrate, distanti anni luce da quelle più forti presenti in Russia, in Cina e in Kazakistan. Ha dunque auspicato che i progetti più importanti nell’agenda del summit trovino presto una loro realizzazione definitiva attraverso la creazione di un fondo di sviluppo comune e la definizione di programmi di sostegno finanziario alle piccole e medie imprese delle aree centrasiatiche più critiche sia dal punto di vista della coabitazione interetnica sia dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale.

L’instabilità dell’ex repubblica sovietica è uno dei fattori che suscita maggiore preoccupazione nell’analisi geopolitica della massa eurasiatica. Il definitivo salto di qualità che l’appannata economia nazionale dovrebbe compiere è diventato il biglietto da visita del nuovo presidente Almazbek Atambaev, eletto alla fine del 2011 dopo la chiusura della parentesi amministrativa provvisoria di Roza Otunbaeva. Senza stabilità sociale non esiste una reale stabilità politica, soprattutto in un Paese che, come dimostra la Rivoluzione dei Tulipani di sette anni fa, è sempre sull’orlo di implodere. Perciò è quanto meno preoccupante il fatto che la Russia continui a rimandare l’appuntamento con la storia che si è data lo scorso anno, quando avviò i lavori per la costruzione di un’Unione Eurasiatica che sappia andare oltre la mera ridefinizione dello spazio comune sotto l’aspetto doganale.

Il primo ministro cinese Wen Jiabao, dal canto suo, si è detto disposto a stanziare un finanziamento pari a 10 miliardi di dollari per una nuova linea ferroviaria che colleghi la Cina, il Kirghizistan e l’Uzbekistan, al fine di facilitare ed intensificare i rapporti commerciali e militari tra le parti, soprattutto nell’ambito della sicurezza collettiva (lotta al narcotraffico e al terrorismo). Wen Jiabao ha anche sottolineato come in Kirghizistan e in Tagikistan sia ormai divenuta prioritaria la questione relativa alla sicurezza alimentare. Prevalentemente montuose, queste due nazioni dipendono eccessivamente dall’agricoltura e basano il loro sistema di forze produttive sulla sola eredità industriale dell’era sovietica, senza aver acquisito, nella fase di transizione, la necessaria capacità di adattamento al sistema di mercato. Per quanto concerne il Tagikistan, inoltre, è sempre più evidente la disparità economica ed infrastrutturale interna tra la regione settentrionale di Leninabad e la provincia autonoma meridionale del Gorno-Badachšan, focolaio di molti problemi di stabilità interetnica e interreligiosa.

Il primo ministro russo Dmitrij Medvedev ha ribadito la necessità di sviluppare sistemi di trasporto veloci per abbattere i lunghi tempi di percorrenza delle merci ma ha anche posto l’accento sull’importanza di coordinare i sistemi di credito interbancari tra i Paesi membri, suggerendo di valorizzare tutti i progetti in base alla sola efficienza economica. Un principio che non convince e non soddisfa le urgenze sociali dell’Asia Centrale.

Interessantissimo è stato invece l’intervento del vicepresidente afghano Karim Khalili. Questo è stato infatti il primo incontro ufficiale da quando la Repubblica Islamica guidata da Amid Karzai ha fatto ingresso all’interno del gruppo dei membri osservatori, affiancandosi dunque ad Iran, Mongolia, Pakistan ed India. Khalili ha ovviamente posto l’accento sulle condizioni critiche del proprio Paese e ha ricordato che nel 2014 le truppe della coalizione ISAF, in base a quanto stabilito dal comando statunitense CENTCOM, si dovrebbero ritirare definitivamente dal territorio nazionale. A quel punto, le questioni relative alla sicurezza collettiva diventerebbero di esclusiva competenza di un governo che in questi undici anni di guerra ad intensità variabile non è riuscito ad acquisire né i mezzi né l’adeguata capacità di affrontare simili sfide geopolitiche. È per tanto stata avanzata una richiesta ufficiale all’Organizzazione di Shanghai, affinché possa inviare alcuni dei reparti militari attivi nell’ambito della Struttura Regionale Antiterrorismo (RCTS). Khalili ha detto in modo chiaro: “Ci auguriamo che l’Afghanistan non solo riceva assistenza su basi bilaterali, ma che sia anche pronto a collegarsi con i progetti internazionali della OCS”.

È evidente che, se mai le truppe dell’ISAF dovessero veramente ritirarsi in modo completo e definitivo dall’Afghanistan, lo farebbero per due ordini di motivi: anzitutto per questioni di necessità economica in relazione alle parziali riduzioni della spesa militare concordate dalla NATO nel quadro della Smart Defense, ed in secondo luogo alla luce di un piano di trasferimento di un consistente numero di uomini e di mezzi dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale verso la regione Asia-Pacifico, come facilmente intuibile dalla dottrina strategica annunciata da Obama nel gennaio di quest’anno. Suona perciò strana, oltre che controproducente, la simultanea concessione russa alla NATO di uno scalo aereo nella città di Uljanovsk per interventi di tipo logistico in Afghanistan.

Se la volontà del nuovo corso intrapreso dal Paese, dopo l’evidente fallimento gestionale nordamericano, è quella di integrare le sue politiche di sicurezza e cooperazione nelle direttrici geopolitiche e geostrategiche dell’OCS, basterà accoglierlo ed assecondarne le richieste, evitando nettamente qualsiasi tipo di complicazione.

IL RISIKO TRANSATLANTICO

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L’Italia è un paese in piena fase di deindustrializzazione, che sta gettando via tutte le importanti conquiste ottenute con grande originalità in passato. Dal punto di vista economico, le radici dell’ascesa strategica italiana risalgono all’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) costituito nel 1933 dall’abilissimo economista Alberto Beneduce allo scopo di salvare dalla bancarotta le grandi banche e industrie italiane profondamente colpite dalla crisi scoppiata nel 1929.

Sotto la direzione di Beneduce, l’IRI risanò le attività di cui aveva assunto il controllo conferendo in tal modo allo Stato il ruolo di proprietario del 25% circa dell’intero capitale azionario nazionale. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e buona parte della classe politica italiana si riallacciarono parzialmente all’esperienza economica fascista al fine di colmare il vuoto pneumatico lasciato dall’inefficiente ed inadeguata grande imprenditoria privata italiana – che alla concorrenza ha sempre preferito l’assistenza statale, socializzando le perdite e privatizzando i profitti –, completamente incapace di porsi alla guida del vasto tessuto produttivo nazionale costituito da una miriade di piccole imprese. Questa abile linea politica portata avanti dai governi di Roma instaurò un particolare dirigismo economico capace di guidare i piccoli imprenditori italiani, i quali iniziarono da allora a far capo alle grandi aziende strategiche (AGIP, Ansaldo, Edison, ecc.) possedute dallo Stato. La direzione di tali grandi aziende venne naturalmente affidata a manager ritenuti capaci di elaborare strategie operative che potessero guidare efficientemente lo sviluppo industriale italiano. In questo contesto emerse un personaggio di grandissimo rilievo come Enrico Mattei, che da presidente dell’ENI non esitò a far ricorso ad ogni mezzo a propria disposizione – a coloro (come Indro Montanelli) che lo accusavano di alimentare la corruzione politica attraverso le tangenti, Mattei spiegò: «Uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo» (1) – per ottenere la copertura politica necessaria al raggiungimento dei suoi scopi strategici. Per accattivarsi il favore dei paesi arabi, in cui risiede gran parte delle riserve petrolifere e gasifere, Mattei intraprese di fatto una politica estera marcatamente anti-coloniale (particolarmente invisa a Francia e Gran Bretagna) collegata agli interessi economici italiani, riscuotendo un notevole successo sia all’estero che in patria e provocando scossoni geopolitici capaci da un lato di intaccare il predominio del cartello oligopolistico petrolifero (le famigerate “sette sorelle”) e dall’altro di mettere in stato di allerta le dirigenze politiche di Parigi, Londra e Washington. L’eco degli “azzardi” politici di Mattei (va sottolineato, sotto questo aspetto, il sostegno diretto ai partigiani algerini in lotta per l’indipendenza dalla Francia) suscitò un animato dibattito nazionale focalizzato sulla questione energetica che pose i presupposti per lo sviluppo del settore nucleare, in cui i grandi progressi del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari sotto la direzione dell’ingegnere Felice Ippolito consentirono all’Italia di porsi all’avanguardia anche in quel comparto dal rilevantissimo valore strategico. Con l’assassinio di Enrico Mattei e la successiva estromissione “a orologeria” del professor Felice Ippolito iniziò la lunga marcia di logoramento dell’Italia che condusse, alle soglie degli anni ‘80, alla definitiva “perdita di slancio” del paese dopo un lungo periodo di crescita poderosa protrattosi fino ad allora. A livello interno, la separazione tra Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia ad opera del ministro del Tesoro Beniamino Andreatta sottrasse al paese la possibilità di far fronte alla propria eventuale necessità monetaria vincolando questa istituzione ad acquistare i propri titoli di debito a bassi tassi di interesse. Da quel momento, la Banca d’Italia, ha cominciato ad emettere moneta a nome e per conto dello Stato, ma rivendergliela a tassi “di mercato”, mantenuti – spesso artificiosamente – molto alti.

A livello generale, il fattore che contribuì in maniera fondamentale ad aggravare il problema fu la progressiva affermazione, in tutto l’Occidente, dei principi economici liberisti in parallelo all’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Le politiche propugnate da queste due amministrazioni segnarono l’eclissi delle ricette keynesiane adottate in tutti i paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) fino alla fine degli anni ’80 in favore delle teorie propugnate dal celebre economista austriaco Friedrich Von Hayek e dal circolo di economisti e filosofi (Karl Popper, Ludwig Von Mises, ecc.) vicini alle sue posizioni estreme. Ciò produsse ampie ripercussioni generali che comportarono anche la trasformazione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’istituzione-cardine scaturita dagli accordi stipulati a Bretton Woods nel 1944. Il FMI fu costituito allo scopo ufficiale di fornire il sostegno finanziario di cui i paesi in via di sviluppo si sarebbero dovuti servire per provvedere all’importazione dei beni strumentali necessari alla costruzione di sistemi economici produttivi e sostenibili. Ma l’egemonia geopolitica statunitense sul mondo non-comunista rese di fatto il FMI uno strumento strategico di cui Washington si servì per diffondere, attraverso quelli che John Perkins ha definito “sicari dell’economia” (2), i ben consolidati meccanismi di indebitamento a livello planetario risucchiando tra le spire di Washington tutti le nazioni che facevano appello a tale istituzione. Il FMI iniziò pertanto a raccomandare riforme di “aggiustamento strutturale” fondate sul principio liberisti secondo cui ogni singolo Stato si sarebbe dovuto impegnare a gestire la propria bilancia commerciale senza ricorrere alla svalutazione monetaria, messa al bando allo scopo ufficiale di promuovere la stabilità complessiva del sistema. I paesi impossibilitati a realizzare un saldo positivo, si sarebbero quindi dovuti impegnare ad immettere sul mercato i propri titoli di debito assicurando alti tassi di interesse per renderli maggiormente appetibili. Ciò aprì ed allargò progressivamente la forbice tra questi paesi e quelli in grado di realizzare elevati livelli di export. Così l’Italia, impossibilitata a rivolgersi alla Banca d’Italia per piazzare i propri titoli a basso tasso d’interesse, cominciò ad immettere sul mercato Buoni del Tesoro a tassi di interesse crescenti; il risultato di ciò fu l’esplosione del debito pubblico – cui contribuirono anche la clientelarissima assunzione di dipendenti statali e la dissennata distribuzione di pensioni di invalidità e sussidi di vario genere –, il considerevole aggravio del vincolo estero, il crollo degli investimenti pubblici nei settori strategici di ricerca e sviluppo e il conseguente, drastico aumento della disoccupazione – che colpì principalmente le fasce più giovani della popolazione.

Si arrivò così alla seconda metà degli anni ’80, quando il Muro di Berlino cominciava a mostrare crepe sempre più visibili spalancando nuove prospettive, soprattutto di carattere economico, per il Vecchio Continente. La Germania Ovest guidata dal Cancelliere Helmut Kohl non nascose l’intenzione di ricongiungersi con la parte orientale, che durante la Guerra Fredda era stata affidata a Mosca in ottemperanza alla logica di Yalta. La Francia di Francois Mitterrand, dal canto suo, temeva però che la riunificazione tedesca fondata sulla potenza economica della sua parte occidentale avrebbe condotto all’egemonia incontrastata della Germania su tutto il continente, una prospettiva giudicata assai pericolosa dall’Eliseo per via dei disastrosi precedenti storici (Prima e Seconda Guerra Mondiale). Ricollegandosi a ciò, l’economista Nino Galloni – che dipinge un quadro estremamente degradante in cui l’operato di personaggi assai celebrati come Guido Carli si colora di tinte a dir poco fosche – racconta di un accordo tra Kohl e Mitterrand (3), in base al quale la Francia avrebbe appoggiato la riunificazione tedesca in cambio della rinuncia al marco, e alla contestuale accettazione dell’euro, da parte del governo di Berlino. Kohl era però consapevole che il ricongiungimento tra le due Germanie e la conversione dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (DDR) all’economia di mercato avrebbe richiesto enormi risorse alla parte occidentale del paese. Di questo indebolimento si sarebbe avvantaggiata l’Italia, che, nonostante le numerose difficoltà in cui si stava imbattendo, rappresentava comunque un grande paese manifatturiero. Per questa ragione, Kohl pretese che l’accordo stipulato con Mitterrand prevedesse anche la deindustrializzazione dell’Italia. La saldatura dell’asse franco-tedesco piegò la debole resistenza opposta da parte della classe politica italiana, consentendo alla Germania di proseguire il proprio progetto di riunificazione avviato un paio di decenni prima dal Cancelliere Willy Brandt attraverso la normalizzazione dei rapporti con il blocco orientale (ostpolitik). Kohl affidò questo progetto all’abilissimo presidente della Deutsche Bank Alfred Herrhausen, che aveva le idee piuttosto chiare sul da farsi. «Entro dieci anni – affermò Herrhausen – la Germania Est diverrà il complesso tecnologicamente più avanzato d’Europa e il trampolino di lancio economico verso l’est, in modo tale che Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, e anche la Bulgaria svolgano un ruolo essenziale nello sviluppo europeo» (4). In conformità a questo scopo intendeva abolire il debito “intra-imprese”, un dato contabile che grava sulle industrie ex comuniste (nel 1994 raggiunse i 200 miliardi di marchi) considerato come un asso nella manica da Banca Mondiale e FMI, che si opponevano irriducibilmente al risanamento del comparto industriale ereditato dalla Germania in seguito alla riunificazione. Il presidente della Deutsche Bank sostenne, tra le altre cose, anche la necessità di costruire linee ferroviarie veloci che congiungessero la Germania alla Russia. Esattamente il tipo di progetto che le potenze marittime – Gran Bretagna prima e, successivamente, Stati Uniti – hanno contrastato per secoli. Herrhausen si distingueva per la visione aperta e innovativa dei rapporti internazionali proponendo di ridisegnare il ruolo della Germania, che secondo la sua concezione avrebbe dovuto fungere da ponte fra est ed ovest, nonché da motore della riconversione industriale e del nuovo sviluppo di un’Europa sottratta al controllo della Banca Mondiale e del FMI. Egli cercava, pur a spese dell’Italia, di ritagliare per la Germania un lebensraum (lo “spazio vitale”, concetto elaborato dal geopolitico tedesco Karl Ernst Haushofer prima che se ne impossessassero indebitamente i nazisti) ripristinando il drang nach osten, (la “spinta verso est”) attraverso il corridoio strategico ovest-est.  Mentre si prodigava per mettere in pratica i suoi piani, Herrhausen denunciò di essersi imbattuto «In massicce critiche» (5), in particolar modo quando si espose affinché il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale risparmiassero i paesi post-comunisti dell’est alla “terapia d’urto” di Jeffrey Sachs, caldeggiando una moratoria sul debito di qualche anno, cosicché potessero sfruttare le proprie risorse per la ricostruzione piuttosto che per sostenere i ratei ai banchieri. Nonostante ciò, Herrhausen riuscì ad acquisire un notevole appoggio in Europa, che nell’arco di pochi anni si sarebbe potuto rivelare sufficiente per far decollare i suoi progetti, il più importante dei quali riguardava la fondazione a Varsavia di una banca per lo sviluppo finalizzata a finanziare la ricostruzione e l’integrazione dell’Europa orientale con quella occidentale. L’1 dicembre 1989, con impeccabile puntualità, un ordigno esplosivo – dotato di un sofisticatissimo innesco laser – fece saltare  l’automobile blindata su cui Alfred Herrausen stava viaggiando. La responsabilità dell’attentato venne attribuita al gruppo terroristico comunista Rote Armee Fraktion (RAF), in seguito ad una superficialissima indagine.

L’acuto economista Detlev Karsten Rohwedder cercò tuttavia di inserirsi nel solco tracciato da Herrhausen. Rohwedder era a capo della Treuhandanstalt, holding pubblica che raggruppava tutte le industrie statali dell’ex DDR, dopo aver approntato e gestito di persona il piano di risanamento e riorganizzazione del colosso chimico e farmaceutico Hoechst AG. Dal momento che «Un liberismo di mercato di tipo dottrinario non funziona – affermò Rohwedder – occorre privilegiare una politica di risanamento rispetto alle privatizzazioni» (6). L’esatto contrario di quanto richiesto dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Rohwedder intendeva incentivare gli investimenti pubblici per rimettere in sesto ed ammodernare il vecchio comparto industriale ereditato dalla DDR, affinché «La popolazione della Germania Est superi al più presto la sua condizione d’inferiorità materiale»5. Questo (relativamente) sconosciuto economista ambiva a trasferire il controllo della Treuhandanstalt dal Ministero delle Finanze, cui faceva capo, a quello dell’Economia, in modo tale che la holding divenisse l’organo centrale di un rinnovato dirigismo tedesco. Il 12 aprile 1991, uno o più esperti sicari colpirono Rohwedder sparando tre colpi con carabina a infrarossi, che infransero una finestra della sua casa di Dusseldorf, uccidendolo. La solita RAF rivendicò la paternità dell’attentato, dimostrando per l’ennesima volta la reale funzione del terrorismo “estremista”, mera manovalanza che opera regolarmente (consciamente o inconsciamente) per ben precisi centri di potere. Non è infatti un caso che, al termine della Guerra Fredda, il direttore della CIA William Webster abbia dichiarato che «Gli alleati politici e militari dell’America sono ora i suoi rivali economici» (7), e che il suo predecessore William Colby abbia chiarito che «I mercati finanziari e valutari globalizzati oggi sono una questione di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti» (8).

Le ultime speranze relative alla “salvezza” della Germania orientale decaddero con gli assassinii di Herrhausen e Rohwedder, Nell’arco del triennio 1990-1993 il piano relativo alle privatizzazioni disposto dal governo, piegatosi alla volontà di Banca Mondiale e FMI, toccò più di 11.000 aziende pubbliche e provocò la chiusura di oltre 2.500 compagnie. Come negli altri paesi investiti da fenomeni simili, le privatizzazioni vennero eseguite in tempi assai ristretti, consentendo a pochi uomini d’affari privi di qualsiasi scrupolo di ottenere il controllo di società più che redditizie a prezzi estremamente bassi. Alcune aziende, nonostante i loro conti fossero in attivo, vennero chiuse affinché non intaccassero il monopolio di quelle occidentali. La MZ, ad esempio, malgrado si attestasse in cima alla produzione mondiale di motocicli, fu costretta a chiudere i battenti affinché non intralciasse il monopolio dell’occidentale BMW. Alla prova dei fatti, sono i dati relativi al medesimo triennio a fornire tutte le informazioni necessarie al riguardo; la politica economica portata avanti da Kohl, imperniata sulla privatizzazione delle aziende pubbliche innescò un processo di deindustrializzazione che nell’arco di pochi mesi ridusse la produzione del 70% e dimezzò – da 9,8 milioni a 5,4 milioni – l’occupazione, portò la remuneratività dei salari dell’est, a parità di specializzazione, al 30% in meno rispetto a quelli dell’ovest e gettò nella povertà strati consistenti di popolazione.

Sul piano geostrategico, la caduta dell’Unione Sovietica insinuò invece in tutta Europa una progressiva sfiducia nei riguardi della NATO, che da strumento di difesa dalla presunta minaccia comunista aveva perso la propria ragion d’essere. L’asse franco-tedesco cominciò pertanto a sostenere la necessità di dotare l’Europa di un esercito federale autonomo, cosa che mise in stato d’allarme gli Stati Uniti; Washington temeva infatti che la realizzazione di un progetto simile slegato dai vincoli della NATO avrebbe potuto compromettere o quantomeno indebolire le buone relazioni con gli alleati, e decise pertanto di giocare d’anticipo indicendo la riunione del Consiglio Atlantico il 7 novembre del 1991. Nel corso della riunione – che si tenne a Roma – gli Stati Uniti accolsero le rivendicazioni europee accettando però di integrare l’ambizioso piano franco-tedesco nel quadro del più ampio progetto di ristrutturazione della NATO, lasciando di fatto invariati i rapporti di forza all’interno dell’Alleanza Atlantica.

Una volta soppresse le velleità francesi e, soprattutto, tedesche attraverso la NATO dal punto di vista militare e attraverso Banca Mondiale e FMI dal punto di vista economico, gli Stati Uniti orientarono le proprie “attenzioni” sull’Italia. Nel febbraio del 1992 il capo della polizia Vincenzo Parisi redasse e fece pervenire sulla scrivania dell’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti un rapporto in cui erano sommariamente elencate e descritte le modalità di un imminente piano di destabilizzazione politico, sociale ed economico a danno dell’Italia (9), orchestrato da svariate forze sia nazionali che internazionali in combutta con specifiche, potentissime lobby finanziarie.  Pochi giorni dopo (17 febbraio 1992), l’arresto del secondario esponente socialista Mario Chiesa innescò una reazione a catena che travolse politici, imprenditori, faccendieri e uomini d’affari di vario ordine e grado. Emerse un desolante ma arcinoto quadro fatto di clientelismi, tangenti, bustarelle, connivenze e contiguità che portò alla decapitazione e al conseguente disfacimento dei due storici partiti di governo, Democrazia Cristiana (DC) e Partito Socialista Italiano (PSI), crollati sotto i colpi di un’agguerritissima magistratura (con il procuratore Antonio Di Pietro in prima linea) sponsorizzata dalla consueta stampa (“La Repubblica”, “La Stampa”, “Corriere della Sera”) di riferimento dei poteri forti. Nei mesi successivi gli attentati di Capaci e via D’Amelio stroncarono le vite dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli agenti della scorta.  «Falcone e Borsellino – osserva Benito Li Vigni – avevano processato la “mafia militare”; conoscevano le strade che portavano in alto, negli strati delle istituzioni deviate, in quelli della mafia-politica, organica al potere. Si apprestavano a spezzare l’“egida impenetrabile”, a irrompere nelle “zone d’ombra” delle consorterie occulte, a percorrere gli impervi sentieri che portano alle trame e agli intrecci inconfessabili tra borghesia mafiosa, politica, economia, finanza e che hanno segnato la “storia occulta” di questo paese» (10).

Una di queste “trame” riguardava il consolidato circuito di narcotraffico messo in piedi dalle le cosche mafiose operanti in entrambe le sponde dell’Atlantico. Durante i processi relativi alle operazioni legate al traffico di stupefacenti tra Italia, costa orientale degli Stati Uniti e la città svizzera di Lugano, gli inquirenti americani non presero in minima considerazione il ruolo cruciale svolto dalla Merrill Lynch, l’istituto bancario che si occupò del riciclaggio di denaro sporco contestuale alla cosiddetta “Pizza Connection”. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’incarico di segretario al Tesoro statunitense, responsabile per le ispezioni sul riciclaggio del denaro, era allora ricoperto dall’ex presidente della Merrill Lynch Donald Reagan.

Parallelamente (2 giugno 1992), il panfilo Britannia intento a trasportare la regina Elisabetta II e una nutrita schiera di finanzieri angloamericani (rappresentanti di Barclays, Baring & Co., Warburg, Rothschild Group, ecc.), gettò l’ancora al largo di Civitavecchia per permettere al gotha dell’industria e della finanza pubblica italiana di salire a bordo. Salirono Beniamino Andreatta e Riccardo Gallo, Mario Draghi, Giovanni Bazoli, Antonio Pedone ed altri. Nei giorni successivi alla riunione sul Britannia si insediò il governo presieduto da Giuliano Amato, che, oltre a trasformare le imprese pubbliche in Società Per Azioni (SPA), denunciò gli alti tassi di interesse che lo Stato stava garantendo agli acquirenti italiani per immettere i buoni del Tesoro direttamente sui mercati finanziari. In puntuale corrispondenza dell’insediamento, Moody’s – presieduta da John Bohn, che venne nominato funzionario del Dipartimento del Tesoro statunitense sotto l’amministrazione Bush – declassò drasticamente il rating dell’Italia in forza dei mancati tagli di bilancio e dell’ostinata politica assistenziale portata avanti dai passati governi. Questa scelta improvvisa fu varata di punto in bianco nonostante i dati relativi al deficit fossero pressoché inalterati da un paio d’anni. Amato corse immediatamente ai ripari, disponendo di colpo un cospicuo innalzamento dei tassi di interesse sui buoni del tesoro allo scopo ufficiale di evitare che i mercati facessero leva sull’instabilità italiana per abbandonarsi alle più rapaci operazioni speculative. Il noto uomo d’affari George Soros approfittò immediatamente della situazione e avviò un pesantissimo attacco dell’Italia. Potendo contare sulla copertura finanziaria garantita dai Rothschild, Soros puntò forte sull’effetto-leva e fece massicciamente ricorso agli strumenti derivati, vendendo lire (che non possedeva) allo scoperto prevedendo di riacquistarle a svalutazione avvenuta. Col passare dei giorni, Soros aumentò costantemente il tenore dell’offensiva speculativa e la Banca d’Italia, in ottemperanza alla strategia di difesa ad oltranza della lira elaborata dal governatore Carlo Azeglio Ciampi, bruciò diverse decine di migliaia di miliardi di lire, esaurendo ben presto quasi tutte le proprie valutarie e costringendo l’Italia ad uscire dal Sistema Monetario Europeo (SME). In sostanza, la Banca d’Italia innalzò massicciamente i tassi di interesse per difendere la moneta, alimentano lo stesso deficit che il governatore Ciampi dichiarava di voler abbattere. Dal momento che ogni punto percentuale di aumento degli interessi equivaleva a sommare diverse migliaia di miliardi di lire al debito pubblico a breve termine, emerge con sufficiente chiarezza che la strategia operativa adottata dalla Banca d’Italia contribuì di fatto ad abbandonare il paese nelle grinfie della speculazione finanziaria anglo-americana, incrementando la tendenza alla privatizzazione dettata dalla necessità di “far cassa”.

La conseguente svalutazione, pari al 30%, della lira consentì pertanto ai Rothschild e alle banche che avevano sostenuto la manovra speculativa (Goldman Sachs, Merrill Lynch, Citicorp, JP Morgan e Solomon Brothers) di mettere le mani sulle aziende controllate dall’IRI a prezzi estremamente vantaggiosi. Così, ENI, Enel, Telecom, Comit, ecc. vennero selvaggiamente privatizzate o smembrate. Le privatizzazioni proseguirono poi per tutti gli anni ’90, indebolendo notevolmente l’Italia sul piano strategico.

Oltre a qualche grande azienda operante nei settori di punta sopravvissuta all’ondata di privatizzazioni, l’unico settore che ancora riesce a tenere a galla il settore manifatturiero italiano è rappresentato dalla fitta rete di piccole e medie imprese, che attualmente soffrono enormemente l’aumento esorbitante del costo dell’energia, l’inefficienza dei trasporti, la scarsità dei servizi e le misure di austerità adottate dal governo guidato da Mario Monti (ex di Goldman Sachs nonché membro del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale), imposto, oltre ogni ragionevole dubbio, “dall’alto”. La Germania, dal canto suo, continua a stringere i legami con Russia, Cina ed India. La visita di Angela Merkel a Nuova Delhi nel maggio 2011 ha  coronato la collaborazione con l’India, soprattutto per quanto concerne il campo dell’alta tecnologia. L’interscambio tra Germania e Cina nel 2011 ha toccato i 144 miliardi di dollari ed è destinato a raddoppiare entro il 2015, quando si stima che raggiungerà i 280 miliardi. Queste cifre permetteranno ai tedeschi di imporsi in cima alla classifica dei paesi esportatori verso la Cina, surclassando gli Stati Uniti, e a Berlino di stringere ulteriormente il rapporto strategico con Pechino. Nell’aprile 2012, il primo ministro cinese Wen Jibao si è recato a Wolfsburg allo scopo di siglare un accordo che prevede l’installazione di una nuova fabbrica della Volkswagen nella regione dello Xinjiang. Si calcola che ciò attenuerà l’alto tasso di disoccupazione locale, che finora ha contribuito primariamente ad alimentare le pulsioni centrifughe delle popolazioni indigene. Questa intensificazione dei rapporti con la Cina costituisce la parte integrante e maggioritaria di un processo che prevede il riposizionamento dell’economia tedesca in direzione dei mercati emergenti. Secondo un rapporto redatto dall’European Council on Foreign Relations, «La Germania è portata a considerare se stessa come una forza credibile in un mondo multipolare, il che alimenta a sua volta l’ambizione di divenire “globale” con le sue forze» (11).

Parallelamente, i dirigenti di Berlino difendendo a spada tratta le condizioni che tutelano il poderoso export tedesco verso i paesi membri dell’Unione Europea e permettono alle banche tedesche di guadagnare dal dissesto degli Stati meno solidi. E’ per questa ragione che la Deutsche Bank ha acceso sull’Italia una miriade di Credit Default Swap (CDS), derivati finanziari che si valorizzano con il peggioramento delle condizioni economiche italiane. Molte posizioni assunte da Angela Merkel in relazione alla Grecia e al rigore dei conti pubblici nei confronti dei paesi meno solidi, acquisiscono un significato preciso alla luce del fatto che la Deutsche Bank e molti altri istituti di credito tedeschi abbiano pesantemente scommesso sul loro declino, beneficiato dell’aumento dello spread che differenzia i Bund tedeschi dai buoni del Tesoro italiani e dai Bonos spagnoli.

La struttura dell’Eurozona permette a Berlino di avvalersi di particolari condizioni generali per operare dumping fiscale ed esportare le merci tedesche verso i paesi membri dell’Unione Europea, ma il dissesto dei paesi cosiddetti “periferici” non può che portare, a lungo termine, all’indebolimento radicale della Germania. Nonostante ciò, i dirigenti tedeschi continuano ad opporsi a qualsiasi proposta di ristrutturazione del meccanismo economico che sorregge l’Unione Europea, aggravando le condizioni complessive in cui versa il Vecchio Continente.

Questo pericoloso gioco d’azzardo (che finirà per colpire anche la Germania) pare pertanto orientato all’indebolimento complessivo dell’Unione Europea attraverso la devastazione del tessuto socio-economico dei paesi mediterranei, di cui l’Italia costituisce la punta di diamante; un obiettivo strategico di primo piano che i potenti agenti sociali dominanti operanti dalla sponda occidentale dell’Oceano Atlantico hanno perseguito – in ottemperanza alla “dottrina Webster” – con estrema ostinazione nel corso dei decenni che hanno succeduto il crollo dell’Unione Sovietica.

 

 

 

1. Cit. in Benito Li Vigni, Il caso Mattei. Un giallo italiano, Editori Riuniti, Roma 2003.

2. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia, Minimum Fax, Roma 2005.

3. Nino Galloni, Chi ha tradito l’economia italiana? Come uscire dall’emergenza, Editori Riuniti, Roma 2012.

4. “Il Tempo”, 30 novembre 2009.

5. Ibidem.

6. “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 30 marzo 1991.

7. “Corriere della Sera”, 10 marzo 1993.

8. Ibidem.

9. Intervista a Vincenzo Scotti pubblicata da “Il Tempo”, 6 dicembre 1996.

10. Benito Li Vigni, I predatori dell’oro nero e della finanza globale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009.

11) “Corriere della Sera”, 24 aprile 2012.

GLENCORE: LA MULTINAZIONALE AL CENTRO DELL’UNIVERSO DELLE MATERIE PRIME

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La Glencore rappresenta la più grande azienda mondiale specializzata nel commercio delle materie prime, fondata negli anni Settanta da Marc Rich, cittadino statunitense di origini belga, che ha saputo negli anni dar vita ad una multinazionale che opera oggi su scala globale. La Glencore commercia, produce, raffina, spedisce o conserva metalli e minerali, prodotti energetici ed agricoli e nel maggio 2011 ha debuttato in Borsa, rinunciando in parte alla propria segretezza, ma non alla propria strategia aziendale.

Gli intermediari della Glencore operano in tutto il mondo e sono presenti anche in Italia, mediante il controllo della Portovesme Srl, azienda produttrice di piombo e zinco, mentre nel novembre 2012 la fusione della multinazionale con la compagnia svizzera Xstrata, ha dato vita ad un vero e proprio gigante del settore minerario e del commercio delle materie prime nel mondo.

 

 

La nascita della Glencore

Nel 1934 nasce in Belgio Marc Rich, il fondatore della Glencore, il maggiore intermediario al mondo nella produzione e nel commercio di materie prime che la Reuters ha definito in passato “la più grande azienda di cui non avete mai sentito parlare”(1).

Rich, trasferitosi con la famiglia negli Stati Uniti negli anni Quaranta, inizia la sua carriera nel 1954 come impiegato alla Philipp Brothers, al tempo la compagnia più importante nel commercio delle materie prime.

In pochi anni, il creatore della Glencore diviene un manager di medio livello, ma nel 1974 decide di fondare, insieme al suo collega Pincus Green, l’azienda Marc Rich & Co., a Baar, nel cantone di Zug in Svizzera.

Inizialmente, la nuova compagnia si concentra sul mercato dei metalli ferrosi e non ferrosi, dei minerali e del petrolio greggio e successivamente dei prodotti petroliferi raffinati, mentre nei primi anni Ottanta acquisisce una società olandese impegnata nel commercio dei cereali. Si creano, quindi, le basi per la nascita, all’interno della Marc Rich & Co., di un gruppo specializzato nel commercio di prodotti agricoli, affiancato da due ulteriori sezioni, concernenti rispettivamente i prodotti energetici,  i metalli e i minerali.

Pochi anni dopo la nascita della sua società, Rich riesce a fare fortuna comprando petrolio dall’Iran, durante la crisi degli ostaggi americani, e dalla Libia di Muammar Gheddafi, quando il Presidente Ronald Reagan impone l’embargo commerciale ai prodotti libici, rivendendo il greggio a Paesi autoritari, quali il Sudafrica durante l’apartheid.

Gli accordi commerciali negoziati da Marc Rich negli anni Ottanta con l’Unione Sovietica, l’Iran ed il Sudafrica, concernenti la fornitura di uranio in cambio di petrolio, determinano l’intervento delle autorità statunitensi, e nonostante il fondatore della Glencore si fosse già rifugiato in Svizzera, il Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti accusa lui e Pincus Green di racket, commercio illegale con l’Iran ed evasione fiscale (2). Si tratta della più grande accusa di frode fiscale della storia statunitense.

All’inizio degli anni Novanta, Rich tenta di conquistare, senza successo, il monopolio del mercato globale dello zinco, e tale intervento fallimentare lo costringe ad uscire dalla sua azienda mediante un’operazione di acquisizione della stessa da parte di manager interni.

I nuovi vertici decidono di rinominare l’azienda “Global Energy Commodities and Resources”, conosciuta con l’acronimo Glencore, guidata, a partire dal 2002, dall’amministratore delegato sudafricano Ivan Glasenberg, uno degli uomini più fidati di Rich, che all’inizio della sua carriera ricopre il ruolo di intermediario nel commercio del carbone.

 

 

La strategia vincente

Oggi, Marc Rich si è ritirato a vita privata, ma i nuovi leaders dell’azienda non hanno mai pensato di dover cambiare la formula del successo inventata dal fondatore della compagnia. Il principio cardine intorno al quale ruotano tutti gli affari della Glencore è piuttosto semplice: per avere profitti è necessario l’accesso alle risorse e per ottenere quest’ultimo fondamentali sono i contatti sul posto.

La Glencore è divenuta negli anni un gigante nel settore delle materie prime perché opera da sempre nei territori di frontiera e le sue attività si svolgono ai margini della mappa dell’economia mondiale.

L’azienda opera in Stati piuttosto instabili, in cui le altre multinazionali non intendono intervenire, ma l’audacia della Glencore l’ha resa l’intermediario delle materie prime per eccellenza, ovvero una compagnia che controlla oggi l’intera catena produttiva, poiché commercia, produce, raffina, spedisce o conserva metalli e minerali, prodotti energetici ed agricoli.

La Glencore coordina circa la metà del commercio mondiale di zinco e rame, circa un terzo del trasporto marittimo di carbone ed è, inoltre, uno dei maggiori esportatori di cereali a livello internazionale che gestisce anche il 3 per cento del consumo petrolifero giornaliero mondiale.

La strategia dichiarata della Glencore consiste nell’espansione delle proprie attività nei mercati emergenti, nella diversificazione delle operazioni, nell’aumento del capitale addizionale e della liquidità dell’azienda e nel dare assoluta priorità alle esigenze dei propri impiegati, dell’ambiente e delle comunità locali presso le quali opera (3).

Monitorando l’andamento dei mercati locali, la compagnia compra beni dove il prezzo è più basso, rivendendoli nelle aree in cui la quotazione è più elevata; sfrutta le oscillazioni selvagge dei prezzi acquistando materie prime ed immagazzinandole fin quando il prezzo ha raggiunto quote tali da garantire ricavi cospicui ed acquista materie prime che vengono trasportare in siti di lavorazione per creare prodotti nuovi il cui valore economico è superiore alla somma del valore dei singoli componenti, dei costi di trasporto e di trasformazione.

Per garantire il funzionamento di questa strategia, la Glencore può contare, inoltre, su un veloce e costante flusso di informazioni e un’efficiente sistema di trasporto delle merci (4).

 

 

La quotazione in Borsa

Il fondatore della compagnia decide di avviare i suoi affari in Svizzera perché in questo Stato l’attività imprenditoriale è protetta dal segreto bancario e aziendale, per l’insofferenza del governo svizzero nell’applicazione delle sanzioni internazionali e per la storica neutralità politica del Paese, che non è membro dell’Unione Europea ed è entrato a far parte delle Nazioni Unite soltanto nel 2002.

In seguito, nel maggio 2011, la Glencore debutta sulle piazze di Londra e Hong Kong, ma secondo Ivan Glasenberg  questo cambiamento non ha alcuna influenza sul modo di operare e sugli affari della multinazionale delle materie prime (5). Per poter entrare in Borsa, l’azienda ha dovuto rinunciare in parte alla propria segretezza, ma questo rappresenta un’evoluzione della compagnia creata negli anni Settanta da Marc Rich. La strategia non cambia, ma la Glencore diviene più potente e più grande.

Nonostante la quotazione in Borsa esponga la Glencore a maggiori controlli, i dirigenti decidono di compiere questo passo perché sanno che i loro guadagni possono moltiplicarsi e perché l’azienda ha oggi bisogno di aumentare il proprio capitale per crescere a livello globale.

La trasformazione della multinazionale può significare la volontà della stessa di adattarsi alle nuove regole internazionali, tra cui il rispetto del principio della trasparenza, e secondo Marc Rich la nuova compagnia, che vanta ancora oggi una fitta rete di intermediari  e partners d’affari, deve adattarsi ai nuovi tempi, nonostante il rispetto delle regole rappresenti un evidente limite alle attività della multinazionale.

 

 

La questione Glencore-Xstrata

Si è ormai compiuta, il 20 novembre 2012, la fusione tra la Glencore e la svizzera Xstrata, una delle più grandi società estrattive al mondo nel settore del carbone, del rame, dello zinco e di altri minerali, guidata dal sudafricano Mick Davis, che nasce da una separazione di ramo d’azienda dalla stessa Glencore, la quale controllava già il 34 % della compagnia.

Tale incontro ha dato vita ad un vero e proprio colosso planetario del settore minerario e del commercio delle materie prime, che controlla oltre cento miniere in cinque continenti e che possiede una divisione petrolifera dotata di una flotta più grande di quella della marina militare britannica.

Quando la Glencore presenta ufficialmente a febbraio l’offerta di acquisto di Xstrata, quest’ultima affronta le proteste di una parte dei propri investitori, contrari ai bonus milionari destinati ad incentivare gli alti funzionari dell’azienda mineraria a rimanere all’interno della stessa.

L’operazione di fusione rischia di naufragare quando il fondo sovrano del Qatar, in qualità di secondo azionista di Xstrata, chiede alla Glencore un miglioramento dell’offerta per l’acquisto delle azioni del gruppo minerario ed i negoziati si concludono con la proposta di 3,05 azioni Glencore per ogni azione Xstrata, con il beneplacito di Qatar Holding (6).

Nei giorni successivi all’annuncio della fusione, la Commissione europea, in nome di un’organizzazione internazionale che ha sempre considerato le due aziende svizzere come un’unica entità, ha approvato l’acquisizione di Xstrata, ma il via libera è condizionato alla cessazione dell’accordo di Glencore con il gruppo minerario belga-elvetico Nyrstar per la commercializzazione dello zinco nello spazio economico europeo e al disinvestimento della quota di minoranza di Glencore nella compagnia (7).

Il Commissario dell’UE alla concorrenza, Joaquin Almunia, ha affermato che i suddetti rimedi assicurano che la competizione nel mercato europeo dello zinco sia preservata.

Non dello stesso parere è l’Associazione europea dell’acciaio, EUROFER, la quale ritiene che l’operatore nato dalla fusione Glencore-Xstrata possa raggiungere la quota di mercato del 35 % in Europa, sfiorando così la soglia del 40% imposta dalla stessa Commissione europea per non incorrere nella fattispecie di abuso di posizione dominante (8).

 

 

Gli affari della Glencore nel mondo

La Glencore fa affari con dozzine di Paesi in tutti i continenti e la lista dei suoi clienti include aziende energetiche statali, come quelle di Brasile e India, e multinazionali statunitensi, quali ExxonMobil e Chevron, e secondo il rapporto della Deutsche Bank per gli investitori interessati al collocamento in borsa della Glencore, quest’ultima ha la capacità di adattarsi alle realtà delle “regioni di frontiera” e alle “giurisdizioni politiche impegnative”.

Gli Stati in un cui opera la multinazionale sono ricchi di risorse naturali, ma spesso guidati da leaders autoritari e caratterizzati da una forte instabilità. Per quanto riguarda il carbone, la Glencore possiede l’azienda colombiana Prodeco, mentre in relazione al petrolio la compagnia è presente nella Guinea Equatoriale, nella Costa d’Avorio, in Iran, in Russia e in Romania.

Nei rapporti tra la Glencore ed il regime iraniano, l’ubicazione della sede della multinazionale in Svizzera, Stato non membro dell’UE, ha permesso all’azienda, negli ultimi anni, di importare e commerciare il petrolio dell’Iran, nonostante l’embargo deciso a Bruxelles.

Altri prodotti chiave delle attività della Glencore sono il rame dello Zambia e della Repubblica Democratica del Congo, l’oro del Kazakistan e l’alluminio del Bahrein.

Par quanto concerne, invece, i servizi finanziari e la ricerca di eventuali paradisi fiscali, Glasenberg si serve delle prestazioni di Stati quali il Liechtenstein ed i Paesi Bassi (9).

In Italia, l’azienda leader nella produzione di piombo e zinco destinato al mercato interno, la Portovesme Srl., situata in Sardegna, è stata acquistata da una società sussidiaria della Glencore nel 1999, ma in questi ultimi mesi la multinazionale si è resa protagonista della trattativa per l’acquisto di un altro stabilimento di Portovesme, adibito alla produzione dell’alluminio, di proprietà dell’americana Alcoa dal 1996.

Nonostante l’iniziale interesse, la Glencore ha in seguito manifestato la propria rinuncia ad eventuali accordi mediante una lettera inviata al Ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, e al governatore sardo, Ugo Cappellacci. La motivazione della mancata acquisizione della fonderia è legata al costo dell’energia elettrica, che secondo i manager della multinazionale è alla base delle rilevanti perdite subite dall’azienda; perdite che hanno poi condotto alla chiusura dello stabilimento italiano (10).

 

 

* Marzia Nobile, laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 



(1)  Silverstein K., A Giant among Giants, 2012, www.foreignpolicy.com; Glencore: Reaping Huge Profits From Life’s Essentials, 2012, www.savingiceland.org.

(2)  Marc Rich, 2010, www.forbes.com; Marc Rich indicted in vast tax evasion case, 1983, www.nytimes.com;  Nel 2001, il Presidente Bill Clinton “perdona” Marc Rich per le accuse pendenti da 18 anni.

(3)  Strategy, www.glencore.com

(4)  Glencore “sbanca” in borsa e diventa sempre più marittima, 2011, www.ship2shore.it

(5)  Glencore in Borsa a 530 pence, 2011, www.ilsole24ore.com

(6)  L’affare Glencore-Xstrata, 2012, www.lospaziodellapolitica.com;  Glencore-Xstrata, fusione approvata ma senza incentivi, 2012, www.ilsole24ore.com

(7)  Glencore: OK Ue condizionato ad acquisizione di Xstrata, 2012, www.corriere.it; Glencore-Xstrata, ok condizionato dall’Antitrust Ue, 2012, www.eventiquattro.ilsole24ore.com; EU gives conditional approval to Glencore-Xstrata deal, 2012, www.economictimes.indiatimes.com

(8)  Eurofer Slams Approval of Glencore-Xstrata Merger, 2012, www.foxbusiness.com.

(9)  Silverstein K., The World According to Glencore, 2012, www.foreignpolicy.com

(10)  Alcoa, la Glencore rinuncia all’acquisto, 2012, www.corriere.it

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