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NUOVI SEGNALI DI FLESSIBILITÀ SUL NUCLEARE IRANIANO

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Una delle più alte autorità iraniane ha confermato la disponibilità di Tehran a mettere un tetto al 5% dell’arricchimento d’uranio e la volontà d’adozione dell’ invasivo protocollo aggiuntivo del trattato di non proliferazione nucleare. Tutto ciò, a patto che le sanzioni contro l’Iran vengano ritirate; indubbiamente, un nuovo segnale di flessibilità da parte iraniana sulle trattative in corso in merito al nucleare.

L’autorità iraniana che ha rilasciato informazioni in forma anonima all’autore, ha altresì indicato che l’Iran ha recepito e sta seriamente considerando l’installazione di una “linea diretta” con gli Stati Uniti in relazione ad eventuali incidenti nel Golfo Persico e potrebbe altresì acconsentire ad un “accordo marittimo” per dimostrare la volontà iraniana di distendere le tensioni nella regione.

La scorsa settimana, i rappresentanti delle nazioni 5 + 1 (ovvero i membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU assieme alla Germania) hanno tenuto un incontro straordinario oltre all’Assemblea Generale, per aprire un nuovo tavolo di trattative con l’Iran.  Tutto questo avviene mentre Israele continua ad insistere per un intervento militare, alla luce di quanto dichiarato all’assemblea dell’ONU da Benjamin Netanyahu, il quale ha mostrato a tutti un’illustrazione di una bomba in stile cartone animato disegnando a sua volta una “linea rossa” in corrispondenza della quota del 90% in merito all’arricchimento dell’uranio da parte iraniana; una vera sorpresa per molti critici iraniani che hanno interpretato il segnale di Netanyahu come un “semaforo verde” per un arricchimento al di sotto di quella soglia.

Non si capisce bene se questa fosse o meno l’effettiva intenzione di Netanyahu, ma il riferimento alla quota d’arricchimento del 90% ha avuto un vero e proprio effetto ritardante delle capacità guerrafondaie e le conseguenti giustificazioni logiche legate ad una guerra imminente a meno che l’occidente non imponga nuove condizioni “paralizzanti” al nucleare iraniano. Infatti, considerato che l’AIEA ha dichiarato che l’arricchimento iraniano è al di sotto del 20% e che il capo del progetto nucleare iraniano Fereydoun Abbasi ha negato la volontà di andare oltre quella cifra, Netanyahu ora subisce forti pressioni a ricercare pretesti all’interno della comunità internazionale per dare supporto al suo contrasto guerrafondaio con la nazione iraniana.

Una “guerra totale” a livello economico contro l’Iran, sta comunque avendo luogo. Lo stesso presidente Mahmoud Ahmadinejad ha esposto in pubblico la connessione tra le difficoltà economiche del suo stato e le sanzioni economiche come causa della spirale discendente del Riyal, la moneta iraniana. Naturalmente Tehran sta cercando di arginare i danni con la speranza di trovare una soluzione valida relativamente all’ “impasse” relativa al nucleare in maniera tale che la soluzione soddisfi entrambe le parti.

In questo contesto il ministro degli esteri iraniano Salehi ha annunciato al pubblico presente al Council on Foreign Relations e agli altri esperti statunitensi che la fatwa contro il nucleare della massima autorità religiosa verrà “istituzionalizzata”  con una registrazione ufficiale presso le Nazioni Unite avendo così ulteriori rassicurazioni sullo sviluppo pacifico del nucleare iraniano. “Vogliamo mettere in moto altre procedure legali” ha aggiunto Salehi facendo riferimento sia al Protocollo Aggiuntivo e agli accordi secondari con la AIEA (che Tehran fino ad ora aveva rifiutato di sottoscrivere).

L’Iran ha firmato il Protocollo Aggiuntivo del Trattato di non proliferazione (TNP) nel 2003 collaborando con gli ispettori dell’AIEA negli anni 2003 e 2005, ma il protocollo, che permette ispezioni “invasive” e attività di monitoraggio degli impianti nucleari, non è ancora entrato in vigore.

Di certo la domanda è se la coalizione dei governi occidentali guidata dagli USA abbia effettivamente la volontà di contraccambiare l’apertura iraniana con offerte volte a cercare una mediazione oppure se continuerà nel perseguire la linea “massimalista” che vorrebbe la totale sospensione del programma iraniano di arricchimento dell’uranio, che tra l’altro non è in regola con le linee guida del TNP e neppure trova supporto tra le schiere di opinionisti occidentali, che vedono, di contro, conseguenze estremamente negative in caso di un conflitto con l’Iran.

Per avere una risposta a questo quesito si dovrà attendere fino a novembre dopo il verdetto delle elezioni americane. In caso di ri-elezione, il presidente Obama avrà “le mani libere” durante il primo termine del suo mandato per analizzare “l’affare iraniano” così da fare uno step decisivo sulla questione iraniana. Tutto ciò assume ancora più importanza alla luce di una prossimo ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, ancora estremamente instabile, per non menzionare l’attuale e pericolosa instabilità irakena.  Sempre a New York, Salehi ha dichiarato che è “una cosa certa che se gli USA non intratterranno buoni rapporti con l’Iran, sarà per loro difficile perseguire i propri interessi all’interno della regione”.

 

Accordo relativo agli incidenti in mare

Prima di aprire la questione, è necessario precisare che il presente autore aveva pubblicato quattro anni fa una lettera sul New York Times che è opportuno citare:

“Un confronto più da vicino tra la marina statunitense e i guardiani della rivoluzione iraniani è indicatore della necessità di meccanismi affidabili finalizzati ad alleviare le tensioni e prevenire scontri non voluti all’interno di una regione così instabile.

Dovremmo imparare dall’accordo sugli incidenti in mare, stipulato durante la guerra fredda tra le due superpotenze [questo trattato era stato stipulato nel 1972 col fine di prevenire incidenti marittimi e nello spazio aereo tra navi ed aerei statunitensi e sovietici, ndt]. Un simile accordo tra Stati Uniti ed Iran sarebbe necessario, in merito alle manovre militari; assistenza in caso di disastro e gestione dei soccorsi marittimi oltre che linee di comunicazione preferenziali oltre alle attuali interazioni tra le due forze navali.

Alla luce dei loro interessi condivisi in Iraq ed Afghanistan contro il terrorismo Wahabita, USA ed Iran dovrebbero costruire una strategia di accordi comuni e lavorare su aspetti relativi alla sicurezza oltre che a quella irakena.

Purtroppo, la demonizzazione dell’Iran da parte della Casa Bianca a causa della preponderante influenza della Repubblica Islamica nella regione è la ricetta perfetta per arrivare allo scontro”. [1]

Questa lettera e un più lungo rapporto in merito alla condotta politica sono stati redatti dall’autore presente e inviati ai rispettivi policymakers di Iran e Stati Uniti, una volta avuta la loro attenzione ero stato in seguito informato che il presidente Mahmoud Ahmadinejad non avrebbe alcuna obiezione relativa a tale accordo dal momento che non sarebbe “qualcosa di impreciso, ma ben collocato nel tempo”.

Ciò alla luce dell’ostilità iraniana in merito alla presenza statunitense nel Golfo Persico e guardando anche alla pubblica presa di posizione di un ritiro di tutte le forze straniere dalla regione.

Recentemente con le perforazioni sul fondale marino portate avanti dagli USA e dagli alleati occidentali vicino alle coste iraniane, la pazienza per la presenza di truppe straniere sta diminuendo e Tehran sta prendendo in seria considerazione di siglare con gli USA un accordo per gli incidenti marittimi per evitare una guerra accidentale nel Golfo Persico.

Secondo le previsioni, però, l’opportunità di aprire una finestra di dialogo tra USA ed Iran è molto ridotta, principalmente a causa delle sanzioni  che stanno colpendo gli iraniani e che potrebbero presto dare una spinta verso una reazione di “hard power” da parte iraniana all’interno della regione, per punire chi sta facendo patire indiscriminatamente governo e cittadini sotto la bandiera dell’ “anti proliferazione nucleare”. In sostanza ciò sta a significare che nonostante tutti i “punti in comune” tra USA ed Iran, il distacco tra le due nazioni si potrebbe anche ampliare nei mesi a venire se l’occidente continua nella sua imposizione di sanzioni economiche contro l’Iran.

 

Una lezione per i movimenti pacifisti

Mi sembra appropriato dedicare una conclusione ai pacifisti che in questi giorni sfilano con cartelli con sopra la scritta: “No alla guerra contro l’Iran”: sarebbe ora di aggiornare i cartelli con la scritta “Basta alla guerra contro l’Iran”. Infatti, l’insieme delle sanzioni, la guerra cibernetica, l’assassinio degli scienziati iraniani, la cancellazione dalle liste di un gruppo terrorista che vuole un rovesciamento violento della Repubblica Islamica, e così via, riflettono un atteggiamento di guerra contro l’Iran anche se non sono state ancora sganciate bombe sul paese. I movimenti pacifisti hanno bisogno un aggiornamento sulle modalità della guerra moderna e di conseguenza rivedere i propri slogan. Questo è sicuro.

 

 

Kaveh L. Afrasiabi Doctor of Philosophy, è autore di “After Khomeini: New Directions in Iran’s Foreign Policy” (Westview Press). È autore di  “Reading In Iran Foreign Policy After September 11” (BookSurge Publishing , October 23, 2008) e di “Looking for rights at Harvard”. Il suo ultimo libro si intitola “UN Management Reform: Selected Articles and Interviews on United Nations” , CreateSpace (November 12, 2011).

 

 

Note:

[1] Incident at Sea, New York Times, January 11, ’2008.

 

FONTE: http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/NJ05Ak02.html 

(Traduzione di Marco Nocera) 


“LA NUOVA PRESIDENZA USA, LA RUSSIA, LA CRISI GLOBALE: QUALE RUOLO PER L’EUROPA?”

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Domenica 11 Novembre, alle ore 17.00, presso la Sala Consiliare di Via Sansovino 9, Milano, avrà luogo la conferenza: “La nuova presidenza USA, la Russia, la crisi globale: quale ruolo per l’Europa?”.

 
Introduce: Stefano Vernole, redattore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici“.

 
Relatore: Igor Nikolaevich Panarin, politologo russo membro dell’Accademia delle Scienze Militari e docente
 presso l’Accademia Diplomatica del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa, autore di 15 libri e numerosi articoli di geopolitica, psicologia e guerra dell’informazione, analista di intelligence e di previsione strategica. Ha iniziato la sua carriera nel KGB nel 1976 e ha insegnato presso l’Università Statale di Mosca (MGU) e presso l’Istituto Statale di Relazioni Internazionali (MGIMO).

 
 
Temi che verranno trattati durante l’incontro:

1. Dottrina della politica estera di Putin – Unione Eurasiatica.
2. Crisi dell’Eurozona.
3. Romney o Obama.
4. Cambio al potere in Cina.
5. BRICS – nuovo centro di forza.
6. Che cosa ci sarà dopo il dollaro.
7. Modelli di sviluppo del mondo.

 
 
Ingresso libero.

 
Organizzazione a cura del Centro Studi Eurasia Mediterraneo (CeSEM).
Per informazioni: segreteria.scientifica@cese-m.eu

 

L’INGRESSO NEL WTO: LE CONSEGUENZE PER LA RUSSIA. INTERVISTA CON EVGENIJ FEDOROV

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Intervista con Evgenij Fedorov, deputato di Russia Unita nella Duma di Stato, Capo della commissione parlamentare per la politica economica e l’imprenditoria.

 

 

1. Dopo l’entrata della Russia nel WTO, quali sono le conseguenze geopolitiche nello scenario internazionale?

Innanzitutto bisogna dire che la Russia sta entrando nel WTO già da 20 anni. E il processo di ratifica di ora è il completamento del processo di adesione. Il mercato russo si è effettivamente aperto nel corso di questi 20 anni. Questo che cosa significa? Che ancora 20 anni fa, dall’emissione del decreto del Presidente Eltsin sul libero commercio, l’economia russa si è trasformata in un luogo aperto e la Russia ha iniziato ad acquistare merci in tutto il mondo. Nel corso di questi 20 anni, il volume delle merci che la Russia importa dall’estero, è aumentato dall’ 1% iniziale all’attuale 60%. In realtà è uno scambio di mercati. La Russia ha aperto il suo mercato senza formale adesione al WTO. Per noi la ratifica in sé è già ottenere un vantaggio dall’entrata. Ci siamo aperti, abbiamo consegnato il nostro mercato ad importatori ed esportatori. E ora il nostro compito è di ottenere da questo i vantaggi che ci spettano. Cioè avere la possibilità di esportare i nostri prodotti ai membri del WTO in tutto il mondo. Prima di tutto, contiamo sull’esportazione di tecnologia, di prodotti d’alta tecnologia, sulla crescita della ricerca scientifica e tutto il resto. Contiamo su quell’obiettivo che ci siamo prefissi quando abbiamo iniziato il processo di adesione. È difficile non fare parte di un’organizzazione che include il 94% dell’economia mondiale. Ora con l’entrata nel WTO ci sarà una diversificazione dell’economia russa. Ci sarà maggiore esportazione di macchinari ad alta tecnologia e high-tech, e anche di prodotti della scienza, quindi di proprietà intellettuale. Di tutto quello che finora non ha rappresentato per la Russia un mercato di sbocco globale. Con l’entrata nel WTO cambiamo i mercati di sbocco per le merci russe. Invece che soltanto i mercati delle materie prime, adesso diventano diversificati. Stiamo cambiando il posto della Russia nella divisione internazionale del lavoro.

 

2. L’entrata della Russia nel WTO ha fortemente diviso gli esperti, per alcuni la Russia poteva evitare di farlo avendo un mercato interno molto vasto, forte e vario, per altri invece era necessario. Secondo lei quella della Russia è stata una scelta obbligata, visto la presenza nel WTO di altre grandi economie, come quella cinese, o se ne poteva fare a meno?

La Russia aveva necessità di aderire al WTO. Di fatto la Russia si è trovata nella zona del WTO dagli anni ’90. In effetti il WTO è lo scambio dei mercati. Un paese consente l’importazione dei prodotti nel suo territorio in cambio di autorizzazione ad esportare le sue merci. La Russia ha aperto il suo mercato ancora prima dell’adesione, dalla firma formale dei documenti. Questo significa che non avevamo altre opzioni oltre all’entrare e completare i negoziati, altrimenti non avremmo ricevuto nulla in cambio. Quindi, avendo già aperto il nostro mercato, in cambio non avremmo ricevuto nulla se avessimo bloccato il processo. Sotto questo aspetto, non avevamo nessuna scelta, perché in realtà la decisione è già stata presa negli anni ’90. In seguito, il compito del gruppo di negoziatori è stato quello di realizzare le condizioni più favorevoli per le esportazioni russe e per il mercato interno della Russia, poi la firma degli stessi documenti, e il ricevimento dei massimi obblighi dai partner nel processo negoziale. A mio parere, il nostro gruppo negoziale ha ottenuto dei buoni risultati. Abbiamo ottenuto le migliori condizioni possibili. Abbiamo protetto il nostro mercato per un periodo di transizione fino a 15 anni, e dall’altra parte le parti hanno convenuto nel garantire l’esportazione delle merci russe, delle tecnologie russe. Altra cosa è che ora queste tecnologie bisogna crearle. È necessario sviluppare un settore intero dell’industria high-tech, il settore delle scienze, per cui la Russia ha un potenziale enorme, è ovvio. Anche perché più di un milione di scienziati russi  lavorano in laboratori stranieri nel mondo. Si sono preparati in Russia, ma lavorano all’estero. Ciò dimostra che in Russia per loro non ci sono posti di lavoro. Abbiamo intenzione di crearli. Anche grazie all’entrata nel WTO.

 

3. E avete già iniziato a investire in questo settore?

Certo. Il nostro potenziale principale sono i nostri scienziati. Non abbiamo però le istituzioni. Le vecchie istituzioni sovietiche non funzionano, hanno diversi principi di funzionamento. Non funzionano secondo i principi della scienza di mercato, lavorano su ordine. Gli si danno i soldi, e con questi soldi producono qualcosa. Ma a questa condizione non possono lavorare secondo le regole di mercato. Inoltre, c’è il problema della natura dell’economia russa. Le banche russe non sanno finanziare la scienza. Quelle italiane lo sanno fare. Un quarto dei crediti bancari italiani sono crediti investiti nella sfera della scienza e dell’alta tecnologia. Qui in Russia non ci sono in circolazione proprietà intellettuali per le esigenze dell’economia, e non ci sono difese e garanzie per i prestiti. Interi enormi settori dell’economia che esistono in Italia, in Russia non esistono come business. È ciò che occorre creare. Ma il potenziale della sua creazione è enorme. A questo proposito il progetto “Skolkovo” è il primo progetto per noi per la trasformazione dell’economia in un’economia innovativa, per la creazione di attività scientifica in senso moderno.

 

4. Come procede ora il progetto “Skolkovo”?

Mi farebbe piacere se andasse più forte. Procede con difficoltà. Non ha un impatto profondo. Questo è un fatto. Skolkovo di per sé funziona bene, ma quelle centinaia di istituti che ci sono, non si sono ancora riconvertiti ai metodi di mercato, ancora non possono vendere i loro prodotti in forma di proprietà intellettuale, anche per l’esportazione attraverso Skolkovo. Di conseguenza non sono ancora in grado di lavorare secondo i rapporti di mercato e per ciò siamo molto indietro. Per ora. Se avremo un mercato di sbocco con l’aiuto del WTO allora ci saranno anche i soldi. E sulla base dei soldi il potenziale dei centri di ricerca aumenterà al punto tale che anche il loro lavoro si espanderà. Prevediamo che lavoreranno 100 volte più efficientemente rispetto ad oggi.

 

5. La Russia, da questa mossa, in quali settori trarrà maggior giovamento e dove invece avrà difficoltà? In particolare nei settori dell’agricoltura, dell’energia e dei servizi finanziari quali possono esser le previsioni?

Prima di tutto ci aspettiamo la creazione di nuovi settori dell’economia nel campo delle alte tecnologie e nel campo della ricerca scientifica. In Russia dovranno nascere aziende come le più grandi al mondo: Apple, Google, Nokia. Non le abbiamo ancora in Russia. Attendiamo che in Russia appaiano questi tipi di aziende. Questa è la prima direttiva. Se il WTO ha portato alla fase della concorrenza diretta, la Russia deve diventare concorrenziale in tutti i settori. Se le imprese industriali italiane ottengono crediti al 1-5% annuali, le società russe al 15%, questo significa che non si può parlare di nessuna concorrenza. La Banca Centrale Europea finanzia le banche europee al 0,75%, e il tasso di rifinanziamento delle banche russe è del 8,25%. Questa è una disuguaglianza.

È chiaro che abbiamo bisogno di cambiare i principi di tutta l’economia. Entrando nel WTO e mettendoci in concorrenza nel campo delle merci, dobbiamo metterci in concorrenza anche nel campo degli investimenti. E per questo dobbiamo cambiare gli stessi principi del sistema economico russo. Ora ci proponiamo di cambiare la legge sulla Banca centrale di Russia, per far funzionare la Banca centrale basandosi sul supporto all’industria, come fanno le banche europee. E così abbassare il tasso d’interesse al livello vicino a quello europeo.

Questo è il primo aspetto. Questo crea una concorrenza equa. Il secondo aspetto è che, come possiamo vedere, l’Europa per molti versi nel suo rapporto stretto con la Russia si basa sulle sue risorse, comprese quelle finanziarie. Ci piacerebbe vedere più uguaglianza anche qui. Ad esempio, durante l’ultima visita del Primo Ministro italiano, lui ha chiesto alla Russia e a Putin di non toccare l’euro nelle riserve valutarie e d’oro. Dato che noi abbiamo il 40% delle riserve in euro. Qui ci vorrebbero rapporti tra partner più vantaggiosi. Perché non solo l’Europa deve guadagnare sul nostro rublo, ma anche noi stessi.

 

6. Come giudica le riforme politiche richieste dal WTO per accettare l’entrata della Russia nell’Organizzazione? Una opinione personale sul WTO: come giudica l’operato della stessa, può esser considerato il libero mercato un vantaggio per i popoli, o solo per alcuni stati e/o una elite della popolazione mondiale?

Presumo che il libero mercato sia l’arena della lotta per i più forti. Più lo stato è forte, più efficace lo è la sua economia, la sua produzione, i suoi cervelli, la sua egemonia, quindi vince più facilmente nel mercato aperto.  Se lo Stato è debole, non ambizioso, le persone  vivono senza ambizioni, le imprese non sono ambiziose, non patriottiche, allora nel mercato libero si comportano come sponsor dello sviluppo degli altri. Ma questo avviene in qualsiasi arena, nell’arena dello sport, per esempio. Per la Russia l’entrata nel WTO è una sfida. Sfida, che richiede la mobilitazione interna. Storicamente la Russia è in grado di mobilitarsi internamente. Anche nel sistema finanziario e economico saranno necessarie delle modifiche. Servirà una trasformazione dell’economia russa in un tipo più competitivo, la creazione di un’economia realmente europea. In Russia l’economia è altamente specializzata, non esistono i settori esistenti in Europa. La stessa situazione c’è nel campo della scienza e con i principi di finanziamento dell’industria. Per noi il WTO è l’inizio della lotta per creare una forte economia russa. Compreso il potenziale della Russia, la Russia se posta in condizioni competitive, eguali, avanzerà significativamente nel suo potenziale economico. Quello che non avevamo prima è la concorrenza. Per la Russia questo è utile. Quando un paese è chiuso, non risponde alle sfide, sta dormendo. La concorrenza costringe la Russia a svegliarsi.

L’entrata nel WTO comporterà il fatto che tra 5-10 anni non riconoscerete la Russia sul piano dello sviluppo economico e politico e delle potenze economiche globali.

 

7. Come mai ci sono voluti i negoziati più lunghi della storia per ottenere l’entrata della Russia nel WTO? Se durante l’Urss era una questione ideologica, dopo quali sono stati i problemi principali che ne ostacolavano l’entrata?

In effetti, i negoziati sono andati avanti 20 anni, le condizioni dettate dal WTO la Russia le ha soddisfatte anche prima della metà del tempo trascorso per i negoziati, dato che ha aperto i mercati completamente. Oggi abbiamo più di metà delle merci importate. Quando abbiamo iniziato il processo di negoziazione ne avevamo solo l’1%. Aver soddisfatto le condizioni principali del WTO,  chiaro che poi sono stati discussi alcuni dettagli e sfumature. Ma le richieste principali del WTO sono state realizzate fin dall’inizio. Ciò è legato alla situazione in Russia negli anni ’90. In effetti, l’Unione Sovietica è stata sconfitta in uno scontro mondiale. La Russia, come l’Ucraina, era nel campo degli sconfitti. In questa situazione la Russia ha semplicemente aperto i suoi mercati senza porre alcuna condizione. Con il rafforzamento del governo russo, il rafforzamento dello Stato russo, la Russia ha iniziato a imporre le condizioni. Alla fine, dopo 20 anni, abbiamo raggiunto una proposta adeguata da parte della comunità internazionale riguardo l’apertura dei mercati russi. Quindi arriva l’adesione della Russia al WTO e la possibilità per noi di lavorare sui mercati mondiali.

 

8. Qual è la situazione attuale delle piccole e medie imprese russe? L’entrata nel WTO potrebbe danneggiare le piccole e medie imprese, o al contrario, sarà per loro utile?

Il WTO oggi colpisce abbastanza pesantemente le PMI in generale. Il piccolo e medio business in Russia oggi non è adeguato. Si trova in uno stadio arretrato. A differenza di quello italiano, in Russia praticamente non esistono le piccole e medie imprese industriali, a parte poche eccezioni.

In Italia ci sono le panetterie, le piccole fabbriche, i produttori di componenti per auto, ecc.. Questo settore rappresenta il 50% delle aziende. Innanzitutto in Russia le piccole imprese sono solo il 15% del totale. Secondo: sono tutte nella sfera del commercio e dei servizi. Non abbiamo praticamente nessuna produzione tra le piccole imprese. Questo significa che abbiamo un enorme potenziale per lo sviluppo delle piccole imprese. Riteniamo che il primo passo da compiere sia la riforma dell’economia russa. Riteniamo che in Russia, lo sviluppo delle piccole imprese aumenterà fino al 50% del volume del PIL a causa della comparsa del settore industriale delle piccole imprese, che adesso non c’è in Russia, tramite la trasformazione dei centri industriali di monoproduzione in tanti centri industriali di piccole e medie imprese. Lo si è direttamente imposto nella strategia 2020 (fino all’anno 2020) e l’entrata nel WTO spingerà questo processo. Inoltre, dobbiamo concedere crediti alle piccole imprese non all’interesse del 20% annuo, ma almeno  allo stesso tasso come in Italia. Perciò bisogna modificare i principi dell’economia del Paese. Modificare i principi di funzionamento della Banca Centrale, dell’emissione interna e del funzionamento del sistema bancario. Che ci permette di ridurre l’interesse indirizzando le emissioni attraverso le banche e non attraverso la borsa. Oggi l’emissione viene effettuata dalla Banca centrale, tramite l’acquisto di dollari e di euro. Altri principi di emissione non esistono. Per le banche europee l’emissione viene effettuata attraverso il trasferimento del denaro tramite il sistema bancario in Europa. In Russia non esiste una possibilità del genere. Vogliamo cambiare i principi, rendendoli europei. In questo caso, se la banca centrale può ridurre il tasso all’1%, questo  permetterà di avviare un meccanismo del finanziamento dell’intera industria. Ciò è particolarmente utile per le piccole imprese. Le piccole imprese avranno accesso ai crediti al 3-5%. Per la Russia, questo significa una crescita enorme delle piccole imprese. In Russia ci sono tante persone creative, ma non hanno delle possibilità concrete di mettere in pratica le loro idee. Consideriamo quindi il WTO come una spinta verso la modernizzazione del Paese e non come un evento dal quale bisogna difendersi. Bisogna utilizzare questa energia per lo sviluppo del Paese, la sua trasformazione e modernizzazione.

 

(A cura di Antonio Grego e Danilo Della Valle)

L’INGRESSO NEL WTO: LE CONSEGUENZE PER LA RUSSIA. INTERVISTA CON SERGEJ BABURIN

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Intervista con Sergej Baburin, rettore dell’Università Statale Russa del commercio e dell’economia, ex deputato della Duma di Stato della Federazione Russa, ex vice-presidente della Duma, attualmente presidente del Comitato Russo di Solidarietà con i popoli della Libia e della Siria.

 

1. Dopo l’entrata della Russia nel WTO, quali sono le conseguenze geopolitiche nello scenario internazionale?

I principali effetti geopolitici e geo-economici  non sono correlati all’entrata della Russia nel WTO, ma al fatto che questa organizzazione si trovi in una crisi profonda. Il periodo attuale dell’economia mondiale è caratterizzato non solo dalla grande incertezza associata con la crisi economica, ma anche dalla crisi del multiculturalismo, dalla crisi della tolleranza nella società occidentale, dall’attivazione del fondamentalismo islamico, e dalla crisi della regolamentazione internazionale dei processi politici ed economici. Nessuna delle principali organizzazioni politiche internazionali, tra cui il WTO, può affrontare le sfide moderne.

A nostro parere, la crisi della regolamentazione internazionale è associata principalmente al fatto che tutte le principali organizzazioni internazionali, quali il WTO (ex GATT), le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, sono stati creati a metà del XX secolo, in un’altra situazione economica e politica. I rischi principali di quel periodo storico sono stati posti alla base dei regolatori nazionali. Nell’economia globale di oggi, i rischi nazionali (politici, economici, commerciali, ecc.) si sono allargati a livello globale, sono usciti verso i mercati globali. E le organizzazioni internazionali, tra cui il WTO, non hanno elaborato nuovi strumenti per affrontare i nuovi rischi globali. Ora quelle  stesse organizzazioni sono in crisi.

L’impossibilità di completare il “Doha round” all’interno dei negoziati commerciali internazionali del WTO lo conferma. Sorprendentemente, oltre ai processi interni del WTO, l’entrata della Russia in questa organizzazione certamente sposta gli accenti geopolitici. E sotto questo aspetto la Russia non cessa di partecipare alla formazione di un mondo multipolare, pretendendo di essere uno dei poli. E se oggi tra i leader ci sono gli Stati Uniti, la Cina, l’India, allora la Russia, attraverso l’integrazione dello spazio dell’ex Unione Sovietica, che avviene parallelamente all’adesione al WTO, attraverso i BRICS e lo SCO, si trova nuovi strumenti geopolitici in qualità di potenza consolidante dell’Eurasia.

 

2. L’entrata della Russia nel WTO ha fortemente diviso gli esperti, per alcuni la Russia poteva evitare di farlo avendo un mercato interno molto vasto, forte e vario, per altri invece era necessario. Secondo lei quella della Russia è stata una scelta obbligata, visto la presenza nel WTO di altre grandi economie, come quella cinese, o se ne poteva fare a meno?

La Russia occupa storicamente il suo posto prefissato nel sistema di divisione internazionale del lavoro. È già stato detto abbastanza sull’orientamento diretto prevalentemente alle materie prime delle esportazioni russe. Ma questo problema non significa che non ci si debba impegnare in varie organizzazioni internazionali, tra cui il WTO. Soprattutto questo ci da la possibilità di partecipare ai negoziati commerciali internazionali alla pari degli altri Paesi membri (e ce ne sono 154, sui quali passa oltre il 95% del commercio internazionale) sui problemi più urgenti del commercio moderno: sul commercio dei prodotti agricoli, sulla proprietà intellettuale, sulla gestione dell’accesso ai mercati, sugli acquisti statali, sulle sovvenzioni alle industrie, compresa la “green economy”.

Inoltre, a nostro parere, un risultato molto importante dell’entrata della Russia nel WTO è l’accesso alla tutela dei suoi interessi nell’Organo della risoluzione delle controversie. Come si sa, contro le società russe si fanno inchieste antidumping (oltre 120 procedure all’anno), si fissano dazi compensativi (un paio di miliardi di dollari l’anno), e prima dell’entrata nel WTO, i rappresentanti russi non potevano far valere in condizioni di parità le proprie posizioni e quasi sempre perdevano contro gli Stati e le imprese occidentali. Quindi l’entrata nel WTO è un passo che deve essere fatto nell’interesse della Russia, e non bisogna preoccuparsi del danno potenziale.

 

3. La Russia, da questa mossa, in quali settori trarrà maggior giovamento e dove invece avrà difficoltà? In particolare nei settori dell’agricoltura, dell’energia e dei servizi finanziari quali possono esser le previsioni?

Per quanto riguarda i settori e le zone in cui si può avere uno sviluppo, oppure al contrario una recessione, a nostro parere non dipende dal WTO, ma dalle strategie e programmi di sviluppo dell’economia dello Stato e delle regioni russe. Innanzitutto, questo significa implementare una politica economica competente che può e deve proteggere i settori più vulnerabili: l’agricoltura, la costruzione di automobili e aerei, l’industria alimentare e altri.  Inoltre attuare politiche di sovvenzionamento statale e finanziamento agevolato in conformità alla politica internazionale. Inoltre tenere un atteggiamento sobrio per eliminare le imprese non competitive. Così lo sviluppo non sarà dipendente dal WTO. Un compito decisivo è a carico del Presidente e del Primo Ministro della Russia.

 

 4. In alcuni paesi al momento dell’entrata nel WTO si sono verificate alcune difficoltà nel settore agricolo, il settore ha sofferto o è stato danneggiato. In America, ad esempio, il mercato è chiuso da barriere doganali. Quindi al momento dell’entrata nel WTO il suo settore agricolo non ha subito danni dato che in America c’è un sistema di protezione. E quali invece sono i rischi in questo settore per la Russia?

Naturalmente, per la Russia i rischi con l’entrata nel WTO aumentano per il settore agricolo. È stato un problema verificatosi anche in tutta l’Europa da est.

 

5. Come giudica le riforme politiche richieste dal WTO per accettare l’entrata della Russia nell’Organizzazione? Una opinione personale sul WTO: come giudica l’operato della stessa, può esser considerato il libero mercato un vantaggio per i popoli, o solo per alcuni stati e/o una elite della popolazione mondiale?

Innanzitutto spieghiamo cos’è il WTO. Il WTO è sempre esistito come un “club degli Stati ricchi”.

Si tratta di un fatto oggettivo. La liberalizzazione serve ai prodotti, alle aziende, ai Paesi, alle economie ricchi e competitivi. Della difesa (protezionismo) del mercato se ne parla, principalmente, nei Paesi non competitivi. Le conseguenze dell’entrata della Russia nel WTO sono un po’ diverse per il governo, il business, e la popolazione. Se la Federazione Russa nell’insieme ottiene un risultato positivo, per esempio, dopo l’entrata nel WTO, la Russia ha  accelerato la procedura di entrata nell’OECD, mentre le imprese orientate interamente all’esportazione ottengono di più rispetto alle imprese orientate all’importazione, e la popolazione, da un lato, ottiene generi alimentari e software più costosi (non considerando la produzione pirata), ma d’altra parte ottiene assicurazioni e servizi bancari più  economici e di qualità.

Ora parliamo delle riforme politiche. Le riforme politiche devono essere effettuate in Russia. Lo si può constatare dal fatto che per gran parte della popolazione il potere in Russia ha cessato di essere legittimo. È necessario ripristinare la fiducia nel governo, altrimenti il sistema politico smette di funzionare. Le persone non solamente  non vanno a votare, in realtà cessano persino di  rispettare le leggi.

Pertanto si tratta di fare una riforma costituzionale. Io personalmente spingo per una modifica costituzionale che permetta di ripristinare la correttezza e la trasparenza delle elezioni. Ripristinare il sistema elettorale delle elezioni miste, in base al quale alcuni membri del parlamento vanno eletti per distretto, e solo una parte in base alle liste di partito, e in via di principio rivedere la struttura degli organi rappresentativi superiori del potere. Sopprimere il Consiglio della Federazione e la Duma di Stato nella loro forma attuale, e formare un parlamento seguendo piuttosto l’esperienza del Supremo Consiglio della Federazione russa; e trasformare la Camera alta nel Consiglio di Stato, combinando le caratteristiche del Consiglio della Federazione e del Consiglio di Stato di oggi creando un’assemblea dei governatori. Tutto ciò sottolinea la necessità di considerare la riforma dello Stato russo in contemporanea con la formazione della Comunità economica eurasiatica, e le nostre relazioni con la Bielorussia. L’ironia politica è che il presidente Putin, essendo stato il capo del governo negli ultimi anni, poneva l’accento sullo spazio economico comune con la Bielorussia e il Kazakistan, mentre il presidente Medvedev nello stesso tempo parlava solo dell’entrata nel WTO senza Bielorussia e Kazakistan. Ora questa ambiguità non c’è. Putin ha unito nelle sue mani e la strategia e la tattica nell’economia e nella politica estera. Ma Medvedev lo ha costretto ad affrontare il fatto che la Russia è entrata nel WTO, ma potrebbe ora perdere lo spazio economico comune con la Bielorussia e il Kazakistan, se Bielorussia e Kazakistan rimangono indietro nell’entrare nel WTO. E quindi le riforme politiche si applicano a cambiamenti internazionali giuridici nello spazio ex-sovietico.

 

6. Come mai ci sono voluti i negoziati più lunghi della storia per ottenere l’entrata della Russia nel WTO? Se durante l’Urss era una questione ideologica, dopo quali sono stati i problemi principali che ne ostacolavano l’entrata?

La formazione del WTO nel suo aspetto attuale con il tempo ha coinciso con la distruzione dell’Unione Sovietica, quindi il tema dell’entrata nel WTO non esisteva per la Russia. Prima era impostata la questione dell’entrata nel GATT. Ma non era una questione politica. La durata dei negoziati per l’entrata della Russia nel WTO è legata a molti fattori, tra i quali si potrebbe chiamare il desiderio della delegazione russa di ottenere determinate preferenze. Non dobbiamo indulgere nell’opinione sbagliata che siamo entrati nel WTO a condizioni meno favorevoli rispetto a qualsiasi altro Paese. Il regime della nazione più favorita è unico per tutti. Ma ci sono difetti ed eccezioni, le cosiddette wavers.

Per esempio, la Russia ha ricevuto una serie di tali wavers riguardati il periodo agevolato (di transizione) per ridurre le tasse d’importazione che va fino a 9 anni, anche se come Paese sviluppato, avrebbe dovuto avere un periodo di transizione di 6 anni. Inoltre, non è escluso che la parte russa abbia sollecitato questi negoziati con lo scopo di rafforzare la competitività di alcune industrie, come l’industria automobilistica. Per gli Stati Uniti, che hanno sempre fatto il bello e cattivo tempo nel WTO, la questione dell’entrata della Russia è stata un oggetto di ricatto. La Russia è stata ammessa al WTO nel momento in cui la sua élite politica alla sostanza della questione ha cessato di aspirare ad entrare nel WTO, quando è iniziata a imporsi la posizione che l’entrata nel WTO non sia necessaria per la Russia e la Russia può viverne senza. Proprio in quel momento per la Russia hanno smesso di avanzare cambiamenti nelle condizioni e l’hanno accettata nel WTO. Perché altrimenti la Russia sarebbe andata a “nuotare da sola” e avrebbe cominciato a formare intorno a se una unione di Stati, che tenesse testa ai dirigenti del WTO. La Russia non membro del WTO, ma preservante i propri standard per tutti i prodotti fabbricati dentro il Paese, sarebbe un problema serio per il WTO in Eurasia.

 

7. La Georgia ha sempre posto il veto sull’entrata della Russia, poi è all’improvviso il veto è stato tolto. Perché?

Perché ha ricevuto indicazione dagli americani di revocare le obiezioni all’entrata della Russia.

 

8. Può dirci se ci sono ora, dopo l’entrata nel WTO, per le aziende russe condizioni agevolate oppure opportunità speciali per investire in Italia e in Europa, o per aumentare gli scambi commerciali?

Per quanto ne so io, non sono avvenuti grandi cambiamenti per gli investimenti in Europa con l’entrata della Russia nel WTO. Le condizioni che c’erano, sono rimaste, non si sono verificate condizioni più o meno agevolate. Negli ultimi 3-4 anni, gli investimenti russi nella zona del Mediterraneo sono sempre aumentati, anche se la Russia all’epoca non era nel WTO. Ma sono aumentati non perché gli imprenditori russi hanno voluto investire i loro soldi in Italia o nei Balcani, o a Cipro, ma perché i capitali russi fuggivano dalla stessa Russia. Con l’entrata nel WTO la situazione non è per adesso cambiata, perché è determinata dalla situazione interna della Russia stessa, indipendentemente dal WTO. Questo fatto è determinato dal corso non stabile dell’economia del governo di Medvedev e dall fatto che nella Russia di oggi, il livello di corruzione e irresponsabilità delle autorità è critico e ostacola la normale attività economica. Quindi l’entrata della Russia nel WTO per gli investimenti russi all’estero non non ha nessuna importanza.

 

(A cura di Antonio Grego e Danilo Della Valle)

L’UNITÀ DELL’EURASIA NELLA PROSPETTIVA DI FRIEDRICH NIETZSCHE

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“Noi, buoni Europei”

Di fronte ad un’Europa che ha santificato il “principio delle nazionalità”, per cui la stessa Germania identifica il Reich – l’Impero – con lo Stato tedesco, Nietzsche si riconferma ancora una volta come il grande Inattuale. Infatti, se da un lato egli respinge come fenomeno di décadence le astrazioni mondialiste, dall’altro vede nel piccolo nazionalismo, “questa névrose nationale, di cui l’Europa è malata”, la manifestazione di una “piccola politica” che rischia di “mantenere in eterno la divisione d’Europa in stati minuscoli”1. Alla “piccola politica” nazionale Nietzsche oppone una “grande politica”, la politica europea: “Noi siamo, in una parola – e deve essere, questa, la nostra parola d’onore! – buoni Europei, gli eredi dell’Europa, i ricchi, stracolmi, ma anche negli obblighi, smisuratamente ricchi eredi d’un millenario spirito europeo”2.

Questo spirito, lo spirito dell’Europa una, si è espresso nell’azione e nell’arte degli uomini più grandi del secolo, da Napoleone e Goethe fino a Wagner: “la vera direzione complessiva, nel misterioso lavoro della loro anima, fu quella di preparare la strada a questa nuova sintesi e di anticipare sperimentalmente l’Europeo dell’avvenire”3. Attraverso di loro, ha parlato “la volontà che l’Europa ha di unificarsi4.

Nonostante il “morboso estraneamento che l’insania nazionalista ha interposto e tuttora continua a interporre tra i popoli europei”5 e nonostante la miopia dei politici, l’unità europea è, secondo Nietzsche, un destino ineluttabile. Egli prevede che a realizzarlo saranno, oltre alla cultura, le necessità dell’economia e del commercio: “Il commercio e l’industria, lo scambio di libri e di lettere, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutar di luogo e di paese, l’odierna vita nomade di tutti coloro che non posseggono terra – queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee; sicché da esse tutte, in seguito ai continui incroci, dovrà nascere una razza mista, quella dell’uomo europeo”6.

Tuttavia l’Europa, che pure “vorrebbe rappresentare a tutti i costi, rispetto all’Asia, il ‘progresso degli uomini’”, in fondo non è se non una “penisoletta avanzata” dell’Asia7. Tra Europa ed Asia infatti non esiste soluzione di continuità: a saldarle è la Russia, l’”immenso impero intermedio”8.  Nietzsche, che non nasconde la propria ammirazione per certi aspetti del “genio slavo”, da una parte evoca la possibilità di un’alleanza russo-tedesca, dall’altra auspica che la Russia diventi sempre più minacciosa e costringa l’Europa a farla finita con la “piccola politica”; così l’Europa potrà acquisire “una volontà unica (…) in grado di proporsi mete al di là dei millenni – affinché finalmente la commedia, protrattasi anche troppo, della sua congerie di staterelli nonché la molteplicità dei suoi velleitarismi dinastici e democratici giunga infine a un epilogo”9.

La complementarità dell’Europa e dell’Asia è affermata da Nietzsche fin dall’epoca della Nascita della tragedia. Il rapporto tra Apollo e Dioniso, tra poesia e musica, tra coscienza e istinto, è visto da lui anche come un rapporto tra l’Europa e l’Asia, poiché “i cori bacchici dei greci (…) hanno la loro preistoria nell’Asia Minore, su su fino a Babilonia e alle feste orgiastiche sacee”10, sicché la tragedia, nella quale trovano la loro sintesi queste opposte polarità, potrà risvegliarsi solo se gli Europei si incoroneranno d’edera, afferreranno il tirso e accompagneranno “il festoso corteo dionisiaco dall’India alla Grecia”11.

 

 

Nietzsche e la civiltà indù

Quando Nietzsche, nel 1881, appone in epigrafe ad Aurora un verso del Rigveda (“Vi sono tante aurore che ancora devono risplendere”), la civiltà indiana è da tempo oggetto del suo interesse: già nel periodo compreso fra il 1875 e il 1878 egli ha preso in prestito dalla biblioteca dell’Università di Basilea il libro dell’indianista Martin Haug (1827-1876) su Brahma e i brahmani. In Aurora, dopo aver abbozzato un breve paragone tra “Brahmanesimo e cristianesimo12, propone l’India a modello dell’Europa: “Per quanto possa essere progredita, l’Europa non ha ancora raggiunto nelle questioni religiose la liberale ingenuità degli antichi brahmani (…) quanto è ancor lontana l’Europa da questo grado di civiltà! (…) cerchiamo piuttosto, per prima cosa, di fare in modo che l’Europa ripeta ciò che in India, tra il popolo dei pensatori, già alcuni millenni or sono fu realizzato come imperativo del pensiero”13. Sempre in Aurora viene fatto cenno alla storia del re Viçvamitra, sulla quale nel 1887 ritornerà la dissertazione di Genealogia della morale dedicata agli ideali ascetici, quella stessa in cui Nietzsche indica con orgoglio una sua autorevole fonte: “il primo vero conoscitore della filosofia indiana in Europa, il [suo] amico Paul Deussen”14, che in quello stesso anno, il 1887, pubblica Die Sûtras des Vedânta.

In particolare, si sa dei giudizi entusiasti espressi da Nietzsche per le Leggi di Manu, a lui probabilmente note dalla versione del Mânavadharmaśâstra che, eseguita da Sir William Jones, fu tradotta in tedesco e pubblicata a Weimar nel 1797. Nel Codice di Manu, leggiamo nel Crepuscolo degli idoli, “è stabilito il compito di allevare tutte insieme non meno di quattro razze: una sacerdotale, una guerriera, una di mercanti e di contadini, infine una razza di servi, i Sudra. Evidentemente non siamo più qui tra domatori di animali: un tipo umano cento volte più mite e più razionale è il presupposto per concepire quanto è anche soltanto il progetto di un simile allevamento. Si tira un sospiro nell’uscire dall’atmosfera infetta e carceraria del cristianesimo per entrare in questo mondo più sano, più elevato, più vasto. Quanto è miserabile il ‘Nuovo Testamento’ a confronto con Manu, che cattivo odore è il suo! – Ma anche per questa organizzazione fu necessario essere terribili – non già, questa volta, nella lotta con la bestia, bensì con il suo concetto antitetico, l’uomo-non-da-allevamento, l’uomo ibrido, il Ciandala. E a sua volta tale organizzazione non aveva alcun altro mezzo per renderlo innocuo e indebolirlo, salvo quello di renderlo malato – fu quella la battaglia contro il ‘gran numero’”15.

Il ricorso al Codice di Manu quale arma contro il cristianesimo prosegue nell’Anticristo: “Si coglie in flagranti l’empietà dei mezzi cristiani, se si commisura il fine cristiano con il fine del codice di Manu”16. Infatti, mentre il cristianesimo ha “soltanto scopi cattivi“, il Codice di Manu è “un’opera incomparabilmente spirituale e superiore, e anche soltanto il nominarla insieme con la Bibbia sarebbe un peccato contro lo spirito17. Alla Scrittura giudaico-cristiana, “maleodorante di rabbinismo e superstizione”, Nietzsche contrappone il Codice di Manu, il cui significato viene riassunto nei termini seguenti: “valori aristocratici ovunque, un senso di compiutezza, un dire-di-sì alla vita, un trionfante benefico senso di sé e della vita – su tutto il libro sta il sole18.

Ma l’incontro di Nietzsche con l’India non si esaurisce qui. Secondo Ananda K. Coomaraswamy, il pensiero nietzschiano converge con l’induismo nell’indicare come ideale supremo il superamento della condizione umana, sicché l’ideale nietzschiano dell’Übermensch troverebbe puntuale riscontro in analoghe figure della cultura spirituale indù: “La sua mirabile dottrina del Superuomo – che presenta una così grande somiglianza col concetto cinese dell’Uomo Superiore e col Mahâ Purusha, il Bodhisattva e il Jîvan-mukta dell’India – (…) è apparsa continuamente nella storia del mondo. Per designare questo ideale, la letteratura indù ha tutta una serie di termini: è l’Arhat (adepto), il Buddha (illuminato), il Jina (conquistatore), il Tirthakara (scopritore del guado), il Bodhisattva (incarnazione della virtù dispensatrice) e soprattutto il Jîvan-mukta (liberato in questa vita), le cui azioni non sono più né buone né cattive, ma procedono dalla sua natura liberata”19. Collocando al di là del bene e del male l’agire del Superuomo, Nietzsche formula in altri termini una dottrina contenuta nei testi sapienziali indù. “La Volontà di Potenza – prosegue il grande erudito anglo-indiano – afferma che la nostra vita non deve esser governata da motivi di piacere o di dolore, ‘le coppie dei contrari’, ma che deve dirigersi verso il suo scopo, cioè la libertà e la spontaneità del Jîvan-mukta. E questo scopo è al di là del bene e del male. Così lo espone anche la Bhagavad Gîtâ: l’eroe deve essere superiore alla pietà (açocyân anvaçocas tvam), risoluto per la lotta, ma senza attaccamento al risultato. (…) L’insegnamento di Nietzsche è un puro nishkâma dharma: ‘Mi affatico dietro la felicità? Io mi affatico dietro il mio compito‘”20.

 

 

Nietzsche e il buddhismo

“Non c’è fede religiosa – è stato osservato da Charles Andler – che più del buddhismo Nietzsche abbia studiata con passione”21. Il motivo di una tale preferenza, secondo un altro studioso, dev’essere ricercato nel “profumo aristocratico di questa dottrina, la quale propone un superamento della morale, delle forme, affermando che è possibile, al termine di un lungo e difficile cammino, trascendere la condizione umana”22.

L’attenzione per il buddhismo – Nietzsche aveva letto il libro di Oldenberg23 – emerge già nelle annotazioni del 1875-’76: “Andate e nascondete le vostre buone azioni e confessate davanti alla gente i peccati che avete fatto. Buddha”24. Ma “uno che, secondo il precetto di Buddha, abbia nascosto il suo bene davanti alla gente e le abbia lasciato vedere solo il suo male”25, prosegue Nietzsche, non è mai esistito, mentre è molto più facile applicare l’insegnamento contenuto nel Vangelo di Matteo: “Fate vedere alla gente le vostre buone azioni”26. Se nel buddhismo prevale un orientamento spirituale rivolto alla conoscenza, il cristianesimo si caratterizza invece in senso moralistico e giudiziario: “i santi indiani (…) stanno a un gradino intermedio fra il santo cristiano e il filosofo greco (…): la conoscenza, la scienza – nella misura in cui esse esistevano -, l’elevazione al di sopra degli altri uomini, attraverso la disciplina e l’educazione del pensiero, furono richieste dai buddhisti come segno di santità, allo stesso modo in cui le stesse qualità vengono negate e bollate nel mondo cristiano come segno di non santità”27. Il confronto prosegue con la contrapposizione del diverso atteggiamento di cristiani e buddhisti riguardo a guerra e violenza: “La storia del cristianesimo (…), contrariamente alla morale buddhistica dei popoli che mangiano il riso, è piena zeppa di violenza e gronda sangue”28. Ma è stato proprio questo carattere pacifico del buddhismo, osserva Nietzsche, a condannare l’India ad una posizione marginale rispetto agli altri Paesi: “Quando il buddhismo si oppose alle guerre con la sua mite morale da mangiatori di riso, l’India fu cancellata dalla storia delle potenze civili”29.

La valutazione positiva del buddhismo induce Nietzsche ad auspicare un rinnovamento dell’Europa per effetto di una “religione dell’autoredenzione” come quella insegnata dal Buddha: “Un passo avanti: e gli dèi furono gettati da parte – e questo l’Europa dovrà pur fare una buona volta! Un altro passo avanti: e anche i preti e i mediatori non furono più necessari, e comparve Buddha ad insegnare la religione dell’autoredenzione - quanto è ancor lontana l’Europa da questo grado di civiltà! (…) Non cerchiamo d’indovinare, ma cerchiamo piuttosto, per prima cosa, di fare in modo che l’Europa ripeta ciò che in India, tra il popolo dei pensatori, già alcuni millenni or sono fu realizzato come imperativo del pensiero”30.

Successivamente la prospettiva di Nietzsche cambia, tanto che il buddhismo viene coinvolto assieme al cristianesimo in un unico giudizio negativo. Nella Gaia scienza leggiamo: “le due religioni mondiali, il buddhismo e il cristianesimo, potrebbero aver avuto la loro base d’origine, e a un tempo il segreto della loro repentina diffusione, in una mostruosa malattia della volontà. E in verità così è accaduto: entrambe queste religioni s’imbatterono nell’esigenza di un ‘tu devi’ innalzata all’assurdo da una malattia della volontà, e progrediente fino alla disperazione; entrambe queste religioni furono maestre di fanatismo in epoche di snervamento della volontà e pertanto offrirono a innumerevoli uomini un appoggio, una nuova possibilità di volere, un godimento nel volere”31. E in Al di là del bene e del male: “Forse non c’è nulla di più venerando, nel cristianesimo e nel buddhismo, della loro arte di ammaestrare le creature più umili a collocarsi, attraverso la devozione, in un apparente ordine superiore di cose, e di tener stretto, in tal modo, a sé quel loro contentarsi dell’ordine reale, all’interno del quale esse vivono abbastanza duramente – e proprio questa durezza è necessaria!”32.

Nella primavera 1888, nel quadro di una schematica valutazione delle grandi religioni, Nietzsche tenta un sintetico raffronto fra la dottrina del Buddha e quella di Paolo: “Come si presenta una religione semitica negativa, come prodotto delle classi oppresse: il Nuovo Testamento – una religione da ciandala. Come si presenta una religione ariana negativa, sviluppatasi tra le classi dominanti: il buddhismo”33. Nell’Anticristo, dove di lì a poco il raffronto viene ampiamente sviluppato, le due dottrine si trovano accomunate in quanto “religioni nichilistiche (…) religioni della décadence34, però vengono stabilite delle differenze fondamentali: “Il buddhismo è cento volte più realistico del cristianesimo (…) è la sola religione veramente positivistica che ci mostri la storia; (…) esso sta, parlando nella mia lingua, al di là del bene e del male”35. Libera da condizionamenti moralistici, la dottrina del Buddha “non richiede alcuna lotta contro coloro che pensano diversamente; ciò da cui maggiormente si difende (…), è il sentimento della vendetta, dell’avversione, del ressentiment36. Questi istinti, tipici degli humiliores e degli oppressi, emergono nel cristianesimo, mentre il buddhismo reca ben visibile l’impronta nobile di quegli ambienti sociali superiori e dotti da cui esso ha tratto origine. La contrapposizione si protrae nei paragrafi 21-23, fino a concludersi, all’inizio del § 42, con questo giudizio: “il buddhismo non promette, ma mantiene, il cristianesimo promette tutto, ma non mantiene nulla37.

 

 

Nietzsche e l’Islam

Nello schema delle religioni abbozzato da Nietzsche trova posto ovviamente anche l’Islam. Pur avendo in comune col buddhismo il fatto di esser nato in ambienti sociali superiori e col cristianesimo il fatto di aver preso inizialmente forma in seno ad un popolo semitico, l’Islam è però, diversamente da queste due religioni, una religione “affermativa38, dato il suo caratteristico dir di sì alla vita.

Significativo a tale proposito è l’aforisma 100 di Umano, troppo umano, nel quale troviamo il primo riferimento di Nietzsche alla cultura islamica. Al fine di mostrare come il pudore sia un sentimento che l’homo religiosus avverte in prossimità di un mistero, Nietzsche spiega che, data la sacralizzazione del sesso tipica delle civiltà tradizionali, presso le società musulmane la camera nuziale “si chiama harem, ‘santuario’, viene cioè designata con la stessa parola che è usata per i vestiboli delle moschee”39.

Vi è poi un’altra istituzione storica delle società musulmane che rivela a Nietzsche un atteggiamento affermativo nei confronti della vita: l’hammam. Imputando al cristianesimo il disprezzo del corpo e l’ostilità per l’igiene, Nietzsche ricorda che “la prima misura adottata dai cristiani, dopo la cacciata dei Mori, fu la chiusura dei bagni pubblici, mentre la sola Cordova ne possedeva 270″40. La cancellazione dell’Islam dalla penisola iberica, un disastro paragonabile alla distruzione della civiltà greco-romana, ispira a Nietzsche un infuocato atto d’accusa nei confronti del cristianesimo. Quest’ultimo “ci ha defraudato del raccolto della civiltà antica; e più tardi ci ha defraudato di quello della civiltà islamica. Il meraviglioso mondo della civiltà moresca di Spagna, a noi in fondo più affine, più eloquente ai nostri sensi e al nostro gusto di quanto non lo siano Roma e la Grecia, fu calpestato – non dico da che specie di piedi – perché? Perché doveva la sua origine a istinti aristocratici, virili, perché diceva sì alla vita anche con le rare e raffinate preziosità della vita moresca!…”41.

Con le Crociate, prosegue Nietzsche, fu poi aggredita una civiltà che era superiore non soltanto alla civiltà cristiana coeva, ma anche a quella dell’Europa moderna. “In seguito i crociati combatterono qualcosa, di fronte a cui sarebbe stato più conveniente per essi prostrarsi nella polvere, – una civiltà rispetto alla quale persino il nostro secolo diciannovesimo potrebbe sembrare molto povero, molto ‘tardo’. – Indubbiamente essi volevano saccheggiare: l’Oriente era ricco… Si sia dunque imparziali! Le crociate – una superiore pirateria e null’altro!”42. Il più grande tra gl’imperatori di nazione germanica fu perciò Federico II di Svevia, colui che rifiutò di portare le armi contro l’Islam e le rivolse contro il potere papale. “‘Guerra senza quartiere a Roma! Pace, amicizia con l’Islam’: non fu così che sentì e operò quel grande spirito libero, il genio tra gli imperatori tedeschi, Federico secondo?”43.

 

 

Nietzsche e la Persia

È opinione comunemente accettata che lo Zarathustra nietzschiano abbia poco o nulla in comune con l’omonimo profeta iranico. Per gl’interpreti del filosofo, “Zarathustra è Nietzsche, il Nietzsche mai accettato e riconosciuto dalla propria epoca. (…) Il paesaggio di Zarathustra non corrisponde alla Persia né a un qualsiasi paese immaginario. (…) È il paesaggio spirituale dell’Europa in cui viviamo oggi”44. Per gli studiosi della civiltà iranica, lo Zarathustra di Nietzsche “non dovrà nulla al profeta dell’Iran all’infuori del nome, scelto per il suo esotismo”45. Tuttavia non è mancato chi ha sostenuto che “l’eroe di Friedrich Nietzsche (…), non prendendo nulla a prestito dalla filosofia e nemmeno dalla storia tradizionale, nella sua ricerca del superuomo si rivela talvolta più ‘zarathustriano’”46 di quanto generalmente si ritenga. D’altronde è un dato di fatto, come ha osservato Henry Corbin, che “dal filosofo bizantino Gemisto Pletone (…) fino allo Zarathustra col quale si identifica Nietzsche”47, passando per l’Opus postumum di Kant e la Fenomenologia dello spirito di Hegel, la filosofia europea ha valorizzato i temi dell’antico Iran, presentandone il profeta in una luce volta a volta diversa.

Nietzsche, da parte sua, attinse le proprie conoscenze sullo zoroastrismo da diverse fonti. Nel De Iside et Osiride di Plutarco (369E-370C) trovò attestata la dottrina dell’alterno dominio di Ahura Mazda e di Ahriman. Nei Saggi di Ralph Waldo Emerson (1802-1882) trovò un brano in cui Zarathustra viene riconosciuto come colui dal quale “non può provenire che la verità”. Ma soprattutto egli lesse, tra il 1875 e il 1878, l’Eranische Alterthumskunde48 di Friedrich von Spiegel (1820-1905), che era stato professore all’università di Erlangen dal 1849 al 1890, aveva tradotto l’Avesta49 e aveva pubblicato numerosi studi di iranistica, tra i quali una biografia di Zarathustra uscita nel 186750. Grazie ai lavori di iranisti come Von Spiegel e come Martin Haug (1827-1876), Nietzsche poté considerare Zarathustra “un riformatore importantissimo nella storia del pensiero, in quanto si trova all’origine di idee fondamentali come quella dell’eterno ritorno. Nietzsche riprese il nome illustre di un iniziatore per darlo al suo personaggio, che vuol essere pure lui l’iniziatore e il fondatore di una nuova era e di una nuova umanità”51.

In questo modo il profeta dell’Iran diventò, assieme ad altri personaggi fondamentali della storia umana, un antenato spirituale dello stesso Nietzsche: “Il mio orgoglio invece è che ‘io ho un’origine’, sicché non ho bisogno della gloria. Vivo anche in ciò che muoveva Zarathustra, Mosè, Maometto, Gesù, Bruto, Spinoza, Mirabeau; così, sotto diversi riguardi, in me per la prima volta maturano e vengono alla luce embrioni che hanno avuto bisogno di un paio di millenni”52.

Tra questi personaggi, Zarathustra era quello che meglio si adattava a rappresentare l’opera di Nietzsche come l’inizio di una nuova visione della storia: “Ho dovuto rendere onore a Zarathustra, a un Persiano; i Persiani infatti hanno per primi pensato la storia in tutta la sua grandiosità. Una successione di sviluppi, ciascuno dei quali è presieduto da un profeta. Ogni profeta regge un hazar, ovvero un regno di mille anni”53.

Henry Corbin ritrova l’eco di questa frase di Nietzsche, che assegna ai Persiani il primato della filosofia della storia, nella dichiarazione di un orientalista: “Solo lo spirito iranico è pervenuto ad attribuire al male un’origine metafisica e a dar conto dell’opposizione del bene e del male mediante un dualismo netto e definitivo”54. A tale affermazione bisogna però obiettare che il riconoscimento dell’origine metafisica del bene e del male esclude logicamente il carattere “netto e definitivo” della dualità, in quanto il livello morale viene trasceso da quello metafisico, che per ciò stesso si trova al di là del bene e del male. Opportunamente quindi Corbin ripete le parole di Adler, secondo cui Nietzsche era un “inconsapevole Parsi zervânita55, ossia un seguace della dottrina che identifica Zervân akanârak, il Tempo assoluto al di là degli dèi del Bene e del Male, col Principio uno ed unico dell’esistenza totale.

 

 

 

                                                                                                                                                    

NOTE:

1.  F. Nietzsche, Ecce homo, Il caso Wagner, 2, Newton Compton, Roma 1978, p. 116.

2.  F. Nietzsche, La gaia scienza, 377, Adelphi, Milano 1977, p. 314.

3.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, VIII, 256, Adelphi, Milano 1977, p. 171.

4.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., ibidem.

5.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., ibidem.

6.  F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), Parte ottava, 475, Oscar Mondadori, Milano 1970, vol. I, p. 247.

7.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, III, 52, cit., p. 59.

8.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, VI, 208, cit., p. 115.

9.  F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., ibidem.

10. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Longanesi, Milano 1976, p. 25.

11. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 141.

12. F. Nietzsche, Aurora e scelta di frammenti postumi (1879-1881), Libro primo, 65, Oscar Mondadori, Milano 1971, p. 48.

13. F. Nietzsche, Aurora e scelta di frammenti postumi (1879-1881), Libro primo, 96, cit., pp. 65-66.

14. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Terza dissertazione, 17, Adelphi, Milano 1990, p. 128.

15. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero Come si filosofa col martello, “‘Quelli che migliorano’ l’umanità”, 3, Adelphi, Milano 1983, p. 68.

16. F. Nietzsche, L’anticristo, 57, Adelphi, Milano 1975, p. 83.

17. F. Nietzsche, L’anticristo, 56, cit., p. 82.

18. F. Nietzsche, L’anticristo, cit., ibidem.

19. A. K. Coomaraswamy, La danse de Shiva, Editions d’aujourd’hui, Paris 1984, pp. 212-213.

20. A. K. Coomaraswamy, La danse de Shiva, cit., p. 217.

21. Ch. Andler, Nietzsche, sa vie et sa pensée, t. II, Gallimard, Paris 1979, p. 414. Sul rapporto di Nietzsche col buddhismo esiste tutta una bibliografia: A. W. Rudolph, Nietzsche: Buddhism and Nihilism and Christianity, “Philosophy Today”, 13 (1969), pp. 34-42; Okochi, Nietzsches amor fati im Lichte von Karma des Buddhismus, “Nietzsche Studien” (1972), pp. 36-94; Abe Masao, Zen and Nietzsche, “The Eastern Buddhist”, 6 (1973), pp. 14-32; A. M. Frazier, A European Buddhism, “Philosophy East and West”, 25 (1975), pp. 145-160; B. Nanajivako, The Philosophy of Disgust, Buddha and Nietzsche, “Schopenhauer Jahrbuch”, 58 (1977), pp. 112-132; G. Pasqualotto, Nietzsche e il buddhismo zen, in AA. VV., Nietzsche. Verità-interpretazione. Alcuni esiti della rilettura, Tilgher, Genova 1983, pp. 155-188.

22. C. Levalois, Préface, in: C. Mutti, Nietzsche et l’Islam, Editions Hérode, Chalon sur Saône 1994, p. 10.

23. H. Oldenberg, Buddha. Sein Leben, seine Lehre, seine Gemeinde, Berlin 1881. Ne sono citati due passi in Genealogia della morale, Terza dissertazione, 7, cit., p. 100; un’altra breve citazione si trova in Anticristo, cit., p. 24.

24. F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth e Frammenti postumi (1875-1876), Adelphi, Milano 1967, p. 87, framm. 3.1..

25. F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), § 607, cit., vol. I, p. 274.

26. F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), cit., vol. I, p. 380, nota 607.

27. F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), § 144, cit., vol. I, pp. 108-109.

28. F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), cit., vol. I, fr. 23 [103], p. 342.

29. F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), cit., vol. I, fr. 22 [92], p. 330.

30. F. Nietzsche, Aurora e scelta di frammenti postumi (1879-1881), Libro primo, 96, cit., pp. 67-68.

31. F. Nietzsche, La gaia scienza, § 347, Adelphi, Milano 1977, pp. 261-262.

32. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, III, 61, cit., p. 67.

33. F. Nietzsche, L’anticristo e scelta di frammenti postumi (1887-1888), framm. 14.195, Mondadori, Milano 1974, p. 170. Cfr. Christianismi et buddhismi essentia: F. Nietzsche, La volontà di potenza, fr. 367, Newton Compton, Roma 1984, p. 143.

34. F. Nietzsche, L’anticristo, 20, cit., p. 22.

35. F. Nietzsche, L’anticristo, 20, cit., pp. 22-23.

36. F. Nietzsche, L’anticristo, 20, cit., pp. 23-24.

37. F. Nietzsche, L’anticristo, 42, cit., p. 55.

38. F. Nietzsche, L’anticristo e scelta di frammenti postumi (1887-1888), framm. 14.195, cit., ibidem.

39. F. Nietzsche, Umano, troppo umano e scelta di frammenti postumi (1878-1879), Parte seconda, 100, cit., vol. I, p. 73.

40. F. Nietzsche, L’anticristo, 21, cit., p. 25.

41. F. Nietzsche, L’anticristo, 60, cit., p. 92.

42. F. Nietzsche, L’anticristo, 60, cit., pp. 92-93.

43. F. Nietzsche, L’anticristo, 60, cit., p. 93. – Per una più completa ricostruzione del rapporto di Nietzsche con l’Islam, rinvio il lettore al mio saggio su Nietzsche e l’Islam, in: C. Mutti, Avium voces, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1998, pp. 43-66.

44. A. Baeumler, L’innocenza del divenire. Scritti nietzscheani, Edizioni di Ar, Padova 2003, p. 116.

45. J. Varenne, Zarathustra. Storia e leggenda di un profeta, Convivio-Nardini, Firenze 1991, p. 7.

46. P. du Breuil, Zarathoustra et la transfiguration du monde, Payot, Paris 1978, pp. 10-11.

47. H. Corbin, L’Iran e la filosofia, Guida, Napoli 1992, p. 56.

48. F. Spiegel, Eranische Alterthumskunde. I: Geographie, Ethnographie und a”lteste Geschichte. II: Religion, Geschichte bis zum Tode Alexanders des Grossen. III: Geschichte, Staats- und Familienleben, Wissenschaft und Kunst, 3 voll., Wilhelm Engelmann, Leipzig 1871-1878.

49. F. Spiegel, Avesta: die heiligen Schriften der Parsen, aus dem Grundtexte übersetzt, mit steter Ru”cksicht auf die Tradition, 3 voll., Leipzig 1852-1863; F. Spiegel, Commentar über das Avesta, 2 voll., Wien 1864-1868.

50. F. Spiegel, Über das Leben Zarathustras. 1. Quellen. 2. Der Name Zarathustra. 3. Zeitalter des Z. 4. Vaterland des Z. 5. Abstammung und Jugendgeschichte Z’s. 6. Vorbereitung und öffentliches Auftreten Z’s. 7. Z’s Aufenthalt in Baktrien. 8. Schlussbemerkungen-Anhang: Die Magier und die Athravas, S.B.A.W., München 1867.

51. C. Levalois, Préface, cit., p. 12.

52. KSA 9, 642; FP 1881-’82, 433.

53. KSJ 11, 53; FP 1884 VII, II, 44.

54. H. S. Nyberg, Questions de cosmogonie et de cosmologie mazdéennes, “Journal asiatique”, CCXIX (1931), 3, p. 30.

55. H. Corbin, L’Iran e la filosofia, cit., p. 61.

 

MAVI MARMARA, LA TURCHIA CERCA GIUSTIZIA

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Caso Mavi Marmara: si è aperto a Istanbul nei giorni scorsi il procedimento giudiziario contro i massimi responsabili all’epoca dei fatti (maggio 2010) delle Forze Armate israeliane: il capo di stato maggiore dell’Esercito, Gabiel Ashkenazi, quello della Marina, Eliezer Alfred Marom e quello dell’Aviazione, Avishai Levi. Sul banco degli imputati – tutti assenti e contumaci, ovviamente – anche il capo dei Servizi di intelligence delle Forze Armate, Amos Yadlin e il generale Aluf Tal Russo.

La clamorosa iniziativa turca ha suscitato il risentimento di Tel Aviv, che – per bocca di un portavoce del ministro degli Esteri –ha tacciato di “farsa”  il processo, in coerenza con l’atteggiamento sprezzante e di chiusura assoluta al riconoscimento di responsabilità tenuto dal governo israeliano da quel 31 maggio 2010.

Quel giorno furono 9 i morti fra i viaggiatori della nave turca assaltata in acque internazionali dagli israeliani mentre cercava di portare aiuti alimentari e di primo soccorso alla striscia di Gaza, posta sotto blocco militare da Tel Aviv. Gli altri presenti sulla nave furono arrestati, portati in territorio israeliano e poi espulsi dopo maltrattamenti. Si registrarono nell’occasione anche 40 feriti gravi, di cui uno – Uğur Sűleyman Soylemez, un quarantanovenne di Ankara– in coma ancora oggi.

Le reazioni internazionali – in particolare quelle occidentali – furono generalmente blande e improntate a disimpegno, mentre il rapporto Palmer dell’ONU riconosceva un uso “eccessivo” e “irragionevole” della forza da parte israeliana pur in presenza – così si asseriva nel rapporto – di un “blocco legittimo” imposto a Gaza.

Per l’opinione pubblica turca l’impatto della tragedia fu e resta enorme, amplificata per l’appunto dalla sostanziale indifferenza da parte occidentale e dal fatto che le successive richieste di scuse e di indennizzi per le vittime rivolte da Ankara a Tel Aviv sono rimaste lettera morta, così come è proseguito il blocco nei confronti dei reclusi a cielo aperto di Gaza.

Le richieste di condanna del pubblico ministero potrebbero comportare anche sentenze di ergastolo, con possibile emissione di ordini di arresto internazionali, ma soprattutto con un definitivo tracollo delle relazioni fra Turchia e Israele. “Tutto è ora in mano alla Corte”, ha sottolineato il vicepresidente dell’IHH (l’organizzazione che predispose la missione della Mavi Marmara), Hűseyin Oruç, mentre un migliaio di manifestanti si è riunito davanti al Tribunale chiedendo giustizia per i nove connazionali assassinati

Nel frattempo la Turchia ha annullato l’acquisto di alcuni droni tattici israeliani Aerostar, e – a quanto riferisce il quotidiano Zaman – il Primo ministro Erdoğan ha preannunciato una sua visita a Gaza in compagnia dell’ex Presidente palestinese Mahmoud Abbas, allo scopo di cercare di sanare le tensioni fra Fatah e Hamas e di offrire solidarietà alla popolazione palestinese.

АНРИ КОРБЕН: ЕВРАЗИЯ КАК ДУХОВНЫЙ КОНЦЕПТ

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Анри Корбен: Евразия как духовный концепт[1]

 

От Ирландии до Японии

Анри Корбен (1903-1978) всегда уделял «особое внимание»[2] задаче, сформулированной Полем Массоном-Урселем и положенной им в основу программы «Сравнительной философии» (1923) и развитой в «Философии Востока»[3] (1948) – «Выявлять и исследовать связи и силовые линии, образующие ткань духовного концепта Евразии от Ирландии до Японии»[4]. По ту сторону географических и исторических ограничений концепт Евразии являет собой «метафору духовного и культурного единства, которая должна заместить собой понятие «христианской эйкумены» и вытеснить его»[5]. Таковы по меньшей мере выводы одного ученого, который увидел в работах Корбена возможность осуществления «великого делания сравнительной духовной герменевтики, которая представляла бы собой поиск евразийской философии, точнее, евразийской мудрости»[6]. Иными словами, геофизическая категория «Евразия» есть не что иное, как проекция геософской реальности, сопряженной с изначальным Единством, поскольку «Евразия во внутреннем измерении, в пейзаже души или в пространстве Хварено («Света Славы», согласно маздеистской лексике), есть Ангелическое Познание (Cognito Angelorum), автологическоая операция Совершенного Человека (Anthropos Teleios); и в конечном счете, это единство между Светом Природы (Lumen Naturae) и Светом Славы (Lumen Gloriae). Откуда возможность соотнести Внутреннюю Евразию с имажинальным познанием Земли как Ангела».[7]

Сам Корбен ссылается на визионерский опыт немецкого философа Густава Теодора Фехнера, который отождествляет с Ангелом лик земли, окруженный сиянием славы, цитируя соответствующий пассаж из авестийского ритуала: «Мы отмечаем этот обряд во славу Земли и во славу Ангела»[8]. На самом деле, согласно маздеистской доктрине Земля воспринимается через личность ее Ангела, то есть душа, проецирующая образ самой себя, конструирует Образ Земли (Imago Terrae), который ее отражает. Маздеистская ангелология передает мистерию такой проекции в следующих терминах: Спента Армаити, женский Архангел земного существования есть мать Даэны, женского Ангела, представляющего собой субстанцию Небесной Души (Anima caelestis) или Тела Славы. Таким образом, «сама формулировка геофизической категории «Евразия» относится к процессу Палингенезиса, то есть Воскрешению Света Преображения»[9].

Маздеистская геософия, тесно сопряженная с софиологическим аспектом Спента Армаити, относится в первую очередь к Небесной Земле (Terra caeleste); спроецировнная на земное пространства, она дает круг, kyklos, orbis, аналогичный щиту Ахилла у Гомера или щиту Энея у Виргилия[10]. В иранском символизме этому соответствует другой атрибут «Универсального Человека» (insân-e kâmil), чаша Джамшида. Изображаемая таким образом, Земля окружена Космическим Океаном и разделена на семь зон (keshvar)[11] В центре расположено Хванирата (Xvaniratha), «световое колесо»; там находится Аирьянем Ваэджа (Airyanem Vaejah или на пехлеви  Erân-Vêj), колыбель или исток первых Ариев (=Иранцев). Там были сотворены Кайаниды, легендарные герои; там была основана маздеистская религия, оттуда она распространилась в иных зонах (кешварах). Там родится последний спаситель Саошьянт, который низведет к бессилию Арихмана, осуществит воскресение и даст счастливое бытие»[12]. Будучи расположенным в центре земной поверхности, Иран оказывается не только географической, но и духовной осью[13] евразийской эйкумены.

Эти маздеистские представления, в последствии переработанные, стали частью культурного наследия, включенного Ираном в исламские представления. В книге «Кита даль-Тафхим»[14] (Kitâb al-Tafhîm) Абу Рьяхана Мухаммада ибн Ахмада Бируни (362/973 – 421/1030) дается схема, где центральный круг, Иран, окружен шестью другими кругами, касающимися друг друга и соответствующими остальным регионам: 1) Индия, 2 Аравия и Абиссиния,3)  Сирия и Египет, 4) славяно-визнатиский ареал, 5) Туркестан, 6) Китай и Тибет.

 

 

Восток и Запад

Согласно исламской перспективе в центре мира располагается Ка’аба, самый древний из храмов Божества, воздвигнутый в эпоху Адама, а затем перестроенный Авраамом в его современном виде. О плане и структуре этого примордиального и центрального святилища размышлял в первой главе своей книги «Эзотерический смысл паломничества»[15] (Kitâb asrâr al-Hajj) Кази Са’ид Комми (1042/1633 – 1103/1691-’92), глубоко и детально изученной Корбеном. Корбен разъяснял: «Принцип всегда одинаков: световые формы (sowar nûrîya), высшие фигуры впечатаны в реальность того, что их отражает как зеркало (заметим, что с геометрической точки зрения это справедливо и для греческих храмов)»[16]. На высшем уровне реальности располагаются четыре «метафизических предела»[17], два из которых (Мировой Интеллект и Мировая Душа) относятся к Востоку идеальной Реальности, а остальные два (Мировая Природа и Мировая Материя) – к Западу. В силу закона соответствий углы земной Ка’абы расположены точно таким же образом: «два угла обращены к Востоку, где помещен черный камень (Иракский угол) и Йеменский угол; другие два – к Западу, углы западный и сирийский»[18]. О двух этих восточных (mashriqayni) и дву западных (maghribayni) углах говорится в 17 стихе Суры Милосердного, приводимом Корбеном.

Этот коранический стих ассоцируется с другим, который начинается со слов: «Богу принадлежат Восток и Запад» (Сура Коровы, 115). “Gottes ist der Orient! – Gottes ist der Okzident!”: так перевел это Вольфганг Гете, соответствия идей которого с исламской мудростью неоднократно отмечал Корбен. Пара «Восток-Запад» снова встречается в стихе Света, частично воспроизведенном Корбеном в эпиграфе к первой главе своего исследования о «Световом человеке в иранском суфизме»: «лампада, горящая маслом оливы, ни от Востока, ни от Запада, зажигается сама без того, чтобы огонь воспламенил ее… Это свет света».

Между Востоком и Западом, равно как и между Севером и Югом протянуты идеальные линии, от которых зависит не только географическая ориентация, но и  антропологические категории. В перспективе духовного символизма горизонтальные направления обретают смысл основы, с опорой на которую человеческое существо проживает вертикальные измерения своего присутствия в пространстве и времени; и поэтому вопрос ориентации составляет одну из важнейших тем иранского суфизма: « Речь идет (…) о Поиске Востока, который надо понимать, если этого не поняли раньше, как нечто, не находящееся на наших географических картах – как нечто, что не может на них быть отмечено. Этот Восток не  содержится ни в одном из семи климатах (кешвар) и принадлежит к восьмому климату. Горизонт, где следует искать восьмой климат, не горизонтален, он вертикален. Это мистический сверхчувственный Восток, точка Истока и Возвращения, цель вечных поисков, небесный полюс; это Полюс по преимуществу, крайний север бытия, расположенный на его границе, на пороге с тем, что лежит «по ту сторону»[19]. Сакральная география Ирана соотносит этот небесный Полюс со священной горой Каф, где располагается мир Хуркалья, освященный солнцем полуночи. Это страна гипербореев[20], которые символизируют людей, достигших полноты и гармонии бытия, свободного от негативности и от тени, души, в которых больше нет ни Востока, ни Запада»[21].

Ишрак (Ishrâq) – это отглагольное существительное, обозначающее в арабском излучение солнца в точке, где оно только что появилось. Это – термин имеет особое значение для исламской мудрости Ирана. Ishrâqîyûn или Mashriqîyûn («восточные”) – так называют мудрецов древней Персии, и такое имя дается им не только в силу географического месторасположения, но также из-за того, что само их знание было восточным, в том смысле, что оно было основано на внутреннем откровении (kashf) и на мистическом видении (moshâhadat)”[22]. Однако значение Востока как концепта духовного Освящения, как направления, ведущего к духовному Полюсу, свойственно не только исключительно традиционалистской мысли Ирана. «Эта ориентаицю мы встречаем уже у мистов орфизма. Она же присутствует в поэме Парменида, который, ведомый дочерьми Солнца, осуществляет путешествие к Востоку. Значение ориентаций, Востока и Запада, правой и левой сторон фундаментально для гностиков-валентиан (…) Ибн Араби (1240) оживляет символ своим личным путешествием на Восток, начинающимся в Андалусии и приводящим его в Мекку и Иерусалим, где он осуществляет исра’ (Isrâ), экстатический полет, воспроизводящий восхождение Пророка на Небо Небес, к «Лотосу Предела». Здесь «буквальный»  географический Восток становится символом Востока «реального», то есть небесного полюса»[23].

 

Umbilicus Terrae (Пуп Земли)

В сакральной географии, вытекающей из работа Анри Корбена, западная оконечность Евразии представлена Британскими островами. Первые представители древней кельтской церкви на ирландском назывались «céle Dé» (или Coli Dei), имя, созвучное формуле «Друзья Бога», которую «мы встречаем как в исламском гнозисе (Awliyâ’ Allâh), так и в рейнской мистике (Gottesfreunde)»[24]. Эти «Coli Dei» обосновавшиеся в Йорке в Англии, в Иона в Шотландии, в Галлии, Ирландии (…) своим излюбленным символом имели голубя, женское изображение Святого Духа. Не стоит удивляться тому, что их традиция включала в себя отдельные элементы друидизма, и что их литература содержит поэмы Талиесина[25]. Эпопея рыцарей Круглого Стола и поисков Святого Грааля также связаны с ритуалами Coli Dei»[26]. С существованием этого братства связано святилище Килвиннинг, на горе Хередом, откуда берет свое начало королевский Орден, с которым король Роберт Первый Брюс связал Тамплиеров, положив тем самым начало объединения кельтизма и тамплиерства.

На другом конце Евразии раскинулся Китай, «дальний предел человеческого мира, то есть мира, поддающемуся человеческому исследования в нормальных состояниях сознания»[27]. Вероятно даосские практики оказали определенное влияние на иерокосмологию среднеазиатского суфизма и на некоторые практики дзикра, принятые школой Наджма Корбра (Najm Kobrâ)[28]. Среди различных храмов, постреонных на границах Китая, был один, описанный арабским историком Мас’уди (Mas‘ûdî)[29], структура которого точно воспроизводила архитектоническую парадигму сабейских храмов. Тот же Мас’уди утверждает, что видел в одном из святилищ Харрана (древний Carrhae) надпись на портике, точно воспроизводящую платоническую истину: «Тот, кто знает самого себя, тот обожен» (Man ‘arafa nafsahu ta’allaha). Безусловно, это вполне можно назвать «платонической истиной»[30], где арабские технические термины точно соответствуют концепции «обожения», theôsis, византийских мистиков»[31]; но здесь не трудно узнать предписание Дельфийского храма дословно совпадающее с хадисом «Тот, кто знает самого себя, тот знает своего Господа» (Man ‘arafa nafsahu ‘arafa rabbahu). Сабейские герметики Харрана принесли в дар исламу свое наследие, происходящее из древней сирийской и ассиро-вавилонской мудрости, интерпретированной в свете неоплатонизма.

На равном расстоянии от Шотландии и Китая расположен Аль-Кодс, святой город». В этом месте произошло вознесение Божественного Мессии. Согласно Корбену это – настоящий Umbilicus Terrae, Пуп Земли, здесь ту же функцию, что и Ка’аба[32], выполняет Храм Скалы (Qubbat al-Sakhra). Это здание, называемое часто Мечетью Омара, представляет собой «правильный восьмиугольник, увенчанный куполом: он может рассматриваться как прототип тамплиерских храмов, строившихся в Европе, а сам Храм Скалы был символом Ордена и фигурировал на печати Великого Магистра»[33]. Это перекрестье различных духовных линий делает из Иерусалима символический кондоминиум микрокосма, в котором отражается традиционалистское многообразие евразийского макрокосма. Именно это многообразие форм Анри Корбен представляет нам в его сущностном единстве.

Радикальное противопоставление Иерусалима и Афин, как двух символов соответственно монотеизма и политеизма представляет собой момент, где резко сходятся между собой и сторонники «иудео-христианских корней» европейской идентичности и защитники плохо понятого т.н. «греческого язычества». Подобные упрощенные чисто идеологические схемы игнорируют более глубокие, сложные и артикулированные связи, о которых не подозревают ни «иудео-христиане», ни «неоязычники», в своем игнорировании доктрины метафизического Единства (интегральный Таухид исламской метафизики), не исключающего многообразия, сопряженного с иерархией Божественных имен.  Среди тех, кто в совершенстве понял это единство – Анри Корбен, распознавший тесные связи Ибн Араби, с одной стороны (…) и Прокла, с другой»[34], ссылаясь на комментарии Афинского Схоларха к платоновскому «Пармениду», где речь идет о встрече физиков Ионийской школы с метафизиками Италийской школы, собравшимися вместе с символическом городе Афины для участия в Панафинеях. «Праздновать такие праздники означает находить в Аттической школе Сократа и Платона средство возвысить обе крайности до высшего уровня»[35].

 




[1] Перев. А. Г. Дугин

[2] Henry Corbin, L’Iran e la filosofia, Guida, Napoli 1992, p. 62.

[3] P. Masson-Oursel, La Philosophie en Orient, in Histoire de la philosophie, a cura di E. Brehier, Paris 1948, 1° fasc. suppl.

[4] Henry Corbin, L’Iran e la filosofia, cit., ibidem.

[5] Glauco Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis 2004, p. 14.

[6] Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 221.

[7] Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16.

[8] Sîrôza, ventesimo giorno, cit. in: Henry Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, p. 35.

[9] Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16, n. 25.

[10] Iliade, XVIII, 478-608; Eneide, VIII, 626-728.

[11] La divisione settenaria dello spazio terrestre ritorna in altre culture tradizionali: cfr. Claudio Mutti, Gentes. Popoli, territori, miti, Effepi, Genova 2010, pp. 19-20.

[12] Henry Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, cit., pp. 47-48.

[13] Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 22.

[14] Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, pp. 153-155.

[15] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, pp. 79-138. Su Qâzî Sa’îd Qommî, cfr. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., pp. 343-344.

[16] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., pp. 88-89.

[17] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 89.

[18] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 90.

[19] Henry Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p. 8.

[20] Sull’Iperborea e su analoghe rappresentazioni tradizionali della settentrionale “terra di luce”, cfr. Claudio Mutti, op. cit., pp. 15-23.

[21] Henry Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, cit., p. 48.

[22] Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., p. 211.

[23] Henry Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, cit., pp. 66-67.

[24] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 282 n. 217.

[25] Талиесин (ок.534  - ок. 599) – легендарный валлийский поэт. (прим. перев.)

[26] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., pp. 231-232.

[27] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 11.

[28] Henry Corbin, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, cit., pp. 64 e 87.

[29] Mas’ûdî, Les prairies d’or, ed. e trad. Barbier de Maynard, Paris 1914, vol. IV, p. 52.

[30] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 12.

[31] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 52, n. 7.

[32] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 240.

[33] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, cit., p. 224.

[34] Henry Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 8.

[35] Henry Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 13.

BRACCIO DI FERRO IN SIRIA

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Mentre i “mercati” stanno abolendo i diritti sociali ed economici di gran parte dei cittadini europei e impongono le loro decisioni grazie ad un gruppo di tecnocrati che paiono aver relegato i partiti al ruolo di semplici esecutori degli ordini dei “mercati”, in Siria la situazione è sempre più grave e non si vede come possa risolversi. Tuttavia, la recente dichiarazione di Hillary Clinton riguardo alla necessità di cambiare i vertici dell’opposizione al regime di Assad è indice di un mutamento di  indirizzo degli Usa che non sembra affatto irrilevante. Infatti, a giudizio della Clinton, dato che il Cns non può essere più considerato come leader dell’opposizione, occorre una nuova struttura che garantisca gli Usa lasciando fuori gli “estremisti”. Perciò, sempre secondo il segretario di Stato americano, durante i colloqui che si svolgeranno la prossima settimana nel Qatar tra le diverse (e opposte) fazioni dell’insurrezione siriana, gli Stati Uniti dovranno impegnarsi allo scopo di creare «una coalizione più ampia e inclusiva». (1)

Questa presa di posizione della Clinton, anche se non chiarisce bene come si potrebbero estromettere gli “estremisti” allargando la coalizione, è relativamente facile da spiegare. Si sa che in Siria combattono, muovendo da basi situate in territorio turco (e non solo) diverse migliaia di “mercenari islamisti”, organizzati e finanziati dal Qatar, (2) alleato “di ferro” degli Usa, e che si sono resi responsabili di massacri, attentati e ogni genere di efferatezze non solo contro i lealisti, ma anche contro la stessa popolazione civile siriana. Crimini che ormai perfino i media mainstream e organizzazioni occidentali come Amnesty international o Human Rights Watch non possono più nascondere o attribuire al regime di Assad. (Sorprenda però il fatto che proprio in questi giorni stia facendo il giro del mondo, suscitando indignazione anche in ambienti di indubbia “fede atlantista”, un video su esecuzioni sommarie di militari lealisti da parte dei ribelli, giacché non è certo il primo video a mostrare le atrocità commesse dai ribelli). Ovviamente, si può osservare che la Clinton deve tener conto dell’opinione pubblica internazionale e in particolare di quella del proprio Paese, per di più solo a pochi giorni dalle elezioni presidenziali statunitensi. Ma è pacifico che per comprendere appieno il senso delle affermazioni della Clinton si debba pure tener conto che per gli Usa è necessario avere il pieno controllo geopolitico di un’area così delicata come quella del Vicino e Medio Oriente. Ed è quindi alla luce di questa esigenza che si deve leggere la dichiarazione del segretario di Stato americano.

A questo proposito, è innegabile che con l’amministrazione Obama ci sia stato un netto mutamento della strategia degli Stati Uniti, dovuto in primo luogo al fatto che la costruzione di  un equilibrio internazionale incentrato sull’egemonia globale statunitense si era rivelata essere assai al di là delle reali possibilità del gigante nordamericano, vuoi per i limiti intrinseci del sistema tecnico-produttivo e militare degli Usa, vuoi per la crescita di altri “poli di potenza”, che non possono non mostrarsi restii ad accettare i diktat dell’oligarchia atlantista, i cui interessi notoriamente sono rappresentati e tutelati dagli Usa. Si tratta di un mutamento di strategia che, nella sostanza, consiste nel privilegiare un “approccio indiretto”, lasciando notevoli margini d’azione a Ong e perfino a Paesi “subdominanti” quali le petromonarchie dell’Arabia Saudita e del Qatar (fino a non molti anni fa  solo un piccolo Stato ricco di giacimenti di petrolio e di gas naturale, mentre adesso «rappresenta un attore fondamentale nell’ambito della strategia attraverso cui Washington mira ad aprire un profondo “arco di instabilità” nel cuore del Medio Oriente»). (3)

Veramente “decisiva”, sotto questo punto di vista, è stata l’aggressione alla Giamahiria, benché favorita non poco dall’atteggiamento della Russia e della Cina, non preparate a sfidare gli Stati Uniti per difendere il regime di Gheddafi (anche perché evidentemente considerato non essenziale per la loro sicurezza). Di fatto, gli Usa si sono limitati a lanciare contro l’apparato bellico della Giamahiria decine di missili da crociera, consentendo di svolgere il ruolo di protagonisti alle milizie islamiste, appoggiate dal Qatar, e agli anglo-francesi (sebbene gli Usa, tramite la Nato, abbiano messo a disposizione dei propri alleati le indispensabili strutture logistiche, soprattutto per quanto concerne un settore decisivo come quello delle comunicazioni e della guerra elettronica). Eppure, anche per l’inefficienza delle milizie islamiste, non è stato facile sbarazzarsi del colonnello Gheddafi e gli aerei della Nato hanno dovuto compiere migliaia di missioni per distruggere la Giamahiria. (4) Nondimeno, la situazione in Libia non è ancora nelle “mani” delle cosiddette “forze occidentali”, come prova non solo l’assassinio dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nei pressi del consolato Usa a Bengasi, o il perdurare di violenti scontri tra le diverse “anime” dei ribelli, ma anche la valorosa resistenza dei lealisti soprattutto a Bani Walid. (5) Ciò a conferma del fatto che, se gli Stati Uniti sono senza dubbio capaci di destabilizzare pressoché qualsiasi Stato o qualunque regione, non sempre riescono a destabilizzare come vorrebbero. Un problema che, lo si dovrà riconoscere, inevitabilmente è molto più complesso e difficile allorquando si deve delegare la funzione di comando a “gruppi subdominanti”.

Peraltro, è improbabile che le bande armate islamiste possano piegare la resistenza di Assad. Non tanto perché il legittimo governo di Assad, riuscendo a tener testa ad una opposizione armata e finanziata da Paesi stranieri che cercano di farlo cadere da oltre un anno e mezzo, ha dimostrato di poter contare su un esercito di leva che è innegabilmente più forte di quello libico (ovvero meglio addestrato, meglio equipaggiato e meglio equipaggiato di quello del colonnello Gheddafi), quanto perché è evidente che la rivolta contro Assad si sta già trasformando in un pericoloso braccio di ferro tra le “forze (filo)occidentali” e i Paesi che sostengono la Siria (Russia, Cina e Iran). Una prova di forza resa ancora più complicata dalla questione del nucleare iraniano, dalla politica di potenza dello Stato sionista, dal nuovo corso della politica turca e dalla rivalità tra sunniti e sciiti, abilmente alimentata dalle petromonarchie del Golfo, che paiono in grado di “manovrare” pure la variegata e multiforme galassia dei Fratelli Musulmani – dall’Egitto alla Siria, inclusi la Palestina e il Libano. Insomma, quello che è certo è che in Siria si è in presenza di una situazione che né gli Usa né i loro alleati possono gestire (solo o principalmente) con gli squadroni della morte, come quelli creati da John Negroponte per seminare terrore in America Latina.

Sembra chiaro quindi che la Clinton, pur consapevole che un maggiore coinvolgimento delle “forze occidentali” in Siria comporterebbe non pochi rischi per l’America e i suoi alleati, abbia voluto precisare che, considerando l’elevatissima posta in gioco, non può non essere Washington a dirigere le operazioni contro Assad, indipendentemente da chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Il che però non significa che gli Stati Uniti, anche se non potranno permettersi di ignorare del tutto le parole del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, secondo cui in Siria «lo spargimento di sangue proseguirà fino a quando l’Occidente reclamerà le dimissioni del presidente Bashar al Assad», (6) faranno il possibile per spegnere l’incendio che sta bruciando la Siria e che minaccia di propagarsi in tutta la regione. Quel che si può invece ragionevolmente prevedere è che gli Usa non potranno evitare di confrontarsi sia con i propri alleati (compreso naturalmente Israele) sia con i propri avversari sulla questione siriana, dacché è fondamentale per gli Stati Uniti ridisegnare la mappa geopolitica del Mediterraneo in modo tale che non si giunga ad una ridefinizione degli equilibri geostrategici e geoeconomici che possa favorire la nascita di un autentico multipolarismo. (Al riguardo, non si deve nemmeno dimenticare che la “geopolitica del caos” è funzionale unicamente alla politica di potenza degli Usa e al potere di quei “mercati” che dettano legge anche nell’Europa occidentale).

Comunque sia, le prossime settimane dovrebbero dirci fino a che punto Washington sarà disposta a premere sull’acceleratore per impedire che l’egemonia degli Usa venga messa in discussione non solo  dagli avversari ma anche dagli alleati, nell’area mediterranea o in qualsiasi altra zona strategica del pianeta. In questa prospettiva, forse non è nemmeno così importante sapere se sarà Obama oppure Romney il  futuro presidente degli Stati Uniti (benché non si debba sottovalutare la lotta tra i diversi centri di potere negli Usa), (7) mentre sembra assai più rilevante che a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, si stia costruendo una centrale “Muos”, ossia un Mobile User Objective System (di proprietà degli Usa) che «servirà a gestire centri d’intelligence, radar, velivoli senza pilota, missili da crociera, cacciabombardieri e altri strumenti di guerra non guerreggiata».(8) Un sistema di comunicazione militare che purtroppo non promette nulla di buono, né per la Siria né per altri Stati, non esclusa l’Italia.

 

 

1.http://www.ilgiornale.it/news/esteri/siria-clinton-tenere-bada-estremisti-851773.html.

2.Vedi ad esempio http://www.turkishnews.com/en/content/2011/12/31/qatar-creates-anti-syria-mercenary-force-based-in-turkey/.

3.Giacomo Gabellini, La Parabola, Anteo Edizioni, Cavriago (Re), 2012, p.239.

4.Ibidem, in particolare pp. 204-216.

5.Vedi http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44414.

6.http://www.asca.it/newsSiria__Lavrov__bagno_sangue_perche__Occidente_chiede_dimissioni_Assad-1213322-ATT.html.

7.Su questo aspetto è utile anche leggere l’articolo Un sinistro messaggio per i generali (http://www.pierolaporta.it/articolo-a-due-colonne/). Ma anche l’articolo di George Friedman, From Gadhafi to Benghazi (http://www.stratfor.com/weekly/gadhafi-benghazi), pur considerando il punto vista atlantista che caratterizza l’analisi del direttore di Stratfor, è espressione, a nostro avviso, di una lotta che è in atto all’interno della cosiddetta “élite del potere” statunitense e che, con ogni probabilità, sarebbe riduttivo e semplicistico identificarla con lo scontro tra Obama e Romney.

8.http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44430.

 

 


Ο JEAN THIRIART ΚΑΙ Η ΙΔΈΑ ΤΗΣ ΜΕΓΆΛΗΣ ΚΟΙΝΟΤΙΣΤΙΚΉΣ ΕΥΡΏΠΗΣ

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Ο Jean Francois Thiriart γεννήθηκε στις Βρυξέλλες, στις 22 Μαρτίου του 1922 από μια οικογένεια φιλελεύθερων αντιλήψεων. Στα νιάτα του αγωνίστηκε ενεργά στην Σοσιαλιστική Νεολαία και στην Αντιφασιστική Σοσιαλιστική Ένωση. Για ένα διάστημα εργάστηκε με τον καθηγητή Kessamier, πρόεδρο της Φιλοσοφικής Εταιρείας Fichte Bund, θυγατρική της Εθνικο-μπολσεβικικής κίνησης του Αμβούργου. Στη συνέχεια, μαζί με άλλα στοιχεία της άκρας αριστεράς εργάζονται υπέρ μιας συμμαχίας του Βελγίου με το Εθνικοσοσιαλιστικό Ράιχ και προσχωρεί στην ένωση “Φίλοι του μεγάλου γερμανικού Ράιχ”. Για αυτή του την επιλογή, το 1943 καταδικάστηκε σε θάνατο από τους Βέλγους συμμάχους των Αγγλο-Αμερικανών. Θεωρούσε την Γερμανία ως ελπίδα για μία Σοσιαλιστική Ευρώπη, την οποία έβλεπε ιστορικά ως πλουτοκρατία. Κατά τη διάρκεια του Β’Π.Π. ο Thiriart εκπαιδεύτηκε στις μονάδες καταδρομέων του Otto Skorzeny, με τον οποίο διατήρησε μακρά φιλία στα χρόνια μετά τον πόλεμο. Το αγγλικό ραδιόφωνο βάζει το όνομά του στη μαύρη λίστα, την οποία διανέμει στους “αντιστασιακούς” με οδηγίες για την δολοφονία του. Μετά την “απελευθέρωση” εφαρμόστηκε εναντίον του ένα άρθρο του βελγικού ποινικού κώδικα που συνετάχθη στο Λονδίνο το 1942 και βάση αυτού πέρασε αρκετά χρόνια στη φυλακή. Όταν απελευθερώνεται, ο δικαστής του στερεί το δικαίωμα να γράφει. Τα επόμενα χρόνια κράτησε ένα χαμηλό προφίλ. Παντρεύτηκε, έκανε παιδιά, αγαπούσε τις γάτες… Δημιούργησε και μία πολύ επιτυχημένη και κερδοφόρα επιχείρηση Οπτομετρίας, με αλυσίδα καταστημάτων σε όλη την Ευρώπη. Εκμεταλλευόμενος τα επαγγελματικά του ταξίδια, εύρισκε πάντα ευκαιρία να επισκέπτεται τον Otto Skorzeny στην Ισπανία, αλλά γενικά δεν ανακατεύονταν με τα πολιτικά.

Το 1960 το Βέλγιο συγκλονίζεται από τις πολιτικές εξελίξεις και οι Βέλγοι αισθάνονται προδομένοι από την κυβέρνησή τους. Είναι η περίοδος της εγκατάλειψης του Κονγκό ως αποικία και τότε ο Thiriart συμμετείχε στην ίδρυση της “Επιτροπής Δράσης και υπεράσπισης των Βέλγων της Αφρικής” (Comite d’Action et de Defense des Belges d’Afrique), που σύντομα έγινε το “Κίνημα Δράσης Πολιτών” (Mouvement d’Action Civique). Ως εκπρόσωπος του οργάνου αυτού, στις 4 Μαρτίου του 1962, στη Βενετία, ο Thiriart συναντά τους ηγέτες άλλων πολιτικών ομάδων στην Ευρώπη και εκδίδεται κοινή δήλωση με την οποία αναλάμβαναν την προπαρασκευή του “Εθνικού Ευρωπαϊκού Κόμματος”, με επίκεντρο την ιδέα της ευρωπαϊκής ενότητας, η οποία δεν δεχόταν την δορυφοροποίηση της Δυτικής Ευρώπης στις ΗΠΑ, όπως επίσης δεν δεχόταν και την απόσπαση των εδαφών της Ανατολής, από την Πολωνία και την Ουγγαρία έως τη Βουλγαρία. Μεταξύ αυτών που συμμετείχαν, ο Sir Oswald Mosley, το “MAC” (Mouvement d’Action Civique), το “MSI” (Movimento Sociale Italiano), το “Union Movement”, και το “Reichspartei”. Η ιδέα αυτού του τόσο πρωτοποριακού Ευρωπαϊκού κόμματος τελικά ακυρώθηκε σύντομα στην πράξη, λόγω των μικρο-εθνικιστικών αντιπαραθέσεων μεταξύ των Ιταλών και Γερμανών που θα συνυπέγραφαν το μανιφέστο της Βενετίας.

Το δίδαγμα που αντλεί από αυτή την αποτυχία ο Thiriart, είναι ότι ένα τέτοιο Ευρωπαϊκό Κόμμα δεν μπορεί να δημιουργηθεί από μια συμμαχία μικρών εθνικών ομάδων και κινημάτων, αλλά πρέπει να είναι εξ αρχής ένας οργανισμός φτιαγμένος σε επίπεδο ευρωπαϊκής ενότητας. Έτσι γεννήθηκε, τον Ιανουάριο του 1963, η θρυλική “Ευρωπαϊκή Νεολαία” (Jeune Europe), ένα εξαιρετικά δομημένο κίνημα, που σύντομα εξαπλώνεται στο Βέλγιο, την Ολλανδία, τη Γαλλία, την Ελβετία, την Αυστρία, τη Γερμανία, την Ιταλία, την Ισπανία, την Πορτογαλία, την Αγγλία. Κύριο σύνθημά τους: “Ούτε Ουάσιγκτον – Ούτε Μόσχα”.

Η πρωτοτυπία της Ευρωπαϊκής Νεολαίας έγκειται στην ιδεολογία της, τον Εθνικό Ευρωπαϊκό Κοινοτισμό, που ο Thiriart παρουσιάζει σαν έναν ευρωπαϊκό μοντέρνο μη-μαρξιστικό σοσιαλισμό, ενάντια στις κρατικιστικές γραφειοκρατίες. Προκαλώντας τη ρομαντική αντίληψη του έθνους που κληρονόμησε από τον δέκατο ένατο αιώνα, η οποία κατ’ αυτόν υπάγεται σε ντετερμινισμούς εθνοτικούς, γλωσσικούς, θρησκευτικούς, προτιμά την ιδέα ενός δυναμικού έθνους. Του έθνους – κοινότητα όπως περιγράφεται από Jose Ortega y Gasset. Χωρίς να απορρίπτει το κοινό παρελθόν, πιστεύει ότι “αυτό το παρελθόν δεν είναι τίποτα σε σύγκριση με το γιγάντιο κοινό μέλλον… Αυτό που κάνει το Έθνος πραγματικότητα και ζωτική δύναμη είναι η ενότητα του ιστορικού πεπρωμένου.”

Το πρόγραμμα της Ευρωπαϊκης Νεολαίας παρουσιάζεται στο “Μανιφέστο ενός Ευρωπαϊκού Έθνους”, το οποίο αρχίζει ως εξής:
“Ανάμεσα στο Σοβιετικό μπλοκ και το μπλοκ των ΗΠΑ, η αποστολή μας είναι να οικοδομήσουμε μια μεγάλη Πατρίδα: Την Ευρώπη, ενωμένη, ισχυρή, κοινοτιστική (…) Από την Βρέστη ως το Βουκουρέστι.” Η τοποθέτησή τους ήταν υπέρ μιας ξεκάθαρα ενωμένης Ευρώπης. “Η ομοσπονδιακή Ευρώπη ή η Ευρώπη των πατρίδων είναι έννοιες που κρύβουν έλλειψη ειλικρίνειας και γηρασμένες ιδέες από εκείνους που τις υπερασπίζονται (…) Εμείς καταδικάζουμε τους μικρούς εθνικισμούς που διατηρούν μεταξύ τους οι πολίτες του Ευρωπαϊκού Έθνους. (…) Η Ευρώπη πρέπει να επιλέξει μια ισχυρή και ένοπλη ουδετερότητα. Πρέπει να αποχωρήσει από το τσίρκο του ΟΗΕ και να υποστηρίξει ενεργά την Λατινική Αμερική στον αγώνα των λαών της για την ενότητα και την ανεξαρτησία τους.” Το Μανιφέστο περιγράφει μια εναλλακτική πρόταση έναντι των δύο υφιστάμενων κοινωνικών συστημάτων στην Ευρώπη, ανακηρύσσοντας την “υπεροχή της εργασίας έναντι του κεφαλαίου” και την ανωτερότητα ενός συστήματος “μυρμηγκιών”: “Εμείς θέλουμε μια ζωντανή κοινότητα με τη συμμετοχή στην παραγωγική εργασία όλων των ανθρώπων που την συνθέτουν.” Η κοινοβουλευτική δημοκρατία και η κομματική πολιτική είναι αντίθετες σε μια οργανική κοινωνία: “Μία πολιτική Σύγκλητος, η Σύγκλητος του Ευρωπαϊκού Έθνους που θα εκπροσωπεί τις ευρωπαϊκές επαρχίες και θα αποτελείται στα υψηλότερα ποσοστά της από τους τομείς της επιστήμης, της εργασίας, των τεχνών και των γραμμάτων. Ένα Συνδικαλιστικό Σώμα που θα εκπροσωπεί τα συμφέροντα όλων των παραγωγικών τάξεων της Ευρώπης, απελευθερωμένων από την οικονομική τυραννία και τις πολιτικές των ξένων συμφερόντων.” Το μανιφέστο καταλήγει: “Εμείς απορρίπτουμε την θεωρητική Ευρώπη. Απορρίπτουμε την Ευρώπη των συνθηκών. Καταδικάζουμε την Ευρώπη του Στρασβούργου για έγκλημα προδοσίας. Ή θα υπάρξει ένα ΕΘΝΟΣ ή δεν θα υπάρξει ανεξαρτησία. Σε αυτή την κατά συνθήκη Ευρώπη την οποία αρνούμαστε, εμείς αντιπαραθέτουμε την κατά νόμο Ευρώπη, την Ευρώπη των λαών, την δική μας Ευρώπη. ΕΜΕΙΣ ΕΙΜΑΣΤΕ ΤΟ ΕΥΡΩΠΑΪΚΟ ΕΘΝΟΣ.”

Αφού δημιούργησε σχολή εκπαίδευσης πολιτικών στελεχών – ακτιβιστών (η οποία από το 1966 έως το 1968, εξέδιδε το μηνιαίο έντυπο “Κοινοτιστική Ευρώπη”), η Ευρωπαϊκή Νεολαία ξεκινά τη δημιουργία ενός Ευρωπαϊκού Κοινοτιστικού Συνδικάτου, και το 1967 μιας πανεπιστημιακής ένωσης με το όνομα “Ευρωπαϊκό Πανεπιστήμιο”, η οποία θα είναι ιδιαίτερα δραστήρια (που αλλού…) στην Ιταλία. Από το 1963 έως το 1966, εκδίδεται εφημερίδα στα γαλλικά με τίτλο “Jeune Europe” (αρχικά εβδομαδιαία και στη συνέχεια δεκαπενθήμερη). Μεταξύ των δημοσιογραφικών τους οργάνων σε άλλες γλώσσες, πρέπει να αναφερθεί η ιταλική “Europa Combattente”, η οποία εκδίδεται σε μηνιαία βάση. Και από το 1966 έως 1968 το έντυπο “La Nation Europeenne”, το οποίο βγαίνει και στην Ιταλία με τίτλο “La Nazione Europea” από τον Claudio Muti, έως ακόμη και το 1969 (και ένα τελευταίο τεύχος εξεδόθη στη Νάπολη το 1970 από τον Pino Balzano).

 

Το “La Nation Europeenne”, ήταν μηνιαίο μεγάλο περιοδικό έως και συχνά πενήντα σελίδων και εκτός από τους συντάκτες συντρόφους, φιλοξενούσε και ξεχωριστές προσωπικότητες ιδιαίτερης πολιτιστικής και πολιτικής σημασίας όπως: τον πολιτικό επιστήμονα Christian Perroux, την Αλγερινή συγγραφέα Malek Bennabi, τον βουλευτή Francis Palmero, τον Πρέσβη της Συρίας Selim el Yafi, τον Ιρακινό Πρέσβη Nather el Omari, τους ηγέτες του FLN της Αλγερίας Cherif Belkacem, Si Larbi και Djamil Mendimred, τον πρόεδρο της ΟΑΠ Ahmed Choukairy, τον αρχηγό της αποστολής των Βιετκόνγκ στο Αλγέρι Tran Hoai Nam, τον επικεφαλής των Μαύρων Πανθήρων Stokeley Carmichael, τον ιδρυτή των “Κέντρων Αγροτικής Δράσης” Πρίγκιπα Ruspali Sforza, τους συγγραφείς Pierre Gripari και Anne-Marie Cabrini. Ανάμεσα στους μόνιμους ανταποκριτές, ο καθηγητής Souad El Charkawi (στο Κάιρο) και Gilles Munier (Αλγέρι).

Στο τεύχος Φεβρουαρίου του 1969 υπάρχει μια μεγάλη συνέντευξη που πήρε ο Jean Thiriart από τον Συνταγματάρχη Περόν, ο οποίος δήλωνε ότι διαβάζει τακτικά το “La Nation Europeenne” και ότι ασπάζεται απόλυτα όλες του τις ιδέες! Από την εξορία του στη Μαδρίτη, ο πρώην Πρόεδρος της Αργεντινής, αναγνώριζε στον Κάστρο και στον Τσε Γκεβάρα τους συνεχιστές του αγώνα για την ανεξαρτησία της Λατινικής Αμερικής που ξεκίνησε από τον καιρό του δικού του κινήματος: “Ο Κάστρο -λέει ο Περόν- είναι ένας πρωτεργάτης της απελευθέρωσης. Έχει κλίνει προς έναν ιμπεριαλισμό, επειδή ένας άλλος ιμπεριαλισμός απείλησε να τον συντρίψει. Αλλά ο στόχος των Κουβανών είναι η απελευθέρωση των λαών της Λατινικής Αμερικής. Δεν έχουν καμία άλλη πρόθεση, παρά μόνο να δημιουργήσουν ένα προγεφύρωμα για την απελευθέρωση και των άλλων ηπειρωτικών χωρών. Ο Τσε Γκεβάρα είναι ένα σύμβολο αυτής της απελευθέρωσης. Είναι μεγάλος διότι έχει υπηρετήσει μια μεγάλη ιδέα την οποία τελικά ενσαρκώνει. Είναι ένας άνθρωπος ιδεαλιστής.”

Όσο για την απελευθέρωση της Ευρώπης, ο Thiriart προσπάθησε να δημιουργήσει τις “Ευρωπαϊκές Επαναστατικές Ταξιαρχίες” που θα αναλάμβαναν επιχειρήσεις ένοπλου αγώνα κατά των κυβερνήσεων κατοχής. Ήδη το 1966 είχε μια συνομιλία με τον Κινέζο υπουργό Εξωτερικών Chou En Lai, στο Βουκουρέστι, και του είχε ζητήσει να υποστηρίξει τη δημιουργία μιας ευρωπαϊκής πολιτικο-στρατιωτικής οργάνωσης για την καταπολέμηση του κοινού εχθρού: των ΗΠΑ. Το 1967 η προσοχή του Thiriart στρέφεται στην Αλγερία: “Μπορούμε, πρέπει, να εξετάσουμε μία πιθανή παράλληλη δράση και στρατιωτική εκπαίδευση στην Αλγερία, με την ελπίδα προπαρασκευής από τώρα, ενός είδους ευρωπαϊκού επαναστατικού Reichswehr. Οι σημερινές κυβερνήσεις του Βελγίου, της Ολλανδίας, Αγγλίας, Γερμανίας, της Ιταλίας είναι σε διάφορους βαθμούς δορυφόροι, λακέδες της Ουάσιγκτον. Γι’ αυτό εμείς οι εθνικο-ευρωπαίοι, εμείς οι ευρωπαίοι επαναστάτες, πρέπει να πάμε στην Αφρική να δημιουργήσουμε τα στελέχη μιας μελλοντικής πολιτικο-στρατιωτικής δύναμης που αφού υπηρετήσουν στην Μεσόγειο και στην Μέση Ανατολή, θα μπορούσαν μια μέρα να πολεμήσουν στην Ευρώπη για να απαλλαγούμε από τους επικυρίαρχους της Ουάσιγκτον. Delenda est Carthago.” Το φθινόπωρο του 1967 ο Gerard Bordes, διευθυντής του “La Nation Europeenne”, πηγαίνει στην Αλγερία, όπου συναντάται με τον Εκτελεστικό Γραμματέα του FLN, και με το Συμβούλιο της Επανάστασης. Τον Απρίλιο του 1968 ο Bordes επιστρέφει στο Αλγέρι, με ένα Υπόμνημά υπ’ όψιν της Κυβέρνησης της Δημοκρατίας της Αλγερίας, που το υπέγραφε αυτός και ο Thiriart, και το οποίο περιείχε τις ακόλουθες προτάσεις:
“Ευρωπαϊκή συμβολή στην κατάρτιση ειδικών για τον αγώνα ενάντια στο Ισραήλ. Τεχνική προετοιμασία για μελλοντική άμεση δράση κατά των Αμερικανών στην Ευρώπη. Δημιουργία μίας μυστικής υπηρεσίας πληροφοριών αντι-αμερικανικής και αντι-σιωνιστικής με προοπτική την ταυτόχρονη χρήση της στις αραβικές χώρες και στην Ευρώπη.”

Καθόσον οι επαφές με την Αλγερία δεν έχουν κανένα αποτέλεσμα, ο Thiriart προσεγγίζει τις αραβικές χώρες της Μέσης Ανατολής. Από την άλλη πλευρά, στις 3 Ιουνίου του 1968 ένας αγωνιστής της Jeune Europe, ο Roger Coudroy, πέφτει με το όπλο στο χέρι από τα σιωνιστικά πυρά, την ώρα που με μια ομάδα της Αλ Φατάχ προσπαθούσε να εισέλθει στην κατεχόμενη Παλαιστίνη.

Το φθινόπωρο του 1968 ο Thiriart κλήθηκε από τις κυβερνήσεις της Βαγδάτης και του Καΐρου, και το κόμμα Μπάαθ, να ταξιδέψει στη Μέση Ανατολή. Στην Αίγυπτο παρίσταται στις εργασίες έναρξης του συνεδρίου της Αραβικής Σοσιαλιστικής Ένωσης που είναι κυβερνών κόμμα της χώρας. Εκεί έχει την ευκαιρία να συναντήσει Υπουργούς καθώς και τον ίδιο τον Πρόεδρο Νάσερ. Στο Ιράκ συναντά πολλές πολιτικές προσωπικότητες, συμπεριλαμβανομένων ορισμένων ηγετών της ΟΑΠ και δίνει συνεντεύξεις στον Τύπο και σε ραδιοτηλεοπτικά μέσα. Αλλά ο κύριος σκοπός του ταξιδιού του Thiriart, είναι να κατορθώσει μια συνεργασία που θα οδηγήσει στην δημιουργία ενός Ευρωπαϊκού Σώματος, το οποίο θα συμμετέχει στον αγώνα για την απελευθέρωση της Παλαιστίνης και που αργότερα θα μπορούσε να αποτελέσει τον πυρήνα ενός Στρατού της Ευρωπαϊκής Απελευθέρωσης. Πίσω από την άρνηση της ιρακινής κυβέρνησης, βρίσκονται σοβιετικές πιέσεις και έτσι ο στόχος του αυτός θα αποτύχει. Αποθαρρύνεται από αυτή την αποτυχία, και πλέον στερούμενος επαρκών οικονομικών πόρων για να στηρίξει έναν πολιτικό αγώνα επιπέδου, ο Thiriart αποφασίζει να αποσυρθεί από την πολιτική δράση. Στη Γαλλία η οργάνωση είχε ήδη κηρυχθεί παράνομη. Στην Ιταλία αργότερα τα περισσότερα στελέχη της Νεολαίας πλαισίωσαν το “Movimento Politico Ordine Nuovo”.

Από το 1969 έως το 1981, ο Thiriart αποφασίζει να ασχοληθεί αποκλειστικά με την οπτομετρία σε επαγγελματικό και συνδικαλιστικό επίπεδο, όπου και παίζει σημαντικό ρόλο: είναι πρόεδρος της “Societe d’Optometrie” της Ευρώπης, της “Εθνικής Ένωσης Οπτικών και Οπτομετρικών” του Βελγίου, του “Centre d’Etudes des Sciences Optiques Appliquees” και είναι σύμβουλος σε διάφορες επιτροπές της ΕΟΚ. Παρ’ όλ’ αυτά, το 1975 εξέδωσε μια εκτενή συνέντευξη προς τον Michel Schneider για το “Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire” στην Αιξ-αν-Προβάνς και βοηθά τον Yannick Sauveur στη σύνταξη της διδακτορικής διατριβής του για πανεπιστημιακή θέση, με τίτλο “Ο Jean Thiriart και ο Ευρωπαϊκός εθνο-κοινοτισμός (Πανεπιστήμιο Παρισίων, 1978). Αυτή η εργασία του Sauveur είναι η δεύτερη πανεπιστημιακού επιπέδου μελέτη αφιερωμένη στις πολιτικές δραστηριότητες του Thiriart, έξι χρόνια μετά την πρώτη που είχε παρουσιαστεί στο Ελεύθερο Πανεπιστήμιο των Βρυξελλών και ήταν μια διατριβή του Jean Beelen για την δράση του “Κινήματος Δράσης Πολιτών” (Mouvement d’Action Civique).

Το 1981, μια επίθεση εναντίον του από Σιωνιστές τραμπούκους στο γραφείο του στις Βρυξέλλες προκαλεί τον Thiriart να συνεχίσει την πολιτική του δραστηριότητα. Αποκαθιστά επαφή με έναν πρώην συντάκτη του περιοδικού “Nation Europeenne”, τον Ισπανό ιστορικό Bernardo Gil Mugarza, ο οποίος, κατά τη διάρκεια μιας εκτενούς συνέντευξης (εκατόν οκτώ ερωτήσεις), του δίνει την ευκαιρία να επικαιροποιήσει και να εμβαθύνει την πολιτική του σκέψη. Παίρνει σάρκα και οστά με τον τρόπο αυτό, ένα βιβλίο που ήθελε ο Thiriart να δημοσιεύσει στα ισπανικά και στα γερμανικά, το οποίο όμως παρέμενε αδημοσίευτο μέχρι εκείνη την στιγμή.

Το 1982 γνωρίζει τον Luc Michel, ο οποίος δύο χρόνια αργότερα θα ιδρύσει στο Βέλγιο το Εθνικό Κοινοτιστικό Κόμμα Ευρώπης. Ο Thiriart γίνεται ένα είδος πολιτικού συμβούλου του κόμματος και συνεργάζεται στο “Conscience Europeenne” (Ευρωπαϊκή Συνείδηση), το περιοδικό που εκδίδει ο Luc Michel.

Στις αρχές της δεκαετίας του ογδόντα, Thiriart εργάζεται πάνω σε ένα βιβλίο που δεν είδε ποτέ το φως της δημοσιότητας: Η Ευρω-Σοβιετική Αυτοκρατορία από το Βλαδιβοστόκ ως το Δουβλίνο. Τα περιεχόμενά του περιλαμβάνουν δεκαπέντε κεφάλαια, καθένα από τα οποία χωρίζεται σε επιμέρους ενότητες. Όπως προκύπτει από τον τίτλο του έργου αυτού, η θέση του Thiriart ως προς την Σοβιετική Ένωση έχει αλλάξει σημαντικά. Εγκαταλείποντας το παλιό σύνθημα “Ούτε Ουάσιγκτον, ούτε Μόσχα”, υιοθετεί πλέον ο Thiriart μια θέση που θα μπορούσε να συνοψιστεί κάπως έτσι: “Με την Μόσχα εναντίον της Ουάσιγκτον.” Ήδη άλλωστε, πριν από δεκατρία χρόνια, σε ένα άρθρο του με τίτλο “Η Πράγα, η ΕΣΣΔ και η Ευρώπη” (“La Nation Europeenne”, τ.29, Νοέμβριος 1968), είχε καταγγείλει σιωνιστικές δολοπλοκίες για την “Άνοιξη της Πράγας”. Ο Thiriart είχε εκφράσει κάποια ικανοποίηση με τη σοβιετική επέμβαση και είχε αρχίσει να σκιαγραφεί μια “στρατηγική της προσοχής” έναντι της Σοβιετικής Ένωσης. “Μία Δυτική Ευρώπη ΜΗ ΑΜΕΡΙΚΑΝΙΚΗ -έγραφε τότε- θα επέτρεπε στην Σοβιετική Ένωση να διαδραματίσει έναν ρόλο σχεδόν ανταγωνιστικό των ΗΠΑ. Μία Δυτική Ευρώπη σύμμαχος, ή μία Δυτική Ευρώπη ΕΝΝΙΑΙΑ με την ΕΣΣΔ θα ήταν το τέλος του αμερικάνικού ιμπεριαλισμού (…) Αν οι Ρώσοι θέλουν να αφαιρέσουν τους Ευρωπαίους από την Αμερικανική επιρροή -και μακροπρόθεσμα θα πρέπει να εργαστούν για αυτό- πρέπει να προσφέρουν, σε αντάλλαγμα για την αμερικανική ΧΡΥΣΗ ΣΚΛΑΒΙΑ, την ευκαιρία να οικοδομήσουμε μια πολιτική Ευρωπαϊκή οντότητα. Αν φοβούνται, ο καλύτερος τρόπος για να το αποτρέψουν αυτό είναι να ενσωματωθούν.”

Στη Μόσχα, Thiriart πηγαίνει τον Αύγουστο του 1992, μαζί με τον Michel Schneider, εκδότη του περιοδικού “Nationalisme et Republique”. Οικοδεσπότης τους εκεί είναι ο πολύ δραστήριος Αλεξάντρ Ντούγκιν, ο οποίος τον Μάρτιο του ίδιου έτους είχε υποδεχτεί τον Alain de Benoist και τον Robert Steuckers, ενώ τον Ιούνιο είχε δώσει συνέντευξη στην τηλεόραση της Μόσχας με τον Ιταλό Claudio Mutti, που μαζί του παρουσίασε την “φαιοκόκκινη” αντιπολίτευση. Η δραστηριότητα τoυ Thiriart στη Μόσχα, όπου υπάρχουν εκεί και παλαιοί συναγωνιστές του από την Ιταλία, είναι πολύ έντονη. Δίνει συνεντεύξεις τύπου, συμμετέχει σε συζήτηση στρογγυλής τραπέζης με τους Προχάνωφ, Λιγκάσεφ, Ντούγκιν, Σουλτάνωφ και την εφημερίδα “Den”, η οποία δημοσιεύει στο φύλλο 34(62) ένα κείμενο του Thiriart υπό τον τίτλο “Ευρώπη ως το Βλαδιβοστόκ”. Έχει επίσης συνάντηση με τον Γενάντι Ζουγκάνωφ, αποκτά επαφές με αρκετά μέλη της “φαιοκόκκινη” αντιπολίτευσης, συμπεριλαμβανομένων των Νικολάι Παβλόφ και Σεργκέι Μπαμπούριν. Έχει δημόσια συζήτηση με τον φιλόσοφο και ηγέτη του Κόμματος της Ισλαμικής Αναγέννησης Γκαϊντάρ Τζεμάλ, και συμμετέχει επίσης σε μια διαδήλωση Αράβων φοιτητών στους δρόμους της Μόσχας.


 
O Jean Thiriart με τον Aleksandr Dugin στην Μόσχα.
 

 
Αύγουστος 1992: Ο Thiriart μαζί με Άραβες φοιτητές στη Μόσχα, έξω από το Ρωσικό Κοινοβούλιο που είχε συνάντηση εργασίας με τον Guenadi Zuganov και τον Egor Ligatchev. Διαδηλώνουν ενάντια στην Αμερική.


Claudio Mutti και Aleksandr Dugin

Στις 23 Νοεμβρίου, τρεις μήνες μετά την επιστροφή του στο Βέλγιο, ο Thiriart πεθαίνει από καρδιακή προσβολή.

Σήμερα χαρακτηρίζεται αναμφισβήτητα ως προφήτης της ενωμένης Ευρώπης από το Δουβλίνο μέχρι το Βλαδιβοστόκ. Μίας ιδέας για Ευρώπη αυτόνομη, ένοπλη, αντιιμπεριαλιστική, κοινοτιστική. Ένα επαναστατικό όραμα ενός μεγάλου έθνους στην Ευρασία.

Ο Thiriart απέρριπτε τις κατηγορίες ότι ήταν φασίστας. Ήξερε, ότι για να ξεφύγει από την πολιτική απομόνωση, έπρεπε να απορρίψει τις νοσταλγικές παγίδες της προπολεμικής εποχής και να προσαρμοστεί στις πολιτικές και κοινωνικές πραγματικότητες της δεκαετίας του 1960. Απέρριψε τον εθνικοσοσιαλισμό ως παρωχημένο και κατηγορούσε όσους γυρνούσαν με σβάστικες, ως νοσταλγούς και γελοίες καρικατούρες. Αντ’ αυτού, επαναπροσδιόρισε μία εντελώς νέα τοποθέτηση, πέρα από το συνηθισμένο πολιτικό φάσμα: “Θεωρούμε τους εαυτούς μας ως την πρώτη γραμμή του Κέντρου, η avant-garde του Κέντρου. Τα σχήματα των πολιτικών προσδιορισμών σήμερα, από την άκρα δεξιά στην άκρα αριστερά είναι εντελώς ξεπερασμένα.”

Το πιο διάσημο και αναμφισβήτητα προφητικό βιβλίο του Jean Thiriart, έχει τίτλο “Ευρώπη: Μια αυτοκρατορία 400 εκατομμυρίων ανθρώπων”. Εξεδόθη το 1964, έχει μεταφραστεί σε πολλές ευρωπαϊκές γλώσσες (στην Ελλάδα όχι και γενικά ο Thiriart είναι παντελώς άγνωστος), πουλά ακόμα χιλιάδες αντίτυπα και σίγουρα έχει επηρεάσει ιστορικά τις πολιτικές εξελίξεις. Είναι προφητικό, επειδή προέβλεψε την κατάρρευση του σοβιετικού συστήματος, και αυτό μια δεκαετία πριν από το ρεύμα του “ευρωκομμουνισμού”. Όπως και ο Yockey, θεωρεί την Ευρώπη σαν μία δύναμη που έχει μονοπωλιακά την αποστολή να εκπολιτίζει στον κόσμο. Γράφει χαρακτηριστικά: “Στο τρένο της ιστορίας, η Ευρώπη αντιπροσωπεύει την ενέργεια που κινεί την ατμομηχανή και οι μαύρες φυλές αντιπροσωπεύουν τα βαγόνια.” Η περιγραφή της ηγεμονίας των ΗΠΑ στην Ευρώπη εξακολουθεί να είναι πραγματικά επίκαιρη και σίγουρα ο Thiriart υπερβαίνει τις διάφορες ιδεολογικές αγκυλώσεις, ιδιαίτερα του εθνοκεντρικού πολιτικού χώρου της Ευρώπης. Στο αντίτυπο που χάρισε κάποτε στον Claudio Mutti είχε γράψει μια ιδιόχειρη αφιέρωση που αντηχεί προς τους νεότερους αναγνώστες: “Η δική σας γενιά είναι η πιο όμορφη. Έχετε μπροστά σας μια αυτοκρατορία να οικοδομήσετε.” Σε αντίθεση με τον Luttwak και τον Toni Negri, ο Thiriart γνώριζε ότι η αυτοκρατορία είναι το ακριβώς αντίθετο του ιμπεριαλισμού και ότι οι ΗΠΑ δεν είναι μία Ρώμη, αλλά μία Καρχηδόνα.

ΕΥΡΩΠΗ – ΕΘΝΟΣ – ΕΠΑΝΑΣΤΑΣΗ
Το βιβλίο “Ευρώπη: Μια αυτοκρατορία 400 εκατομμυρίων ανθρώπων” από τις εκδόσεις “Avatar” που έχει σήμερα ο Claudio Mutti.


16 Οκτωβρίου 2011: Ο Claudio Mutti με τον Aleksandr Dugin στο Πανεπιστήμιο της Μόσχας σε συνέδριο που διοργάνωσαν με θέμα “Η ελληνική παράδοση ενάντια στον μεταμοντέρνο κόσμο”. Το περιοδικό που εκδίδει σήμερα ο Claudio Mutti.

 

http://4pt.su/el/content/o-jean-thiriart-kai-i-idea-tis-megalis-koinotistikis-eyropis

ORÍGENES DE LAS FORMAS DE GOBIERNO EN IBEROAMÉRICA

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Las formas y los diferentes regímenes de gobierno comienzan en Nuestra América con el virreinato colombino que se distingue claramente del posterior virreinato indiano.

Así Cristobal Colón en su ambición desmedida solicitó y obtuvo de los Reyes Católicos Isabel de Castilla y Fernando de Aragón tres títulos: el de almirante, el de gobernador y el de virrey a perpetuidad. Títulos otorgados en las capitulaciones de Granada el 17 y el 30 de abril de 1492. “seades nuestro almirante, e viso-rrey e governador. E asy vustros fijos e subcesores en el dicho oficio e cargo puedan yntitular e llamar don e almirante e viso-rrey e governador dellas”.

Pero de hecho el único cargo que ejerció fue el de gobernador, pues el de virrey fue sólo honorífico. Su gobierno en América dejó mucho que desear y fue reemplazado en su cargo por Bobadilla en 1499 que sólo poseyó el título de gobernador.

El virreinato indiano aparece recién en 1535 con la creación del Virreinato de Nueva España en México.

La particularidad y originalidad de esta institución no se equipara con los antiguos virreinatos sino sólo en el término. Pues si bien hubo vireyes españoles en Cataluña, Valencia, Mallorca, Cerdeña, Nápoles, Sicilia, Aragón y Castilla (en estas dos últimas cuando los reyes viajaban y se veían obligados a alejarse) ninguno de ellos se puede equiparar al virreinato indiano dado que: Los virreinatos españoles en Europa no alcanzaron a fijarse en un modelo determinado” [1]. Nuestra institución virreinal poseyó dos rasgos propios, típicos y originales: a)  los virreyes tienen mayor poder que los europeos y adoptan medias sin consulta previa a la Corte, asimilándose así a los mismos reyes que los nombran y envían. b) los súbditos indianos forman parte indisoluble de la corona y el virrey no somete ni desconoce a la población que se halla en sus dominios y son equiparados a los habitantes de España, mientras que en los virreinatos europeos no se dio esta equiparación.

A esta institución hay que agregar para el Brasil el régimen de catorce capitanías creado por el rey de Portugal en 1532 de las cuales solo Pernambuco tuvo éxito. En la América española se utilizaron las capitanías como la de Chile, Guatemala y Venezuela como territorios militarizados y gobernados militarmente por un capitán general de allí su nombre.

 

Elementos destacados en el gobierno de Iberoamérica

Al regreso de Colón de su primer viaje en mayo de 1493, Isabel la Católica designó a Juan Rodríguez de Fonseca que era miembro del Consejo de Castilla para que se hiciera cargo de todos los asuntos de las tierras recién descubiertas. En 1503 con la creación de la Casa de Contratación se le quitó injerencia en los asuntos comerciales, pero siguió al frente de la administración de los asuntos americanos hasta la creación en 1524 del Real y Supremo Consejo de Indias por Carlos V, de Alemania y Carlos I de España.

Se establece entonces que las Indias pertenecen a la corona de Castilla, son propiedad de la corona española que se transforma así en una monarquía patrimonial absoluta, porque habían sido descubiertas y exploradas con el favor de Isabel de Castilla, de modo tal que todas las leyes de Indias y su gobierno se modelaron sobre las de Castilla.

La influencia del Consejo de Indias se extendió a todos los dominios: judicial, financiero, eclesiástico, legislativo, comercial, la censura y militar. Así fue tribunal de última instancia en todos los asuntos.

Con el advenimiento de los Borbones en el 1700 y en especial de Carlos III (1759), se deja de lado la teoría de los Habsburgo acerca de la relación de la Corona y sus posesiones americanas y se busca la unificación y coordinación de la metrópoli y las colonias, estableciéndose el centralismo borbónico típico de las monarquías absolutas. América dejó de depender del rey para depender de la metrópoli. Y los americanos dejaron de ser vasallos, regidos por el pacto monárquico según el cual tenían con el rey obligaciones recíprocas para transformarse en súbditos, quienes debían al rey obediencia incondicional. Dejamos, merced a la influencia de la ilustración francesa sobre la monarquía borbónica de ser reinos para pasar a ser colonias.

Este salto cualitativo va a provocar, en nuestra opinión en contrario a lo históricamente correcto, la reacción independentista. Es que el orden Borbón, ilustrado y cosmopolita, hizo de Nuestra América  tierra de saqueo, no sólo al reemplazar las autoridades criollas locales por funcionarios de la península sino además porque al pasar a ser súbitos y colonias nuestra finalidad era proveer a la metrópoli.

Retornemos a los siglos XVI y XVII, donde los agentes políticos, judiciales y militares más significativos en América eran los virreyes, las Audiencias y los capitanes generales.

Los virreyes y capitanes ejercían la autoridad suprema dentro de su jurisdicción ya sea en los virreinatos ya en las capitanías y las audiencias respectivas, encargadas éstas de la administración de justicia y en casos de la función legislativa, que también dependían de ellos. Las audiencias estaban ubicadas en la ciudad principal de cada jurisdicción, pero mientras que en España eran simples tribunales en América ejercían la doble función judicial y política administrativa. Y “ la protección de los intereses aborígenes se consideraba siempre una de sus funciones más importantes, tan así es que dos días a la semana se reservaban a juicios entre indios o entre éstos y españoles” [2]

El gobierno de América no se fundaba como los Estados constitucionales modernos en la división de poderes, ejecutivo, legislativo y judicial, sino en una división de autoridad entre diferentes individuos o tribunales donde ejercían los mismos poderes todos. Además la visita, los oidores, la residencia, la acordada eran todas figuras político, administrativas que hacían que el gobierno en las Indias fuera, en realidad, un juego de pesos y contrapesos.

Jurisdiccionalmente el gobierno de América se dividió en dos grandes virreinatos Nueva España para México, Norteamérica y Centroamérica, y el del Perú para Suramérica de quienes dependían gobernaciones como la de Buenos Aires. Se crearon luego otros dos virreinatos (circa 1776) el del Río de la Plata, para el cono sur de América y el de Nueva Granada para el norte de Suramérica y parte de Centroamérica. Además tuvo capitanías como la de Chile, Venezuela, Quito o Guatemala.

En cuanto a las jurisdicciones locales eran gobernadas según el caso por corregidores, gobernadores o alcaldes mayores, quienes poseían autoridad política y judicial dentro de sus distritos. Con las reformas de Carlos III, los corregimientos y alcaldías pasaron a llamarse Intendencias que marcan el centralismo borbónico típicamente francés. Y así se comete el desatino de desarmar el andamiaje plural del gobierno americano de los Habsburgos. Al respecto afirma el estudioso inglés Haring: “ En Nueva España había alrededor de doscientos corregidores y alcaldes mayores y en su lugar fueron establecidas doce Intendencias” [3]

En realidad las Intendencias fueron creadas para una más ajustada, precisa y eficaz recaudación de las rentas reales, que con el sistema anterior se diluían en el entramado administrativo de los doscientos corregimientos que eran difícil de controlar.

Las jurisdicciones locales tienen la figura de los Cabildos, tan familiar para nosotros desde la escuela primaria, también llamados ayuntamietos o corporación municipal.

Era un organismo, básicamente, deliberativo de la comunidad urbana y suburbana en donde el elemento criollo se hallaba representado.

Las ciudades indianas fueron un transplante de los viejos municipios castellanos de la Edad Media tanto en su trazado como en su administración. La autoridad municipal estaba representada por los regidores o concejales y los alcaldes o magistrados, el número de concejales variaba según la importancia de la ciudad y el de alcaldes era de uno en las pequeñas poblaciones y de dos en las mayores.

Al ser la institución del Cabildo la única que se perpetuaba a sí misma sin ser un apéndice administrativo de España y ser la única entidad de gobierno en que se les daba al elemento criollo amplia participación al caer el trono español cuando José Bonaparte toma Madrid, los colonos americanos convirtieron al Cabildo, y sobre todo al Cabildo Abierto a todos los ciudadanos, en el centro político, transformándola en la única institución capaz de dar los pasos en la constitución de los primeros gobiernos americanos.

Concluyendo, podemos afirmar que el virreinato indiano por su funcionamiento y características es una institución propia y específica de América en tanto que la institución del cabildo es el gozne o eslabón sobre el que gira y se vinculan dos regímenes políticos diametralmente distintos como lo fueron la monarquía española en la época de la colonia y la república a partir de la Independencia americana.

 

 

* Alberto Buela. CeeS –Federación del Papel. Este trabajo nació como un aporte a la investigación dirigida por el secretario de Estado de la Provincia de Buenos Aires Norberto García de Chivilcoy.

alberto.buela@gmail.com

Casilla 3198 (1000) Buenos Aires



[1] Radaelli, Sigfrido: La institución virreinal en las indias, Perrot, Buenos Aires, 1957, p.53

[2] Haring, Clarence: El imperio hispánico en América, Buenos Aires, Ed. Solar.Hachette, 1972, p. 138.

[3] Haring, Clerence: op.cit., p.151. Hay que agregar que el gobernador intendente era elegido en España en tanto que los antiguos corregidores y alcaldes muchos de los cuales eran americanos.

LES ÉCHANGES FINANCIERS SOUS CONTRÔLE AMÉRICAIN

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Le dernier accord,  signé en juin 2007 entre les Etats -Unis et l’Union européenne, concernant le contrôle des passagers aériens, ainsi que celui du 28 juin 2007, relatif au transfert des données financières vers les USA, consacrent une nouveau mode d’existence du droit international. En fait, plutôt de droit international, il faut parler du droit national américain qui s’applique directement sur le territoire de l’Union européenne. La technique d’écriture consacrant la primauté du droit américain est la même dans les deux cas. Il ne s’agit pas d’accords entre deux puissances étatiques situées formellement sur un même plan, mais d’un engagement unilatéral de la part des Etats-Unis, qui le consacre comme puissance impériale exerçant une souveraineté directe sur les populations européennes. Pour satisfaire les exigences américaines, l’Union abandonne sa propre légalité et transforme son ordre juridique. Il s’agit de légaliser la situation de fait, engendrée par la décision des autorités américaines de se saisir des données personnelles des ressortissants européens et de violer les protections juridiques de la vie privée, mises en place au sein de l’Union.

 

Une société de droit belge sous souveraineté américaine

Le 23 juin 2006, le New York Times a mis en lumière l’installation, par la CIA, d’un programme de surveillance des transactions financières internationales. Le journal a révélé le fait que la société belge Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Communications) a, depuis les attentats du 11 septembre, transmis, au Département du Trésor des Etats-Unis, des dizaines de millions de données confidentielles concernant les opérations de ses clients. Ce transfert a eu lieu en dehors du cadre légal d’échanges d’informations financières entre gouvernements, à l’insu des personnes concernées et des autorités de protection de la vie privée, belges et européennes.

Swift, société américaine de droit belge, gère les échanges internationaux de quelques huit mille institutions financières situées dans 208 pays : des banques, des sociétés de courtage et des gestionnaires de fonds de placement. Swift assure le transfert de données relatives aux paiements ou aux titres, y compris les transactions internationales en devises, mais ne fait pas transiter d’argent Ce sont plus de 14 millions de messages Swift qui sont échangés chaque jour sur le réseau. C’est par elle que passe l’essentiel des échanges du secteur bancaire international. C’est pourquoi ses services sont devenus indispensables aux banques, sociétés de courtages et bourses. Ces dernières n’ont pratiquement pas d’alternative aux services offerts par cette firme.

Les données échangées sont stockées sur deux serveurs. L’un situé en Europe, l’autre aux Etats-Unis. Chacun comprend l’ensemble des données. Ce dédoublement, qui permet le transfert des données vers les USA, est présenté par la société comme une garantie en cas d’incident.

La société Swift est soumise au droit belge et à celui de la communauté européenne, du fait de la localisation de son siège social près de Bruxelles. Les messages interbancaires, échangés sur le réseau Swift, contiennent des données à caractère personnel, protégées par le droit européen à travers la Directive 95/46/CE, et par le droit belge qui a intégré la directive.

Cette société est soumise également au droit américain, du fait de la localisation de son second serveur sur le sol des Etats-Unis. Ainsi, la société a ainsi choisi de violer le droit européen, afin de se soumettre aux injonctions de l’exécutif américain.

 

Société privée et banques centrales relais de la lutte antiterroriste.

Dès 2002, la société Swift avait informé ses autorités financières de tutelle, belges et européennes, la Banque nationale de Belgique(BNB) et la Banque centrale européenne(BCE). En fait l’ensemble des banques centrales du G 10 (Canada, Allemagne, France, Italie, Japon, Pays-Bas, Suède, Suisse, Angleterre, Etats-Unis) et des pays, alliés des Etats-Unis dans la guerre contre le terrorisme,  étaient au courant de la transmission des informations financières.

La BNB n’a pas jugé utile de faire rapport à son gouvernement. La BCE a adopté la même attitude vis à vis de la Commission et du Conseil européens. La BCE a été mise en cause par le Parlement européen, ainsi que par le contrôleur européen de la protection des données, dans un avis du premier février 2007. Sa défense a consisté à mettre en avant une compétence purement opérationnelle et technique. Son directeur a aussi justifié son silence en indiquant que, comme les injonctions  présentées à Swift l’étaient au nom de la lutte antiterroriste, cette information ne pouvait ni être transmise à des tiers, ni rendue publique.

Au reproche qui lui est fait d’avoir gardé secrète la remise des données aux autorités américaines, Swift a fait valoir des règles internes de fonctionnement, de maintien de la confidentialité, notamment une clause de « no comment », qui stipule que la société ne communique pas les demandes d’autorités luttant contre les activités illégales. Malgré la constatation des multiples violations des droit belge et communautaire, les autorités belges se sont toujours refusées à poursuivre la société Swift.

A travers cette affaire, une firme privée et des banques centrales, désignées, par l’exécutif américain, comme des organes impliqués dans la lutte mondiale contre le terrorisme,   considèrent que cette certification les autorise d’échapper à toute forme de contrôle judiciaire ou administratif des Etats nationaux dont elles relèvent, y compris de leurs autorités de tutelle en ce qui concerne les banques centrales. Les Etats nationaux, ainsi que l’Union européenne, rendent légitime cette violation de leur légalité, en permettant à la capture  d’informations de perdurer et en ne prenant aucune forme de sanction, ni même n’émettant aucune protestation contre cet état de fait.

 

Des justifications officielles démenties par l’action gouvernementale .

L’administration américaine justifie le programme Swift car il aurait permis l’arrestation de terroristes. Le secrétaire du Trésor a toujours affirmé que « l’argent ne ment pas » et qu’il « permet de localiser les auteurs d’attentats, comme leurs financiers, de retracer les réseaux terroristes, de les amener devant la justice, et de ce fait, de sauver des vies ».Il s’agit de déclarations qui ne sont pas soutenues par des éléments de preuve et qui font fi de la réalité. La préparation d’attentats est souvent peu coûteuse et ne nécessite aucunement des réseaux de financement complexes. De plus, lorsque des mouvements de capitaux suspects peuvent conduire à des responsables, l’administration peut délibérément les ignorer, comme le théorise le rapport officiel de la commission d’enquête sur les attentats du 11 septembre, étroitement contrôlée par le gouvernement américain, pour qui connaître les commanditaires des attentats « importe peu ».

Cette volonté de ne pas utiliser les données des transactions financières pour rechercher les auteurs ou bénéficiaires des attentats se concrétise dans le refus d’enquêter sur les mouvements spéculatif portant sur les firmes touchées par les attentats. Juste avant les attaques du 11 septembre, le 6, 7 et 8, il y a eu des placements d’options sur les actions des 2 compagnies aériennes [Americain et United Airlines] qui furent détournées par les pirates. Il y a eu également des options de vente sur Merril Lynch, l’un des plus grands locataires du World Trade Center. Ces informations ont été révélées par Ernst Welteke, président de la Deutsche Bank à l’époque, qui a aussi déclaré qu’il y avait beaucoup de faits qui prouvent que les personnes impliquées dans les attaques profitèrent d’informations confidentielles et qu’il y a eu beaucoup de négociations suspectes impliquant des sociétés financières avant les attentats.

Le professeur canadien Benoît Perron a relevé que, en fait, ce sont 38 firmes, touchées par les attentats, qui avaient fait l’objet de spéculations, par l’entremise de la Deutsche Bank,dans les jours précédents le 11 septembre.

En opposition avec ces déclarations, le rapport de la Commission du 9/11, chargé de conforter la thèse gouvernementale sur les attentats, conclut unilatéralement qu’il n’y a pas de preuves d’un commerce illicite sur le marché américain qui serait en rapport avec ces attaques terroristes. Sans apporter d’éléments, le rapport mentionne que : « Des enquêtes approfondies de la SEC, du FBI et autres agences ne révèlent aucune preuve que qui que ce soit ait profité d’une connaissance préalable des attaques en transigeant des titres. » Le rapport constate ainsi que « le gouvernement US a été incapable de déterminer l’origine des fonds dans les attaques du 11 septembre », mais que « en fin de compte, cela n’a que peu d’importance »

Le refus des autorités américaines d’utiliser les traces des données financières pour enquêter sur les responsables des attentats du 11 septembre nous indique que la capture de masse des  informations liées aux transactions a un tout autre objet que celui mis en avant par le pouvoir exécutif.

 

Une violation de la vie privée

La Commission belge de la protection de la vie privée a rendu un avis le 27 septembre 2006. Elle estime que « les mesures exceptionnelles en vertu du droit américain pouvaient difficilement légitimer une violation cachée, systématique, massive et de longue durée des principes européens fondamentaux en matière de protection des données » et que la société « s’est limitée au respect du droit américain et à la recherche de solutions via des négociations secrètes avec le Département des douanes américaines ». Elle estime que le manque de transparence et de mécanismes de contrôle effectifs de l’ensemble de la procédure de transfert des données, d’abord vers les États-Unis et ensuite vers le département des douanes, représente une violation grave au sens de la directive européenne. Par ailleurs, ni les garanties liées au transfert de d’informations personnelles  vers un pays tiers, telles qu’elles sont définies par la directive, ni les principes de proportionnalité et de nécessité, ne sont respectés.

Le groupe de l’article 29, qui relève de la Commission européenne, a également rendu un rapport sur cette affaire le 22 novembre 2006. cette institution a préféré critiquer les conditions de transmission des données plutôt que le transfert lui-même. Son apport spécifique consiste dans une série de recommandations qu’il émet, afin de régulariser la situation, c’est à dire de rendre cette capture acceptable vis à vis de l’ordre juridique européen.

Le débat entamé, le 31 janvier 2007, au Parlement européen va faire ressortir une opposition d’attitude entre, d’une part, le Parlement et, d’autre part, la Commission et le Conseil. Ces derniers ont adopté une position proche du point de vue américain. Le vice président de la Commission, Franco Frattini, va jusqu’à regretter la publicité qui pourrait être donnée à un accord entre les Etats-Unis et l’Union européenne concernant cette affaire. Quant au Parlement, il a surtout insisté sur la nécessité de mettre en place un accord bilatéral qui lie les deux parties. La solution adoptée sera contraire à ses voeux, puisque le texte final prendra la forme d’un engagement unilatéral de la part des Etats-Unis.

 

Derrière le sécuritaire, un objectif politique.

La surveillance générale des transactions ne s’avère être qu’un objectif partiel. Les services de renseignements américains disposent déjà de tous les moyens pour avoir accès aux données Swift FIN. Rappelons l’existence du système Echelon, ainsi que du programme de surveillance de la NSA, qui permettent de se saisir des informations électroniques en temps réel. Leur lecture est d’autant plus facile que les systèmes de cryptage, DES, 3DES et AES, des données relatives aux transactions mondiales entre banques, dont les messages Swift, sont tous les trois des standards américains brevetés aux USA. 

L’exécutif des Etats-Unis se fait donc remettre des données qu’il possède déjà ou qu’il peut obtenir facilement. Le fait d’obliger les sociétés privées à violer le droit européen, ainsi que de pousser les autorités politiques de ce continent à transformer leur légalité, afin d’autoriser cette capture, est l’enjeu principal des exigences américaines. Pour l’exécutif des Etats-Unis,  il ne s’agit pas uniquement d’installer un système de contrôle en temps réel des transactions financières internationales, qui met à mal toutes les protections de droit public et privé, mais aussi de le faire accepter par toutes les parties, de le faire légitimer. 

 

Une légalisation de l’exception

La cessation des transferts vers les douanes américaines n’a jamais été envisagée. La transmission des informations a d’ailleurs continué après la révélation de l’affaire. Les négociations ont été immédiatement orientées vers l’obtention de « garanties » rendant ces transferts compatibles avec la législation européenne. Ces dernières vont comporter un double volet : d’une part, une modification des règles de fonctionnement de la société Swift, qui devrait l’autoriser à transférer les données personnelles aux Etats-Unis, et d’autre part, des engagements de la part des Etats- Unis de modérer leur utilisation des informations  transmises.

Afin de réaliser le premier volet des mesures de sauvegarde, c’est à dire de régulariser les transferts sur le sol américain, une solution a été recherchée en conformité avec Directive européenne. Si celle-ci interdit la transmission de d’informations vers les pays ne présentant pas un niveau de protection adéquat, elle prévoit des exceptions, afin de rendre possible, à certaines conditions, des transferts de données personnelles ayant lieu dans un cadre commercial.

Ainsi, la société a adhéré aux principes du Save Harbor, qui « garantit » que les données stockées dans le serveur américain sont protégées par des normes analogues à celles en vigueur dans l’Union européenne.

L’adhésion aux principes du « Save Harbor »  procède par une autocertification de la société adhérente elle-même, sensée fournir des garanties quand aux possibilités de contestation  auprès d’autorités indépendantes. Mais, tel que le précise Yves Poullet : « la qualité d’indépendance de ces autorités est peu définie et la manière dont ces organisations sont soumises.., non précisées. »Les conclusions de ce juriste belge en ce qui concerne le Save Harbor System sont sans appel : « En définitive, on regrette que le Safe Harbor laisse en définitive la personne concernée démunie. C’est à elle de vérifier la situation de conformité ou non de l’organisme américain qui traite des données, c’est à elle de trouver et saisir l’autorité indépendante de contrôle apte à étudier son cas, c’est à elle de proposer les arguments de sa demande ».

Si malgré tous ces obstacles, une personne ou une entreprise a la possibilité de pouvoir constater un manquement à la procédure de protection des données, qui lui porte préjudice, et qu’elle a la capacité d’entamer des poursuites, l’administration américaine se réserve la possibilité d’empêcher toute action judiciaire. Le pouvoir exécutif peut en effet invoquer la notion de « secret d’Etat », afin d’empêcher toute poursuite contre la société Swift. Le « secret d’Etat » permet au gouvernement de stopper des actions judiciaires en cours, pour des raisons de sécurité nationale. Cette procédure a déjà été utilisée avec succès, en appel, dans deux procès de financiers américains contre la société Swift.

 

Un texte unilatéral 

Quant au deuxième volet de l’accord, celui qui autorise la saisie des données personnelles par l’administration américaine, les négociations, menées en avril 2007 à Washington, aboutissent à un engagement unilatéral de la part des Etats-Unis. Celui-ci est contenu dans une lettre du Département du Trésor du 28 juin 2007. Il ne s’agit donc pas d’un accord bilatéral, comme le souhaitait le Parlement européen, mais bien d’un texte, dont le contenu n’a pas besoin de l’accord des deux parties pour pouvoir être modifié. L’administration des Etats-Unis a la possibilité, sans assentiment, ni même consultation de l’autre partie, de modifier ses engagements, selon l’évolution de la législation américaine  ou selon sa volonté d’émettre de nouvelles exigences.

Dans cette lettre, le Département du Trésor donne des garanties purement formelles quant à l’utilisation des données. Il s’engage à les utiliser ou les échanger, avec d’autre agences ou des pays tiers, exclusivement pour lutter contre le terrorisme. Cependant la définition du terrorisme est tellement large qu’elle peut s’appliquer à toute personne ou organisation ciblée par l’administration.

Toute utilisation des informations, à des fins commerciales ou industrielles est formellement exclue. Cet engagement révèle le caractère virtuel des garanties accordées par l’administration étasunienne. Il constitue un véritable déni des possibilités, informelles mais aussi légales, offertes aux entreprises américaines d’avoir accès aux données stockées par les douanes ou toute autre institution. En certaines circonstances et au nom de la liberté du commerce, le Freedom of Information Act oblige les agences fédérales à transmettre leurs informations aux aux entreprises privées qui en font la demande. La différence de législation entre les pays de l’Union européenne et les Etats-Unis fait de ces derniers la base et l’élément moteur de la formation d’un grand marché des données personnelles.

Les données dormantes que le Trésor américain a obtenues sur injonction et qui ne se sont pas avérées nécessaires pour lutter contre le terrorisme, ne seront pas conservées plus de cinq années après leur réception. Ce laisse beaucoup de temps aux agences américaines pour les utiliser selon leur bon vouloir. Le caractère légal de la capture des données indique qu’elles pourraient servir de preuves dans des procédures judiciaires, connexes à la lutte antiterroriste, ou pour toute autre affaire, si l’administration américaine modifie entre-temps ses engagements unilatéraux.

Ces derniers  prévoient la désignation d’une personnalité européenne «éminente», désignée par la Commission européenne, qui fera un rapport annuel. Les modalités du contrôle, ainsi que les moyens mis à la disposition de la « personnalité éminente », ne sont pas précisées.

 

Des garanties illusoires

Comme garantie du respect de la confidentialité des informations, la lettre, envoyée par la partie américaine, insiste sur l’existence de plusieurs niveaux indépendants de contrôle. Sans apporter d’autres précisions, le texte mentionne « d’autres administrations officielles indépendantes », ainsi qu’un « cabinet d’audit indépendant ». Qu’une administration soit considérée comme une institution  indépendante d’une autre administration du même Etat en dit déjà beaucoup sur la formalité de cette autonomie. La même remarque peut être faite en ce qui concerne l’audit indépendant. Ainsi, lorsque l’affaire Swift a éclaté en juin 2006,  le gouvernement avait déjà déclaré qu’il n’y avait eu aucun abus dans l’utilisation des données, vu que l’accès à celles-ci était contrôlé par une  société privée « externe »,  le groupe Booz Allen.

La question de la possibilité d’un contrôle d’une société privée sur l’action d’une administration publique et de l’autonomie pouvant exister entre ces deux entités, se pose encore d’avantage en ce qui concerne la société concernée. Booz Allen est une des plus importantes sociétés en contrat avec le gouvernement américain. L’interpénétration entre public et privé est organique. Le conseil d’administration de la société privée comprend de nombreux anciens membres du personnel de la défense et du renseignement, notamment des anciens directeurs de la CIA et de la NSA. Cette société est impliquée dans les projets les plus liberticides du gouvernement Bush, dont le défunt projet de surveillance totale des populations, connu sous le nom « Total Information Awareness Program ». Qu’une telle société privée puisse être présentée comme indépendante du pouvoir exécutif des Etats-Unis en dit long sur la solidité des garanties obtenues par les négociateurs européens, ainsi que sur la capacité de la partie européenne d’accepter toutes les allégations de la partie américaine, même celles qui sont le plus sûrement démenties par les faits

 

Une rationalisation du système Swift 

Dès juin 2007, il était  prévu que les données Swift inter-européennes ne soient plus transférées aux Etats-Unis, mais sur un second serveur européen. Fin mars 2008, des représentants de la société Swift ont laissé entendre que celui-ci serait situé dans la région de Zurich et serait opérationnel fin 2009. Cette nouvelle procédure est plus conforme à la décision-cadre européenne sur la protection des données personnelles que les principes Save Harbor. Cependant, il reste des questions non résolues puisque le terme de donnée inter-européenne n’est pas une notion juridique et que la décision-cadre protège toutes les données traitées sur le sol européen, qu’elles portent sur des résidents européens ou non. Sur quelle base juridique va-t-on déterminer ce qui sera transféré sur le second serveur européen ou ce qui sera stocké sur le serveur américain?

Cependant, l’élément essentiel reste que la décision-cadre prévoit des exceptions en matière police-justice et qu’elle laisse la porte ouverte pour l’accès des autorités américaines aux données financières des ressortissants européens. Simplement  « l’accord » devra être adapté en conséquence. Celui-ci est évolutif. Il est construit de manière à pouvoir répondre en permanence à de nouvelles exigences américaines. Rappelons que, en ce qui concerne les données des passagers aériens, les douanes américaines ont directement accès aux terminaux des compagnies situées sur le sol européen. Que cela soit par un tel système ou, plus probablement, par le biais d’injonctions déterminées, les autorités américaines continueront à se faire remettre des données financières européennes. L’alibi du serveur américain ne fonctionnant plus, cela aura pour effet de renforcer encore la souveraineté américaine sur le sol européen. Ce qui est l’objectif fondamental de cette affaire.

 

Un nouvel ordre juridique mondial.

Dans les faits, les autorités américaines ont la possibilité d’utiliser les données transmises comme ils l’entendent. Le contrôle exercé par la personnalité « éminente »,  désignée par l’Union européenne, n’est pas précisé quant à son contenu, ni en ce qui concerne les moyens mis à sa disposition. De plus, il s’agit d’un contrôle à posteriori, qui, d’abord, laisse libre cours à l’action des agences américaines.

Malgré le rapport spécialement envoyé par l’ACLU, l’association américaine de défense des libertés individuelles, sur la société Booz Allen, les négociateurs européens font semblant de croire que les autorités politiques des Etats-Unis ont installé des organes de surveillance indépendants. Alors que les douanes américaines se donnent le pouvoir d’utiliser, de copier et de transférer, tous azimuts, l’ensemble des données financières, le fait qu’ils s’engagent à ne pas conserver plus de cinq ans les informations qui ne leurs servent pas, est considéré comme une concession par les américains et une avancée importante par les négociateurs européens.

Comme « l’accord » de juin 2007, permettant le transfert des données personnelles des passagers aériens, le récent « accord » autorisant la société Swift à transmettre ses informations aux autorités américaines, révèle l’existence d’une structure politique impériale, dans laquelle l’exécutif américain occupe la place de donneur d’ordres et les institutions européennes remplissent une simple fonction de légitimation vis à vis de leurs populations.

A aucun moment, il n’a été envisagé d’interdire à la société Swift, malgré le viol permanent de la législation européenne qu’engendre cette pratique, de transférer l’ensemble de ses données sur son serveur américain. De même, l’Union européenne ne s’est jamais opposée à la remise des  données PNR par les compagnies aériennes situées sur le sol Européen. L’initiative unilatérale américaine de se saisir de ces données est automatiquement reconnue comme acceptable par la partie européenne qui doit adapter sa légalité, ou en tordre la lecture, pour l’adapter aux exigences d’outre-atlantique.

Dans les deux cas, passagers aériens et affaire Swift, la technique juridique est identique. En fait, il ne s’agit pas d’accords juridiques entre deux parties, entre deux puissances formellement souveraines. Il n’existe qu’une seule partie, l’administration des Etats-Unis qui, dans les faits, s’adresse directement aux ressortissants européens. Dans les deux textes, le pouvoir exécutif américain réaffirme son droit de disposer de leur données personnelles. En compensation, dans une démarche unilatérale, il concède des « garanties », des « privilèges » qu’il peut unilatéralement modifier ou supprimer. Ainsi, le pouvoir exécutif des Etats-Unis exerce directement sa souveraineté sur les populations européennes.

L’affaire Swift montre bien le déploiement de la structure impériale. Dans un premier temps, la capture des données reste secrète, à la fois pour les populations concernées et les organes politiques légitimes : parlements nationaux et européens, Commission et Conseil de l’Union européenne, pouvoirs exécutifs des pays membres. La décision de l’administration américaine est exécutée par une firme privée de droit belge, couverte par la banque centrale européenne et les banques nationales des pays membres.

La firme privée Swift qui gère le transfert des transactions financières internationales et les  banques centrales, chargées de la régulation des marchés monétaires, se considèrent comme des organes de la lutte antiterroriste. Elles se placent immédiatement sous le commandement de l’exécutif des Etats-Unis. Elles se comportent comme les organes d’une structure économique mondiale de nature asymétrique, une structure dans laquelle les firmes américaines, liées étroitement à l’exécutif des Etats-Unis, ont la possibilité de surveiller les échanges financiers de leurs concurrents. En opposition avec leurs statuts, les banques centrales se présentent   directement comme des organisations gestionnaires de la hiérarchie impériale et non comme des  organes  de la « puissance » nationale ou régionale, qui les ont institué.

La capacité que possède l’administration américaine, de se faire remettre les données personnelles des ressortissants européens et de s’assurer la complicité des autorités de régulation monétaire, dévoile la structure horizontale de l’Empire. La gouvernance du marché mondial établit une hiérarchie politique dans les différents acteurs économiques.

Cependant, cette réalité n’est pas nouvelle. Le système d’espionnage ECHELON assurait déjà aux principales entreprises américaines l’obtention d’informations en ce qui concerne l’activité de leurs concurrents étrangers. Par exemple, ce système d’écoutes à déjà permis à la société Boing de ravir des contrats à son concurrent Airbus, sans que ce dernier se permette la moindre protestation officielle. La décision américaine d’espionner les firmes européennes pour le compte de leurs entreprises nationales est automatiquement acceptée par les firmes concurrentes, comme s’il s’agissait d’un droit naturel. Le rapport de domination produit automatiquement le consentement. A ce premier niveau, qui fusionne économique et politique, domination et hégémonie sont confondues. Ce que l’on a appelé la gouvernance mondiale rend  compte de ce processus

La coopération policière entre les Etats-Unis et l’Union européenne, c’est à dire l’organisation des différentes polices européennes par le FBI à partir de la fin des années 80, s’articule à cette gouvernance mondiale. La fonction de police se révèle d’abord comme une procédure de régulation des marchés, de la détermination de ce qui relève de la gestion normale des affaires et de ce qui est considéré comme criminel. Au niveau de l’organisation des polices, la direction américaine structure les rapports entre ses « alliés ». Elle  exerce une direction politique sur la construction européenne. Ici aussi, domination et hégémonie sont un seul et même processus. La domination américaine ne recherche pas une reconnaissance des populations concernées. Cette « coopération » est d’ailleurs peu médiatisée, le plus souvent, de caractère secret.

La fonction de police noue régulation des marchés et contrôle des populations. Elle articule  structure horizontale de l’Empire et structure verticale, celle du moment politique proprement dit. C’est la mise en place de cette dernière que fait ressortir le transfert des données financières ou celles des passagers aériens.

 

La construction de l’hégémonie impériale

L’affaire Swift et le contrôle des passagers aériens relèvent d’un autre moment de la construction de l’Empire, celui de l’inscription dans le droit de la souveraineté américaine sur les populations européennes.

Ce processus a débuté avec la signature des accords d’extradition et de coopération judiciaire de 2003. Ces accords installent les populations européennes dans un ordre de droit mondial, dans lequel l’exécutif des Etats-Unis a la possibilité de déterminer l’exception et d’en faire la base sur laquelle se construit la coopération judiciaire internationale.

L’affaire Swift nous montre comment, à travers l’inscription de la direction américaine dans l’ordre juridique, se construit la spécificité de la  structure politique impériale, comment s’érige  sa topique verticale. Les autorités américaines se font remettre des informations qu’elles peuvent facilement obtenir par le biais de leurs services de renseignements. L’objet principal de cette affaire n’est pas la domination des populations, l’organisation de leur surveillance, mais sa légitimation. Ici, domination et hégémonie, commandement et consentement, sont deux moments distincts. L’inscription dans le droit est reconnaissance par les institutions et ainsi par les populations européennes, de la souveraineté américaine sur le sol de l’Union.

Dans les deux affaires, le processus est identique. L’administration américaine impose l’exception et, en opposition avec l’ordre de droit européen, elle se fait remettre des informations qui violent la vie privée des citoyens de l’ancien continent. La décision de l’administration américaine, obligeant Swift à lui transférer les données financières de ses clients, est exemplaire de la thèse de Carl Schmitt, selon laquelle « est souverain, celui qui décide d’une situation exceptionnelle ». Plutôt que la règle, c’est l’exception, “là où la décision se sépare de la norme juridique”, qui révèle le mieux l’autorité de l’Etat. Ces exemples nous montrent l’installation d’une autorité impériale. Cependant, l’acte de domination, la capture des données, n’est que de la première partie de ce processus. Les accords qui viennent d’être signés, reconnaissant la légitimité de la décision américaine par la partie européenne, s’intègrent dans un deuxième moment de la construction politique de l’Empire, celui de l’hégémonie.

La technique juridique est identique à celle utilisée dans le texte sur le transfert des données des passagers aériens. En fait, il ne s’agit pas d’accords entre deux parties, entre deux puissances formellement souveraines. Il n’existe qu’une seule partie, l’administration des Etats-Unis qui s’adresse directement aux ressortissants européens en tant qu’individus. Dans les deux « accords », le pouvoir exécutif américain réaffirme son droit de disposer de leur données personnelles. Le rôle de l’union européenne se limite à en aménager l’exercice. Afin de montrer sa bonne volonté, l’autorité américaine, dans une démarche unilatérale, concède des « garanties » formelles, qu’elle peut unilatéralement modifier ou supprimer.

La théorie décisioniste permet d’appréhender la capacité des autorités américaines d’imposer l’exception. Elle permet de conceptualiser le moment de la domination dans la formation de la souveraineté impériale. Cependant, elle ne peut rendre compte du moment de l’hégémonie, celui  de l’inscription de la décision dans le droit, de l’acceptation « consciente » par les populations européennes de la souveraineté américaine sur leur sol.

Une autre question se pose, celui du passage la forme nationale de l’Etat à une nouvelle forme d’organisation politique, l’Empire. La décision en situation exceptionnelle est toujours ce qui fonde le politique et l’existence de la règle dérive, plus que jamais, de l’exception. Mais la situation d’urgence ne s’impose plus de l’extérieur. Elle ne résulte plus d’une situation objective, elle est crée par le pouvoir lui même. Elle est l’effet d’une subjectivité, d’une volonté politique. L’état d’urgence existe simplement par son énonciation. La parole du pouvoir est création d’un nouveau réel.

L’état d’exception n’est plus posé de manière temporaire comme moyen de rétablir la norme, il devient permanent et il est la base sur laquelle se reconstruit un nouvel ordre de droit. L’accord Swift, l’accord sur les données des passagers aériens, ainsi que ceux sur l’extradition signés en 2003, font d’avantage qu’intégrer l’exception dans le droit. Ces accords créent une nouvelle écriture juridique qui installe l’état d’exception permanent au coeur de l’ordre de droit. La procédure de la lettre annexe permet aux autorités américaines d’imposer en permanence, sans accord de leur « partenaire », de nouvelles exigences, de nouvelles exceptions. L’état d’urgence n’est plus seulement transition qui permet l’instauration d’un ordre nouveau, il institue le désordre permanent comme ordre juridique.

L’état d’exception n’est plus anomie. Il n’est plus, tel que le formule Agamben, un espace vide de droit, une zone où toute détermination juridique est nulle. Il devient non seulement l’élément moteur extérieur de la création du droit, mais aussi son écriture, son existence même. Quant à la loi ou l’acte juridique, comme ceux des accords sur les données PNR ou sur les informations financières, ils se caractérisent par leur forme vide. Leur contenu n’est que enregistrement de la capacité de l’exécutif étasunien imposer ses exigences et à déroger à la règle qu’il a lui-même imposée. La transgression permanente de l’accord est inscrite dans le texte lui-même. Ce faisant, cette procédure tout en reconnaissant formellement l’existence d’un accord, exerce un déni de sa fonction qui est limitation de l’arbitraire.

Le droit enregistre ce qui spécifie la période présente, la non distinction entre situation d’urgence et situation normale, entre extérieur et intérieur, entre guerre et paix. Il enregistre ainsi l’extinction de la forme nationale de l’Etat, une forme d’Etat qui a réussi  « instaurer la paix à l’intérieur et (à) exclure l’hostilité à l’extérieur du droit » pour installer une structure impériale qui fait de la guerre un mode d’exercice de la souveraineté interne.

Ces différents accords procèdent à une reconnaissance, par le Conseil et la Commission, du droit que s’est accordé l’exécutif des Etats-Unis de placer les populations européennes sous surveillance permanente, du droit de les soumettre à des procédures d’espionnage qui relèvent des techniques de guerre. Ils font de l’hostilité le mode de gouvernement impérial des populations des deux côtés de l’Atlantique.

 

 

 

* Jean-Claude Paye, sociologue, auteur de La fine dello Stato di diritto. Manifestolibri 2005 et de Global War on Liberty. Telos Press. New York 2007.

 

CONCEPTIONS GEOPOLITIQUES DE JEAN THIRIART, LE THEORICIEN DE LA NOUVELLE ROME

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Conférence donnée pour la première fois à Bruxelles le 19 septembre 2003, dans le cadre du CYCLE DE CONFERENCES “JEAN THIRIART : L’HOMME, LE MILITANT ET L’ŒUVRE”, organisé par l’”Institut d’Etudes Jean Thiriart” et l’ “Ecole des Cadres Jean Thiriart” (Départements de l’Asbl “Association Transnationale des Amis de Jean Thiriart”)

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Après l’idéologie avec FUKUYAMA et l’Histoire comme fondement opérationnel de l’action avec HUNTINGTON, le troisième grand théoricien de l’impérialisme américain au XXIeme siècle est Zbigniew BRZEZINSKI (1) dont le domaine est la géostratégie et la géopolitique et qui publie “The Grand Chessboard” en 1997, titré “Le grand échiquier. L’Amérique et le reste du monde” pour son édition française.

La réflexion de BRZEZINSKI est centrée sur les conditions géopolitiques de la puissance américaine et de son contrôle sur l’Eurasie, le “grand échiquier” où Washington doit éliminer tout rival potentiel ou réel.

On ignore souvent que HUNTINGTON n’est pas le créateur du concept des “guerrres civilisationnelles” emprunté à un professeur marocain (1 B). De même, BRZEZINSKI s’inspire largement des Théories de Jean THIRIART.

 

 

JEAN THIRIART : UN GEPOLITICIEN RECONNU EN RUSSIE ET ETOUFFE EN OCCIDENT

En dehors des cercles spécialisés, THIRIART est méconnu en Europe occidentale où l’impasse a été volontairement et systématiquement faite sur ses thèses. Il n’en va pas de même eu Russie où il inspire aussi bien les théories géopolitiques et économiques des nationaux-communistes de ZIOUGANOV que les concepteurs des thèses eurasistes mises à l’honneur par le président POUTINE. Le manuel d’instruction géopolitique pour les officiers russes lui consacre un long chapitre élogieux.

Au début des Années 80, THIRIART fonde l’école “euro-soviétique” où il prône une unification continentale de Vlazdivostok à Reykjavik sur le thème de “l’Empire euro-soviétique” et sur base de critères géopolitiques.

Théoricien de l’Europe unitaire, Thirart a été largement étudié aux Etats-Unis, où des institutions universitaires comme le « Hoover Institute » ou l’ « Ambassador College » (Pasadena) disposent de fonds d’archives le concernant.

Ce sont ses thèses antiaméricaines “retournées” que reprend largement BRZEZINSKI, définissant au bénéfice des USA ce que THIRIART concevait pour l’unité continentale eurasienne.

Le succès médiatique des emprunts de HUNTINGTON ou de BRZEZINSKI comparé au slience pesant qui entoure en Occident des théoriciens comme THIRIART s’explique par le monopole médiatique américain. A l’antique “ex Oriente lux” a visiblement succédé un “Ex America lux”.

 

 

LES THESES GEOPOLITIQUES DE MACKINDER, SPYKMAN ET THIRIART

La géopolitique, science née en Allemagne à la fin du XIXeme siècle, doit beaucoup aux concepts de MACKINDER et de SPYKMAN.

L’amiral britannique H.J. MACKINDER (1861-1947), qui fut professeur de géographie à Oxford puis à la London School of Economics and Political Science, est le fondateur de la géopolitique classique, celle qui oppose la terre et la mer. Il est connu notamment pour être l’auteur de la théorie selon laquelle il existerait au début du XXème siècle un “pivot géographique du monde”, le coeur du monde (heartland) protégé par des obstacles naturels (le croissant intérieur, inner crescent, composé de la Sibérie, du désert de Gobi, du Tibet, de l’Himalaya) et entouré par les océans et les terres littorales (coastlands).

Ce coeur du monde, c’est la Russie, la Russie qui est inaccessible à la puissance maritime qu’est la Grande-Bretagne. C’est pourquoi le coeur du monde doit être encerclé par les alliés terrestres de la Grande-Bretagne. La Grande-Bretagne doit contrôler les mers mais également les terres littorales qui encerclent la Russie, c’est à dire l’Europe de l’Ouest, le Moyen-Orient, l’Asie du sud et de l’est. La Grande-Bretagne elle-même, avec les Etats-Unis et le Japon, constituent le dernier cercle qui entoure le coeur du monde.

Selon MACKINDER ce qu’il faut absolument éviter c’est l’union de la Russie et de l’Allemagne, un concept que THIRIART modernisera en “Empire euro-soviétique”, la constitution de ce que MACKINDER appelle l’île mondiale (world island), un puissant Etat ayant d’immenses ressources et de vastes étendues terrestres, ce qui permettrait à la fois d’avoir de grandes capacités territoriales de défense et de construire une flotte qui mettrait en péril l’Empire britannique.

Dès la fin du XIXeme siècle, l’école géopolitique américaine, dont les têtes de file sont MAHAN et SPYKMAN, entendra substituer les Etats-Unis à la Grande-Bretagne en tant que puissance maritime hégémonique.

Disciple critique de MAHAN, Nicholas J. SPYKMAN est son continuateur en même temps que le continuateur partiel et dissident de MACKINDER. Comme le britannique MACKINDER, N.J. SPYKMAN pense que le monde a un pivot. Mais ce pivot du monde n’est pas le heartland de MACKINDER, la Russie. Le pivot du monde est composé des terres littorales (les coastlands de MACKINDER) qu’il appelle le bord des terres, l’anneau des terres (rimland), ces terres constituant un anneau tampon entre le coeur, qui est soit la Russie soit l’Allemagne, et la puissance maritime britannique. Ces Etats tampons furent, par exemple, la Perse et l’Afghanistan utilisés par l’Angleterre contre la Russie entre le XIXème et le XXème siècle, comme la France fut utilisée contre l’Allemagne entre la deuxième moitié du XIXème siècle et la deuxième guerre mondiale.

Après la victoire sur l’Allemagne – SPYKMAN écrit avant 1943 – il faut donc contrôler ces Etats tampons qui constituent le rimland, le pivot, si l’on veut contrôler le coeur du monde. Cette nécessité conduira à la mise en place d’une politique d’endiguement (containment) de la Russie soviétique, l’Europe de l’Ouest et la Turquie servant d’Etats tampons pour les Etats-Unis.

 

 

THIRIART : LA GEOPOLITIQUE DE L’EMPIRE EUROPEEN

Fondateur de l’”Ecole euro-soviétique” au début des Années 80, Jean THIRIART développe le thème de la dimension vitale des Etats nécessaire pour garantir leur indépendance et qui requiert à l’époque moderne la taille des états continentaux.

Théoricien de l’Etat unitaire paneuropéen, THIRIART étudie les causes de l’échec de l’Union Soviétique, qu’il pressent dès 1980 et dont il stigmatise le fédéralisme. Face à la superpuissance américaine, il plaide pour la fusion de la Russie (sur ses frontières sibériennes en Orient) avec l’Europe occidentale dans le cadre d’un Empire unitaire allant de Reykjavik à Vladivostok et du Groenland au Sahara.

Géopoliticien de l’Empire européen, Jean THIRIART axe ses réflexions sur l’intégration de la Russie et de l’Europe occidentale dans un Etat continental eurasien unitaire.

1.  THIRIART insiste sur le fait capital que tous les états issus de l’implosion de l’URSS, sans aucune exception, doivent faire partie de l’Europe. Les frontières orientales, caucasiennes et sibériennes, de l’URSS devront demain être celles de la Grande-Europe.

2.  THIRIART développe sa thèse sur la construction de l’Europe contre les Etat-Unis et son bras armé de l’OTAN. L’Europe unitaire se fera dans le cadre d’une guerre de libération nationale contre l’occupant américain et ses collaborateurs “européens”.

3.  THIRIART insiste sur la nécessité de l’organisation économique de l’Europe sur une base autarcique, reprenant les théories de Friedrich LIST.

4.  THIRIART dénonce les vues limitées des politiciens européens, qui à la suite du général de Gaulle, envisagent une Europe tronquée jusqu’à l’Oural. L’Empire européen devra inclure la Sibérie et l’extrême-orient ex-soviétique.

5.  THIRIART s’en prend aux conceptions de l’Europe basées sur la religion ou des théories pseudo-racistes. Ce sont les impératifs de la Géopolitique et de la Géoéconomie qui déterminent les dimensions de la Grande-Europe et par là les populations qu’elle unifiera dans un Etat unitaire. Pour lui, par exemple, la Turquie c’est aussi l’Europe. Il insiste à ce sujet sur l’exogamie au sein de peuple européen.

6.  THIRIART qui conçoit l’Empire européen comme une nouvelle Rome, la Quatrième Rome qui fait écho au concept messianique russe de la “Troisième Rome” (Moscou après Rome et Bysanze), expose la nécessité de faire de la Méditerranée un Lac européen, une nouvelle “Mare nostrum”. Dans sa conception géopolitique de l’Europe unifiée, les deux rives de la Méditerranée, avec leurs populations, font partie de l’Europe, dont les frontières sud sont sur le Sahara.

 

 
LES FONDEMENTS GEOPOLITIQUES DE LA PUISSANCE AMERICAINE

BRZEZINSKI s’inspire directement des théories de THIRIART pour définir les conditions de la puissance américaine au XXIeme siècle, la maintenir dans son rôle hégémonique de garants du “Nouvel Ordre Mondial” et péréniser la sujetion de l’Europe occidentale.

Pour maintenir leur leadership, qui n’est rien d’autre que la domination mondiale annoncée par BURNHAM dès 1943, les USA doivent avant tout maîtriser le “grand échiquier” que représente l’Eurasie, où se joue l’avenir du monde.

Cette maîtrise repose sur la sujetion de l’Europe occidentale, étroitement liée aux USA dans un ensemble politico-économique occidental, la communauté atlantique cadenassée par l’OTAN. THIRIART parlait de l’OTAN non comme d’un bouclier mais d’un harnais pour l’Europe.

Elle repose aussi sur l’isolement de la Russie qu’il faut affaiblir irrémédiablement et démembrer.

Le danger mortel pour les USA, puissance extra-européenne à l’origine de par sa situation même, serait d’être expulsée d’Europe occidentale, sa tête de pont en Europe. Dans cet objectif, tout rapprochement de l’Europe et de la Russie, toute union eurasienne, sans même parler de fusion comme l’évoquait THIRIART, doit être empêchée par tous les moyens.

Zbigniew BRZEZINSKI écrit : “L’Europe est la tête de pont géostratégique fondamentale de l’Amérique. Pour l’Amérique, les enjeux géostratégiques sur le continent eurasien sont énormes. Plus précieuse encore que la relation avec l’archipel japonais, l’Alliance atlantique lui permet d’exercer une influence politique et d’avoir un poids militaire directement sur le continent. Au point où nous en sommes des relations américano-européennes, les nations européennes alliées dépendent des Etats-Unis pour leur sécurité. Si l’Europe s’élargissait, cela accroîtrait automatiquement l’influence directe des Etats-Unis. A l’inverse, si les liens transatlantiques se distendaient, c’en serait finit de la primauté de l’Amérique en Eurasie.”

 

 

DIVISER POUR REGNER : LA”KLEINSTAATEREI”

Nous avons déjà évoqué le rôle de Henry KISSINGER comme “Richelieu américain”. Ce n’est nullement une figure de réthorique. Le Cardinal de Richelieu est le premier ministre de la France au moment où la Guerre de trente ans ravage la Mittel Europa. Son but est d’assurer à la France des Bourbons la domination en Europe en neutralisant l’Allemagne et l’Empire des Habsbourg, tant en Espagne qu’en Allemagne. Menant une politique cynique et opportuniste, Richelieu transforme une guerre de religion entre protestants et catholique en un grand embrasement dont la France sort victorieuse lors du Traité de Westphalie (1648). Sous prétexte de préserver les “libertés germaniques”, la France impose le démembrement du Reich germanique en plusieurs centaines de micro-états inviables. La France, état unitaire, a ainsi assuré sa prédominance en Europe jusqu’au début du XIXeme siècle. L’historien allemand Frédéric GRIMM évoque à ce propos dans son livre “Le testament de Richelieu” de concept de “kleinstaaterei”.

La leçon n’a pas été perdue pour les Etats-Unis. Aujourd’hui, sous prétexte de préserver les droits des peuples – les nouvelles “libertés européennes” -, Washington impose la “kleinstaaterei” en Europe, dans les Balkans, le Caucase et en Russie même.

Depuis 1943, les Etats-Unis théorisent et favorisent le démembrement et la fragmentation des grand états. En 1945, MORGENTHAU, conseiller de Roosevelt, prône le morcellement de l’Allemagne et sa désindustrialisation. La partition de fait en résulte. On ignore souvent que STALINE était opposé à la division de l’Allemagne et proposa jusqu’en 1948 une Allemagne unifiée et neutre.

Ici la géopolitique se rapproche du courant “réaliste” des relations internationales, dont un des fondateurs les plus célèbres est Hans J. MORGENTHAU, dont elle partage nombre de postulats

Depuis 1989, les Etats-Unis multiplient leur soutien à l’éclatement des Etats dans les Balkans et en Europe orientale. L’éclatement de l’Union soviétique et de la seconde Yougoslavie en résulte directement. Une nouvelle étape voit aujourd’hui le démembrement de la troisième Yougoslavie née en 1991. Et BRZEZINSKI vise enfin au démembrement non seulement de la Fédération de Russie mais aussi de la Russie historique elle-même en trois entités.

Et c’est là qu’intervient un théoricien comme HUNTINGTON, dont le rôle est de fournir des justifications historiques à cette politique (2) . Comparer la vision géopolitique de l’Europe de BRZEZINSKI à la théorie des aires de civilisation de HUNTINGTON est à ce sujet éclairant.

Il convient ici de dresser un autre parallèlle : celui des théses de la géopolitique nazie – dont le principal théoricien fut Alfred Rosenberg, l’auteur du “MYTHE DU XXe SIECLE” – avec les projets des Etats-Unis en Europe. Le même plan est appliqué que ce soit dans les Balkans ou contre la Russie. Et les alliés privilégiés actuels de Washington étaient ceux du IIIeme Reich entre 1935 et 1944.

 

 

DOCTRINES DE L’IMPERIALISME AMERICAIN 

En 1991 commence une nouvelle ère pour les relations internationales.

La situation mondiale est en effet totalement changée. L’URSS, le principal challenger de Washington, qui fut aussi, il faut le dire, longtemps son meilleur complice, a disparu, vaincue par la compétition économique et la course aux armements qu’elle s’était laissée imposées par Washington.

En l’espace de quelques mois, la puissance américaine est devenue l’unique superpuissance mondiale et tente partout d’imposer son “Nouvel Ordre Mondial” (NOM) avec son cortège de guerres et d’inégalités.

Les théoriciens de l’impérialisme américain défendent à ce sujet la thèse du hasard. Les Etats-Unis se seraient trouvés dans leur position centrale et omnipotente par l’effet d’une série de conjonctions heureuses. Mais en rien la politique planétaire des USA ne serait responsable de cette situation d’hégémonie, résultant d’une divine surprise.

Cette thèse est totalement fausse et contredite par toute étude historique sérieuse.

L’impérialisme américain est planifié, pensé, théorisé depuis plus d’un siècle. Et la victoire incontestable de 1991 est l’aboutissement d’une politique impérialiste conçue dès la fin du XIXeme siècle.

Le premier grand théoricien de cette vision impérialiste qui vise à la domination mondiale est l’amiral Alfred T. MAHAN, dont le livre principal “THE INFLUENCE OF SEA POWER UPON HISTORY” est publié à Boston en 1890.

Alfred T. MAHAN (1840-1914) a construit une géopolitique destinée à justifier l’expansionnisme mondial des Etats-Unis à une époque où le monde est encore dominé par la Grande-Bretagne, un expansionnisme qui doit se fonder sur la puissance maritime (“sea power”). MAHAN est convaincu que les Etats-Unis, puissance industrielle contrôlant les amériques, peuvent, en imitant la stratégie maritime qui fut celle de l’Angleterre à partir du XVIème siècle, obtenir la domination mondiale gràce à la maîtrise des mers. Il leur faut pour cela non seulement des bases, des ports, mais surtout des bâtiments, des navires, qui soient en permanence capables d’intervenir partout dans le monde, et donc constamment opérationnels. Donc, en 1897, MAHAN préconise la politique stratégique suivante : il faut s’allier à la Grande-Bretagne pour contrôler les mers, il faut maintenir l’Allemagne sur le continent européen et s’opposer à son développement maritime et colonial, il faut associer les américains et les européens pour combattre les ambitions des asiatiques et en particulier surveiller de près le développement du Japon.

Tous les grands thèmes de la politique américaine du Siècle naissant sont déjà présents : stratégie planétaire, intervention en Europe, isolement de la puissance continentale (alors l’Allemagne).

MAHAN donne un corps idéologique à la vision américaine d’une mission prédestinée des USA dans le monde : la “manifest destiny”.

Son oeuvre est continuée par Nicholas J. SPYKMAN (1893-1943), qui développe la notion de “containment”, consistant à organiser un système d’états-tampons destiné à briser la puissance russe. Après la victoire sur l’Allemagne il faut donc contrôler ces Etats tampons qui constituent le rimland, le pivot (une notion de géopolitique), si l’on veut contrôler le coeur du monde.

Cette nécessité conduira à la mise en place d’une politique d’endiguement (containment) de par la constitution de l’Alliance atlantique dominée par les Etats-Unis, face au Pacte de Varsovie, dominé par la Russie soviétique. Notez que tout celà est pensé en 1941 et 42 – SPYKMAN meurt en 1943 – c’est-à-dire au moment même ou l’URSS fait face aux armées nazies.

Le discipline de SPYKMAN est Georges F. KENNAN, le principal théoricien américain de la guerre froide, auteur de “THE SOURCES OF SOVIET CONDUCT”.

Le plus brutal théoricien de l’impérialisme américain est James BURNHAM. Moins connu en dehors des spécialistes des sciences politiques (c’est le père des néo-machiavéliens américains), c’est un ancien trotskyste reconverti dans le néoconservatisme. Il fonde notamment la “NATIONAL REVIEW”.

En 1945, il publie un livre fondamental mais passé inaperçu en Europe dont le titre anglais est “THE STRUGGLE FOR THE WORLD”. Le titre de l’édition française (1947) est lui plus explicite encore : c’est “POUR LA DOMINATION MONDIALE”. BURNHAM y donne les conditions de la puissance destinée à assurer la domination planétaire des Etats-Unis.

 

 

DE NOUVELLES THEORIES IMPERIALISTES AMERICAINES APRES 1991

La victoire américaine de 1991, qui est largement surestimée dans les cercles conservateurs qui entourent le président Bush, va donner lieu à une nouvelle théorisation de l’impérialisme yanquee. Les proches conseillers de Bush en donnent immédiatement une nouvelle définition : c’est le “Nouvel Ordre Mondial” au nom duquel les USA reçoivent la mission de “pacifier” le monde et d’y imposer les pseudo-valeurs du “libre commerce“.

Les principaux théoriciens de l’impérialisme américain à l’aube du XXIeme siècle sont Francis FUKUJAMA, Samuel P. HUNTINGTON et Zbigniew BRZEZINSKI.

Leur théories, médiatisées par leurs livres et leurs articles dans les grandes revues américaines de politique internationale, prennent place dans un ensemble de recherches et d’activités liées directement au Pentagone et au State Departement.

En apparence, elles présentent des contradictions entre elles mais celles-ci ne sont qu’apparentes. Elles sont en effet plus liées qu’il n’y parait car elles représentent différents niveaux de la même pensée, notamment quand à leur projection dans le temps.

FUKUJAMA est le théoricien de la “fin de l’histoire” où il prophétise que le “dernier homme” sera celui de la vision idéologique américaine. On présente souvent les thèses de FUKUJAMA comme une vision trop optimiste liée à la victoire de 1991 et donc dépassée. C’est ignorer les travaux ultérieurs de cet auteur. FUKUJAMA représente au contraire la vision à long terme de l’impérialisme yanquee. Celle de ses buts ultimes (3).

HUNTINGTON (3 B) théorise les justifications idéologiques de l’affrontement de Washington avec le reste du monde. C’est une oeuvre à moyenne vision – les trois ou quatre prochaines décennies – destinée bien plus aux alliés supposés de Washington qu’au public américain. Ses théories sur “le choc des civilisations” visent à dissimuler les pratiques cyniques de la politique internationale américaine et à fournir une justification à une nouvelle politique de “containment”, qui vise surtout la Russie et la Chine mais aussi l’Europe en voie d’unification, et à péréniser celle-ci (4).

Disciple de Henry KISSINGER, souvent qualifié de “Richelieu américain” pour sa politique cynique et réaliste, BRZEZINSKI donne lui les conditions de la puissance américaine, destinées à assurer une domination planétaire durable. C’est la théorisation géopolitique de l’impérialisme américain.

Dans ces théories on trouve un curieux mélange de cynisme, de brutalité et de faux moralisme. C’est la traduction au XXIeme siècle de la “manifest destiny”. Les USA ont une mission à accomplir. Ce qui est bon pour eux est bon pour le monde. Et le “libre commerce” assurera la paix mondiale. Chez BRZEZINSKI celà frise parfois la caricature, les plus brutales théories géopolitiques voisinant avec des réflexions idéalisantes sur la paix et le bonheur des peuples.

 

 

ROME OU CARTHAGE?

On parle souvent d’“Empire américain”. A tord ! Parce que l’idée impériale n’a pas grand chose à voir avec l’impérialisme mercantile et exploiteur de Washington, à propos duquel le terme de néo-colonialisme est plus approprié.

La géopolitique distingue clairement et oppose puissance maritime et puissance terrestre. L’exemple le plus accompli en furent les guerres puniques qui opposèrent la Rome terrestre à Carthage, puisance des mers. Aujourd’hui, les Etats-Unis, puissance maritime, sont une nouvelle Carthage accomplie : même consumérisme, mêmes valeurs marchandes, même horizon limité, même exploitation des colonies, même oligarchie ploutocratique aux commandes.

La puissance continentale est encore à venir. C’est contre elle qu’agissent les théoriciens de l’impérialisme américain. Et ce sont les conditions de son accomplissement que THIRIART s’attachait à définir.

Le choc de Rome contre Carthage est aussi celui de deux idéologies, de deux Weltanschauung. Hier comme aujourd’hui.

Le but ultime de THIRIART, le telos du Communautarismpe européen, se situe au niveau de cet enjeu historique fondamental.

Du côté des Etats-Unis et des atlantistes existe une large école ploutocratique pour qui l’Europe doit être un des moyens du renforcement du capitalisme et de la Mecque de celui-ci qui se situe aux Etats-Unis. Ce sont les fameuses théories du « second pilier », qui voient notamment dans une organisation européenne de défense un pilier européen rénové de l’OTAN. Il existe une autre école, celle de Jean THIRIART ou des Eurasistes russes, pour laquelle l’Eurasie se fera inexorablement contre les Etats-Unis, pour qui il est impératif qu’elle se fasse contre Washington. Si THIRIART veut détruire politiquement les Etats-Unis, c’est parce qu’il leur oppose une vision du monde qui se situe aux antipodes de l’économisme consumériste prôné par Washington. L’Empire européen est pour lui avant tout une esthétique de l’homme, une solution et une alternative à proposer à toute l’Humanité.

 

 

QUELLE REPONSE POUR LES PEUPLES?

Depuis plus d’un siècle, Washington se heurte à la cause des peuples qui ne veulent pas d’une destinée manifeste imposée contre leur culture et leur liberté. Face à l’anti-civilisation des “chiens heureux” annoncée cyniquement par FUKUJAMA (5), et qui pointe à l’horizon lointain de l’impérialisme yanquee, la réponse des peuples est une nécessité brûlante.

Parce que les Etats-unis règnent en divisant, elle implique l’unité et la solidarité des peuples.

Cette problématique de l’unité des peuples face à l’impérialisme n’est pas nouvelle. En 1967, à La Havane, Castro lançait en compagnie de la Chine de Mao zedong et contre l’avis de Moscou la “TRICONTINENTALE”. Cette fameuse “TRICONTINENTALE” dont on rêvait à Hanoi où à la Havane vers 1967, a échoué. Elle n’a pas eu et n’aura jamais la force de venir à bout de la puissance américaine, même si hier la victoire du peuple vietnamien a permis de contester celle-ci.

Dès 1967, THIRIART proposait l’alternative : le « Front Quadricontinental ».

Aujourd’hui plus que jamais, il faut une alliance quadricontinentale contre l’impérialisme. La seule Europe occidentale détient aujourd’hui, comme en 1967, des moyens de puissances cinquante fois supérieurs à la “TRICONTINENTALE” (Asie/Afrique/Amérique latine). L’erreur commise hier à Cuba, à Alger, ou à Hanoi, a été de n’avoir voulu introduire la révolution que dans le pays pauvres, de ne pas avoir vu qu’il fallait introduire l’action révolutionnaire dans la colonie la plus riche des Etats-Unis, l’Europe. Le dogmatisme qui inspirait hier les capitales anti-américaines au nom d’une solution idéale les a conduit à l’immobilisme.

L’analyse de THIRIART est incontournable : La puissance industrielle américaine, renforcée de la puissance industrielle européenne, fait de celle-ci une super-puissance mondiale. C’est cette alliance des deux industries mondiales les plus avancées qui a contraint à la capitulation complète, économique et militaire, une URSS débile et asphyxiée. L’URSS est aujourd’hui disparue, le mythe communiste est usé, l’URSS a été battue à plat de couture sur le terrain de l’économie pure par le néo-capitalisme américain renforcé de sa colonie européenne.

La victoire finale contre les USA ne pourra être remportée qu’en Europe. Le rôle de l’Europe dans la lutte contre les Etats-Unis est le rôle primordial, le rôle capital. Pour déséquilibrer le colosse américain, il faut lui faire perdre son terrain d’action européen.

Au nom de la géopolitique, de la géostratégie et de la géoéconomie, indissolublement liées, BRZENZINSKI ne nous dit pas autre chose. Le sort de la superpuissance yanquue se joue ici en europe. Et l’unité entre l’Europe et la russie est le péril qui lui donne le plus d’angoisses.

Au nom de l’histoire et d’une vision occidentale de la civilisation et de la culture, HUNTINGTON décrit les “guerres de civilisations”. D’autres, dans cette ligne,  parlent de « Djihad versus Mc World ».

Et si le choc des civilisations était celui qu’il n’attend pas – ou plutôt ne veut pas attendre – celui de l’Humanisme européen – qui implique le respect de toutes les cultures – et de l’anti-civilisation yanquee, le Mc World

 

 

A L’HORIZON DU XXIe SIECLE : L’ANTICIVILISATION DES “CHIENS HEUREUX” OU L’”ETAT UNIVERSEL”

HUNTINGTON confond la langue avec la culture, les institutions imposées en Europe depuis 1918 par la force des armes et encore plus celle du dollar avec le choix des peuples, le conformisme social et le consumérisme imposé médiatiquement avec la civilisation.

Depuis quatre siècle, les Etats-Unis sont une anti-Europe, une machine à récupérer les idées de l’Europe et les retourner comme armes contre elle.

Comme HUNTINGTON, comme BRZENZINSKI, James BURNHAM dans son livre sur “la domination mondiale” a récupéré une idée née en Europe.

En 1932, Ernst JUNGER publiait son essai retentissant et souvent mal compris sur “LE TRAVAILLEUR”DER ARBEITER -, où il prophétisait l’affrontement final de gigantesques Etats impériaux pour la domination mondiale et le triomphe de visions du monde antithétiques. Une vision précisée par Junger dans “L’ETAT UNIVERSEL” publié en 1946.

Les théses de Jean THIRIART sur l’“Etat géo-idéologique”, stade avancé de l’Etat continental géopolitique mettant en oeuvre sa vision du monde, et publiées dès 1965, s’inscrivent dans la perspective ouverte par JUNGER.

FUKUJAMA avec son horizon planétaire uniformisé de “chiens heureux” aussi. Hélas!

Le choix sera bien celui là. Où le chauchemard américain imposant aux masses abruties l’illusion du bonheur consumériste. Où l’Humanisme européen, né en Grèce il y a 2.500 ans, et offrant aux peuples un destin. Le choc bien réel de l’anti-civilisation yanquee – le Mc World - et des cultures.

Les théoriciens de l’impérialisme américain dans leur arrogance nous avertissent des enjeux qui se jouent. L’avenir n’est heureusement jamais écrit dans les livres mais dans le combat des peuples. On semble l’ignorer à Washington ou à Wall-street. Jean THIRIART nous le rappellait inlassablement. Puissions-nous ne jamais l’oublier!
 
 
 

Luc MICHEL (Septembre 2003)

(Article publié initialement sur le site de l’ASSOCIATION TRANSNATIONALE DES AMIS DE JEAN THIRIART – http://www.pcn-ncp.com/Institut-Jean-Thiriart/cf/cf01.htm – / Copyright Luc MICHEL, tous droits réservés de reproduction et de traduction – Reproduction libre avec l’accord préalable de l’auteur : info@pcn-ncp.com)

 
 
 

NOTES 

(1) Disciple de Henry KISSINGER et adepte de la “real politique” comme lui, BRZEZINSKI, d’origine polonaise, est expert au Center for Strategic and International Studies (Washington DC) et professeur à l’Université Johns Hopkins de Baltimore. Il fut conseiller du président des Etats-Unis de 1977 à 1981.

(1 B) Il faut noter que HUNTINGTON n’est nullement l’inventeur de sa thèse. En effet, le professeur marocain (Université Mohamed V de Rabat) Mahdi Elmandjra revendique l’antériorité de la prophétie exposée à propos de la guerre du Golfe dans son ouvrage “PREMIERE GUERRE CIVILISATIONNELLE” (Casablanca, 1992). Il emprunte aussi les thèses de l’historien français BRAUDEL sur la pérénité des civilisations sur les Etats et les Nations.

(2) Le point de vue de HUNTINGTON est radicalement contesté, notamment par les Français Chauprade et Thual, dans leur “DICTIONNAIRE DE GEOPOLITIQUE” (1998) pour lesquels “en globalisant les aires religieuses, on en vient à ignorer les fractures internes inhérentes à ces espaces civilisationnels”. Ils ajoutent que “L’unité de l’Islam tient plus de la fiction que de la réalité” et accusent HUNTINGTON de faire du “simplisme et du manichéisme”. “La centralité des mécanismes géopolitiques repose en première instance sur les continuités des Etats”, concluent-ils.

Cette critique a un défaut : celui de ne pas rechercher le but des thèses de HUNTINGTON et leur rôle dans la diffusion et le défense de l’impérialisme américain. Car HUNTINGTON vise un but opérationnel direct : théoriser et justifier la confrontation entre les Etats-Unis et le reste du monde.

Certaines réactions ne laissent aucun doute. Kissinger voit dans “LE CHOC DES CIVILISATIONS” “le livre le plus important depuis la fin de la guerre froide” et BRZEZINSKI “un tour de force intellectuel : une oeuvre fondatrice qui va révolutionner notre vision des affaires internationales”. Huntignton a en effet à leur yeux le mérite de proposer une vision des civilisations qui recoupe étroitement les conceptions géopolitiques des deux penseurs américains.

Sa vision de l’Occident qui unit étroitement et indissolublement Etats-Unis et Europe occidentale pérénise la main-mise américaine sur notre continent.

Sa thèse sur la civilisation orthodoxe, radicalement séparée de l’héritage gréco-romain commun partagé avec l’Europe occidentale et centrale, empêche toute union eurasienne de l’Atlantique à Vladivostok et combat les thèses sur la “Troisième Rome” et la mission de la Russie, antithétique de la “manifest destiny” américaine. Elle confine la Russie au mieux à un rôle de puissance régionale et au pire, un pire souhaité et théorisé à Washington, au démembrement. Ce n’est nullement un hasard si BRZEZINSKI a fait paraître dans la revue de HUNTINGTON en 1999 un article proposant le démembrement de la Russie en trois états (Russie occidentale, Caucase et Sibérie). Un article qui répond directement aux thèses eurasiennes adoptées par le président POUTINE et qui fit scandale en Russie, où l’on souligna que ce projet était déjà celui de HITLER et de ROSENBERG, le théoricien nazi du racisme et de l’expansion à l’Est du Germanisme.

Enfin, l’opposition proclamée entre Occident et islamo-confucéens empêche tout rapprochement euro-arabe et toute union méditerranéenne. HUNTINGTON oublie là fort à propos l’utilisation par Washington d’un certain islamisme radical contre l’Europe (Bosnie, Albanie), la Russie (Afghanistan, Tchétchénie, etc.) et les pays arabes opposés à sa politique, comme la Libye ou l’Irak.

(3) Francis FUKUJAMA publie en 1992 “LA FIN DE L’HISTOIRE ET LE DERNIER HOMME”, où il développe la fameuse thèse qu’il avait émise en 1989 dans la revue «THE NATIONAL INTEREST».

Qu’entend FUKUJAMA par «fin de l’histoire» ? A la suite des philosophes HEGEL et KOJEVE, il considère que l’histoire résulte des antagonismes entre les différentes idéologies et formes d’organisations sociales, qui luttent chacune pour la reconnaissance. Or, avec la chute du Mur, l’effondrement du communisme et la victoire de la démocratie libérale, l’histoire, prise dans ce sens, s’abolit. Preuve est faite que le destin de l’humanité, c’est la démocratie libérale moderne, idéologie politique de l’impérialisme américain, qui, à défaut d’être parfaite, offre selon FUKUJAMA le meilleur des mondes possibles.

En 1997, avec “LA CONFIANCE ET LA PUISSANCE”, Francis FUKUJAMA précise sa pensée et souligne que la majorité des nations s’oriente politiquement vers la démocratie et économiquement vers l’économie de marché. Dans ce nouveau livre, il développe une justification idéologique de la supériorité du modèle social américain et entreprend de démontrer qu’une corrélation existe entre «vertus sociales et prospérité économique», celles-là engendrant celle-ci. L’Etat-providence ayant dû battre en retraite. Il y prétend qu’il y a des pays plus aptes que d’autres au développement. Il oppose les sociétés familiales, comme la France, l’Italie ou la Chine, à faible degré de confiance généralisée, ce qui implique une forte intervention de l’Etat, et les sociétés de confiance, automatiquement plus prospères, comme le Japon, l’Allemagne et les Etats-Unis.

Mais FUKUJAMA est surtout l’idéologue du projet de société américain à long terme, qu’il prétend être l’avenir ultime de l’humanité. C’est tout simplement l’accomplissement ultime de la “manifest destiny”. Et c’est surtout une vision de cauchemar d’une société où le Politique et l’homme en tant qu’acteur de l’Histoire ont disparu, où le destin des hommes et des peuples est remplacé par un monde unifié, gris et sale, où le consumérisme accompli tient lieu d’ultime horizon. Alors triomphera le dernier Homme, plus soucieux d’assurer son bien-être que d’affirmer sa valeur par des oeuvres géniales ou par des guerres.

(3 B) Professeur à l’Université d’Harvard, HUNTINGTON dirige le “John M. Olin Institue for Strategic Studies” et a été expert auprès du Conseil National Américain de Sécurité sous l’administration Carter. Il est aussi le fondateur et l’un des directeurs de la revue “Foreign Policy”, où ont été exposées initialement ses thèses sur le choc des civilisations.

(4) Samuel P. HUNTINGTONest est venu corriger FUKUJAMA, le compléter. La fin de l’Histoire n’étant pas immédiate et les peuples étant résistants au “Nouvel Ordre Mondial” et à son horizon avilissant de “chiens heureux”, il fallait théoriser les affrontements persistants et persuader les alliés plus ou moins forcés de Washington du bien fondé de la domination planétaire du système américain.

Il publie en 1996 “THE CLASH OF CIVILIZATIONS AND THE REMAKING OF WORLD ORDER”.

Selon HUNTINGTON : “L’histoire des hommes, c’est l’histoire des civilisations, depuis les anciennes civilisations sumériennes et égyptiennes jusqu’aux civilisations chrétiennes et musulmane, en passant par les différentes formes des civilisations chinoises et hindoue”. On distingue généralement, nous dit HUNTINGTON, la “civilisation”, un concept français du XVIIIème siècle qui s’oppose au concept de “barbarie”, des “civilisations”, un concept anthropologique qui s’applique à “l’entité culturelle la plus large que l’on puisse envisager”. “Les empires naissent, nous dit-il, et meurent, alors que les civilisations “survivent aux aléas politiques, sociaux, économiques et même idéologiques” (Braudel), pour en définitive succomber à l’invasion de tiers”.

HUNTINGTON nous dit que pendant trois mille ans les civilisations séparées par le temps et par l’espace se sont ignorées. Puis la civilisation occidentale domina le monde jusqu’au XXème siècle. Mais l’influence de l’Occident ne cesse de se réduire : “la puissance économique se déplace vers l’Extrême-Orient, dont l’influence politique et la puissance militaire vont croissant. L’Inde est en passe de décoller. L’hostilité du monde musulman va croissant envers l’occident dont les sociétés non occidentales n’acceptent plus comme jadis les diktats et les sermons”. “Peu à peu l’Occident perd sa confiance en soi et sa volonté de dominer”. L”Occident restera le numéro un mondial pendant le XXIème siècle, mais inéluctablement “l’occident continuera à décliner” et “sa prépondérance finira par disparaître”.

Donc conclut HUNTINGTON, “l’affrontement est programmé” au travers de “guerres civilisationnelles” entre la civilisation Occidentale et les autres civilisations du Monde. Parmi les adversaires principaux de l’Occident américain, les civilisations orthodoxe, islamiste et confucéenne (Chine et Asie).

5) Dans une interview retentissante au quotidien “LE MONDE” (Paris) du 17 juin 1999, FUKUJAMA précise sa vision du “dernier homme”, qui est incontestablement “la fin de l’histoire” : “Le caractère ouvert des sciences de la nature contemporaines nous permet de supputer que, d’ici les deux prochaines générations, la biotechnologie nous donnera les outils qui nous permettront d’accomplir ce que les spécialistes d’ingénierie sociale n’ont pas réussi à faire. A ce stade, nous en aurons définitivement terminé avec l’histoire humaine parce que nous aurons aboli les êtres humains en tant que tels. Alors commencera une nouvelle histoire, au-delà de l’humain.”

C’est brutalement exposé le projet de société ultime de l’oligarchie américaine.

Dans la même interview, il précise par ailleurs la continuité de sa thèse sur “la fin de l’histoire” avec son projet orwellien de societé : “Quand j’ai publié “La fin de l’histoire”, en 1992, j’ai été submergé de critiques, mais je ne parlais pas de la même histoire que mes censeurs. Je voulais dire qu’avec l’écroulement du bloc de l’Est, de nombreuses questions fondamentales sur le plan de l’idéologie et des institutions qui avaient sous-tendu l’histoire pendant des décennies ont été plus ou moins réglées, du moins dans les pays développés. Aujourd’hui, les vrais problèmes se situent au niveau des structures sociales, religieuses, et de la culture.”

L’homme sera alors devenu un “chien heureux” constate FUKUJAMA : «Un chien est heureux de dormir au soleil toute la journée, pourvu qu’il soit nourri, parce qu’il n’est pas insatisfait de ce qu’il est. Il ne se soucie pas que d’autres chiens fassent mieux que lui, ou que sa carrière de chien soit restée stagnante. Si l’homme atteint une société dans laquelle il aura réussi à abolir l’injustice, sa vie finira par ressembler à celle du chien». FUKUJAMA reste muet sur ceux qui seront les maîtres de ces chiens heureux, qui les tiendront en laisse …

 

LA GEOPOLITICA SECONDO L’ENCICLOPEDIA DEL NOVECENTO

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Sommario:


1. Introduzione. 


2. Definizioni di geopolitica e classificazione delle teorie geopolitiche:
  • a) considerazioni generali;
  • b) geopolitica e determinismo ambientale;
  • c) geopolitica e geografia politica;
  • d) geopolitica e geostrategia;
  • e) geopolitica e geoeconomia;
  • f) definizione e contenuti della geopolitica.

 


3. Precursori e storia del pensiero geopolitico fino alla fine del mondo bipolare:
  • a) i precursori;
  • b) la nascita della geopolitica moderna: Ratzel e Kjellén;
  • c) il pensiero geopolitico continentalista;
  • d) le teorie dei poteri marittimo e aerospaziale;
  • e) le teorie del potere peninsulare;
  • f) le concezioni regionali e multipolari;
  • g) la geopolitica francese;
  • h) la geopolitica sudamericana;
  • i) l’idealismo geopolitico;
  • l) considerazioni sulla geopolitica del Novecento.

 


4. La geopolitica italiana:
  • a) dagli albori al Risorgimento;
  • b) la geopolitica dell’Italia liberale e del regime fascista;
  • c) la geopolitica della guerra fredda.

 


5. La geopolitica contemporanea:
  • a) le teorie globaliste;
  • b) le teorie multipolari;
  • c) le teorie binarie;
  • d) le teorie anarchiche;
  • e) la geopolitica italiana del dopo guerra fredda.

 


6. I fattori geopolitici e i metodi impiegati dalla geopolitica:
  • a) fattori permanenti;
  • b) fattori variabili;
  • c) approcci, metodi e tecniche.

 


Bibliografia. 

 

 

1. Introduzione.

Il termine ‛geopolitica’ è tornato di moda e si è rapidamente diffuso nel linguaggio dei media dopo la fine del mondo bipolare e delle sue ideologie globali. Evidentemente il suo ritorno non è casuale, ma dipende dalle trasformazioni subite dal sistema internazionale. Al centro del dibattito non viene più posta la ‛statica’ dell’ordine mondiale, ma la ‛dinamica’ della competizione per il potere fra i vari attori geopolitici – siano essi ‛poli’ macroregionali, Stati o entità substatali – che cercano di affermare i loro interessi, identità e autonomia. Peraltro, talune teorie geopolitiche attuali tendono a studiare le condizioni per pervenire alla stabilità a livello mondiale e presuppongono che i rapporti internazionali possano essere basati sulla interdipendenza e sulla cooperazione per fronteggiare sfide globali, come quelle ecologiche e del sottosviluppo. Nell’ambito della geopolitica ‛globalista’, diversamente che nella geopolitica ‛classica’, cade ogni distinzione fra ‛interno’ ed ‛esterno’ dei vari attori geopolitici: il mondo viene trattato nella sua globalità, come unico autentico soggetto della geopolitica. Il termine geopolitica – in genere utilizzato pragmaticamente, senza pretese epistemologiche o scientifiche – indica e comprende i vari apporti provenienti da settori disciplinari diversi che, a vario titolo, influiscono sulle decisioni particolari e sulle politiche generali riguardanti tanto gli affari interni quanto le relazioni esterne.

La geopolitica generalmente riflette una visione realistica, conflittuale e talvolta deterministica della politica, specie internazionale: in alcuni casi si tratta di una semplice concettualizzazione ex post di decisioni già prese, finalizzata all’acquisizione del consenso interno ed esterno, alla manipolazione e alla propaganda; in altri, i suoi approcci, metodi e tecniche sono utilizzati in modo sistematico per elaborare scenari e per migliorare la qualità delle decisioni riguardanti la definizione di interessi e di obiettivi, di politiche e di strategie. In modo soggettivo e mai neutrale, nella geopolitica vengono utilizzati apporti che vanno dalla geografia politica alla storiografia, alla politologia, all’economia internazionale, alla psicologia collettiva, alla demografia, alla strategia militare, e così via. Vengono poi impiegate le tecniche di rappresentazione cartografica, per far confluire in un dato spazio le varie valutazioni.

La geopolitica non è né una scienza, né una disciplina ben definibile. Sull’incertezza della sua natura influisce l’inflazione semantica di cui essa è oggetto e che a sua volta deriva dall’incertezza e imprevedibilità della turbolenta fase di transizione che il mondo sta attraversando, dalle nuove gerarchie di potenza, dalle modifiche che sta subendo la divisione internazionale del lavoro e della ricchezza, nonché dall’incessante, rapida evoluzione delle tecnologie militari e di quelle per la produzione di ricchezza. La geopolitica classica – che si conforma in genere alle posizioni assunte dallo Stato di appartenenza, in particolare relativamente al suo destino rispetto al mondo – assume nella maggior parte dei casi una posizione statocentrica. Più che di geopolitica, si dovrebbe quindi parlare di geopolitiche proprie di ciascun paese e di ciascuna epoca.

Tutte le teorie geopolitiche vanno pertanto esaminate relativizzandole, ossia ricollocandole nell’ambito dello specifico contesto storico in cui sono state formulate e degli interessi che le hanno motivate. Anche la geopolitica ‛globalista’ presenta tale caratteristica di soggettività. La critica di una dottrina geopolitica comporta sempre l’affermazione di una ‛controgeopolitica’: all’inizio della seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti, alla cattiva geopolitica nazista” fu contrapposta la buona geografia politica americana”, che si pretendeva ispirata dai valori propri dell’idealismo internazionalistico wilsoniano (v. Antonsich, 1994). La terza rivoluzione industriale – quella dell’informazione – e la riduzione dei costi dei trasporti e delle telecomunicazioni hanno modificato i paradigmi di base della geopolitica classica e il significato politico dello spazio e del tempo, nonché il ruolo della forza militare nella politica internazionale e nella determinazione della gerarchia degli Stati. La globalizzazione e l’interdipendenza richiedono un nuovo ordine geopolitico. La trasformazione dei territori degli Stati da aree sostanzialmente esclusive della sovranità statale in luoghi di concentrazione di reti, di comunicazioni e di flussi costringe a ripensare i concetti e gli approcci della precedente geopolitica ‛territoriale’. Inoltre, è aumentato il peso dei fattori non militari della sicurezza (immigrazioni, criminalità organizzata, droga e così via). La perdita di importanza della forza militare come paradigma per determinare la gerarchia fra gli Stati, su cui si erano fondati in ultima analisi gli ordini e gli equilibri precedenti, ha reso turbolenta l’attuale fase di transizione degli assetti mondiali.

Ma la geopolitica attuale differisce da quella del passato anche per altri motivi. In primo luogo, alla geopolitica degli spazi territoriali si è sovrapposta quella dei flussi immateriali, che non conoscono confini. In secondo luogo, si sono moltiplicati, sia quantitativamente sia qualitativamente, gli attori della politica. Non solo è aumentato il numero degli Stati, ma, anche se questi continuano a costituire gli elementi centrali del sistema internazionale, sono comparsi altri attori geopolitici. L’importanza e l’autonomia degli Stati sono erose dall’alto (dalle istituzioni sovranazionali a livello globale o regionale), dal basso (dai tribalismi, localismi e regionalismi) e dai lati (dalle imprese multinazionali, finanza, religioni, criminalità organizzata, ecc.).

La potenza e la ricchezza si sono smaterializzate e deterritorializzate, creando dissimmetrie con l’organizzazione politica e giuridica degli Stati, rimasta invece territoriale e delimitata da frontiere ben precise; nell’epoca agricola e in quella industriale, infatti, le frontiere separavano l’interno dall’esterno anche dal punto di vista economico, mentre la loro permeabilità nell’epoca postindustriale ha molto attenuato tale separazione. Ormai, l’interno e l’esterno vanno considerati un tutto unico. Avere una politica estera attiva non è più una scelta, ma una necessità. Oltre alle frontiere fisiche esistono altre frontiere, come quelle economiche, culturali, ecc., che sono in continuo movimento; esse definiscono sfere di influenza e di dominio in cui operano i vari soggetti geopolitici, che si espandono o ripiegano o comunque interagiscono, determinando la politica e, quindi, il benessere e la sicurezza dei vari attori geopolitici.

La centralità dei fattori fisici (posizione, dimensioni, distanze, risorse naturali, ecc.), tipica della geopolitica del passato, si è ridotta, anche se non è scomparsa del tutto; è invece aumentata quella dei fattori umani e immateriali, come demografia, tecnologia, produttività, informazione e media, nonché quella delle culture, delle religioni e della storia, che in passato erano compresse dal dominio di ideologie globalizzanti e dai meccanismi del confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Durante la guerra fredda, il termine geopolitica venne colpito da una specie di ostracismo ideologico, sia perché esso venne associato indebitamente con l’assalto al potere mondiale da parte della Germania nazista (v. Paterson, 1987), sia perché l’approccio geopolitico, necessariamente collegato con una visione statocentrica e realistica delle relazioni internazionali, contrastava con le ideologie dominanti nelle due superpotenze, e cioè con l’idealismo wilsoniano e con il marxismo-leninismo, che ne legittimavano il predominio sul rispettivo blocco. Il ritorno del termine geopolitica è quindi strettamente connesso da un lato con il passaggio dall’ordine di Jalta al disordine delle nazioni e, dall’altro, con le tendenze alla globalizzazione, alla regionalizzazione e alla frammentazione, che coesistono e si contrappongono nel mondo post-bipolare.

Beninteso, anche la contrapposizione fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si ispirava a particolari visioni geopolitiche, dato che teneva conto dei rapporti fra potenza e spazio. Basti pensare alla dottrina del containment, a quella del ‛domino’, alla divisione dell’Europa in aree d’influenza, alle conferenze di Teheran, di Jalta e di Potsdam, ai contrasti anche territoriali fra l’Unione Sovietica e la Cina, e così via. La geopolitica non era scomparsa: era semplicemente stata accantonata come termine, per motivi del tutto contingenti e legati agli interessi politico-strategici del tempo.

Ciascuna epoca e ciascuno Stato hanno sempre avuto una propria geopolitica. Quest’ultima infatti rispecchia il particolare rapporto che le singole entità sociopolitiche hanno con il proprio spazio, non solo fisico, ma anche economico, tecnologico e psicologico-identitario, cioè con il particolare ‛senso dello spazio’ che corrisponde alla loro cultura ed esperienza storica, e che rappresenta un ponte tra fattori geografici e scelte politiche. In questo senso, la geopolitica è sempre stata anche geostoria. Le grandi teorie geopolitiche della prima parte del Novecento hanno sempre presupposto, implicitamente o esplicitamente, una visione globale del processo storico, volta a reinterpretare la storia passata per anticipare quella futura. Talvolta, traendo stimolo dall’allarme per la decadenza della propria civiltà o della potenza del proprio Stato, esse hanno sostenuto programmi di riarmo psicologico, militare o economico. Tipiche, a tale riguardo, le tesi sostenute da H. J. Mackinder o quelle sulla decadenza dell’Europa, tornate oggi d’attualità anche a causa delle preoccupazioni per lo spostamento del centro dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico.

 

 

 

2. Definizioni di geopolitica e classificazione delle teorie geopolitiche.

 

a) Considerazioni generali.

Non esiste una definizione univoca della geopolitica, anche se, come dice la stessa etimologia del termine, si tratta di una disciplina che studia i rapporti, le influenze, i condizionamenti e le limitazioni dei fattori geografici – fisici e umani – sulla politica, vale a dire su comportamenti, decisioni, percezioni e azioni dei vari attori geopolitici, siano essi gli Stati, le entità sovra- o sub-nazionali, o anche le grandi imprese industriali e commerciali. Gli approcci e i metodi propri della geopolitica vengono infatti utilizzati anche nelle valutazioni imprenditoriali dei rischi e delle opportunità dei vari ‛sistemi-paese’.

La geopolitica non esiste in natura, ma solo in letteratura. Va perciò studiata soprattutto – anche se non esclusivamente – in relazione alla storia del pensiero geopolitico, includendovi anche le metodologie di analisi, di valutazione, di sintesi e di rappresentazione via via utilizzate.

L’imprecisione del significato di geopolitica è connessa anche con la discussa natura della geografia, specie di quella umana, di cui quella politica costituisce una branca. Alcuni attribuiscono alla geografia un significato solo descrittivo e rappresentativo; altri la ritengono una scienza sociale, con contenuti anche predittivi e normativi. Come disciplina sociale, la geografia sarebbe capace di spiegare la storia delle varie entità politiche e dell’insieme dell’umanità, contribuendo, in un certo senso, a individuare le soluzioni più efficaci ai loro problemi.

Generalmente gli studiosi di geopolitica sono fautori della prima visione, quella ‛ristretta’, che considera la geografia scienza dei luoghi e degli uomini, ma di questi ultimi soprattutto in quanto elementi dell’ambiente e del paesaggio. L’utilizzo della geografia da parte della politica – ad esempio nel settore delle relazioni internazionali, come d’altronde in quello della politica interna, della strategia militare e dell’economia – non apparterrebbe al campo delle scienze geografiche, ma a quello delle scienze politiche, in quanto implicherebbe la costante utilizzazione di giudizi di valore e di approcci soggettivi che riflettono gli interessi contingenti di chi li adotta.

Questa seconda accezione della geografia rispecchia maggiormente la realtà del pensiero geopolitico, i cui principali esponenti, del resto, non erano geografi; e comunque le teorie che hanno sostenuto erano politiche, non geografiche.

La geopolitica non è quindi una scienza, ma essenzialmente un metodo di ragionamento, un modo con cui un attore geopolitico pensa a se stesso in rapporto allo spazio, agli altri e al mondo. Ciò spiega la ricca varietà del pensiero e delle dottrine geopolitiche e la necessità, come si è detto, di relativizzarle rispetto al contesto in cui sono state formulate.

Tentazione costante di tutti i geopolitici è stata – ed è ancora – quella di attribuire alle proprie conclusioni un valore oggettivo e necessario, facendo perciò della geopolitica una scienza nomotetica e descrivendola come una ‛geologia della politica’ (v. Portinaro, 1982). È una tendenza, questa, non limitata al campo della geopolitica. Chi definisce interessi, obiettivi e politiche tende a conferire un valore assoluto e scientifico alle soluzioni che propone. Lo stesso si verifica anche per taluni teorici della strategia militare, che, costantemente sottoposti alla tentazione di attribuire natura di scienza alla propria disciplina, affermano l’esistenza di principî aventi validità generale e normativa, dal cui rispetto o meno dipenderebbero successi o sconfitte. La realtà, invece, ci insegna che spesso la vittoria deriva proprio dalla violazione di tali principî, cioè dalla capacità di sorprendere l’avversario con stratagemmi, colpendo i punti più vulnerabili del suo dispositivo.

Per altri studiosi la geopolitica non indicherebbe che cosa fare, ma offrirebbe una gamma di possibilità, di limiti e di condizionamenti che si ripercuoterebbero direttamente sulle decisioni e sulle azioni. Per altri ancora, l’ambiente geografico condizionerebbe le decisioni politiche solo indirettamente, attraverso il ‛senso dello spazio’ proprio di ogni popolo e di ogni epoca e derivante dalla sua storia e dalla sua cultura.

 

 

b) Geopolitica e determinismo ambientale.

Nessuno studioso di geopolitica ha mai sostenuto l’esistenza di un determinismo ambientale assoluto. Anche le accuse di determinismo rivolte al generale Karl Haushofer – principale esponente della scuola geopolitica di Monaco di Baviera degli anni venti e trenta ed editore della rivista Zeitschrift für Geopolitik” – sono in gran parte ingiustificate (v. Strassoldo, 1985, pp. 204-207). Lo stesso Haushofer affermò che solo il 25% della storia può essere spiegato in termini di condizionamenti geografici” (v. Kristof, 1960, p. 31). Tralasciando l’infelice percentualizzazione, si deve quindi riconoscere che anche lo studioso di geopolitica considerato più determinista non metteva in discussione la dipendenza ultima della storia dalla libertà dell’uomo e non pensava affatto che si potesse attribuire un fondamento naturalistico alla politica sulla base di un determinismo ambientale, interpretato appunto dalla geopolitica.

Haushofer riconosceva poi che la geopolitica interveniva con una propria individualità solo dopo che fosse stata assunta un’idea politica, quando cioè esistesse una ‛metageopolitica’: ed era appunto una metageopolitica – la volontà di rivincita della Germania dopo i ‛torti’ subiti nella pace di Versailles – quella che ispirava le riflessioni di Haushofer. In un certo senso, quindi, come è stato maliziosamente notato, ogni geopolitica è sempre una ego-politica” (v. Antonsich, 1995, p. 57), ha un valore soggettivo e può essere compresa solo relativizzandola al contesto in cui è stata formulata.

In politica – come in strategia, economia, ecc. – la linea che separa il determinismo dal semplice condizionamento è sempre labile e incerta. Gli approcci dogmatici sono comunque smentiti non solo dall’esperienza storica, ma anche dalla complessità, incertezza e indeterminazione dei fattori che influiscono sulle scelte reali. Ad esempio, Ebrei e Fenici, pur vivendo in territori contigui, hanno avuto esperienze storiche del tutto diverse. Inoltre, sullo stesso territorio possono convivere geopolitiche del tutto diverse. In Israele ne convivono almeno tre: la prima, tipo Masada, che considera Israele come una ‛fortezza’; la seconda, che vede Israele come ‛Terra Promessa’ da riconquistare per volere divino; e la terza, infine, che considera Israele uno Stato come un altro ed è disponibile a cedere territori per raggiungere la pace. Qualcosa di analogo accade in Italia, dove il dibattito geopolitico è animato da tendenze atlantiste, europeiste, mediterranee e terzomondiste.

Ciò non toglie che taluni autori geopolitici siano più deterministi di altri. Lo sono ad esempio coloro che hanno sostenuto il condizionamento del clima sulla storia e sulla natura delle società, da Aristotele a Bodin, da Montesquieu sino a Ellsworth Huntington (v. Konigsberg, 1960). Deterministi sono coloro che affermano l’esistenza di ‛spazi vitali’, come hanno fatto i geopolitici tedeschi del primo Novecento, o di ‛frontiere naturali’, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, nonché tutti coloro che fondano la politica su una presunta volontà divina, su ‛diritti storici’, su un manifest destiny, e così via. Deterministiche sono infine tutte le dottrine geopolitiche, nel momento in cui pretendono di essere scientifiche e oggettive, e quindi normative e non semplicemente probabilistiche ed euristiche.

Bisognerebbe, in realtà, distinguere in geopolitica il determinismo vero o metodologico da quello strumentale. Quest’ultimo trasforma le proposte geopolitiche in slogan che sfruttano la potenza semplificatrice della rappresentazione cartografica e che vengono propagandati come verità al servizio di una causa.

Sicuramente il periodo di più spiccato determinismo geopolitico è quello che si colloca tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Il determinismo si fondò allora su un complesso di presupposti teorici coerenti con la cultura dell’epoca – non solo tedesca – derivati dalla dottrina dello ‛Stato-potenza’ e, più in generale, dal darwinismo sociale, che concepiva lo Stato come un organismo vivente. Esso giustificava il colonialismo e l’imperialismo non solo di tutti gli Stati europei, ma anche degli Stati Uniti di Theodore Roosevelt. Le critiche rivolte al determinismo della geopolitica dell’epoca dovrebbero quindi essere indirizzate più propriamente agli assunti di base che le ispiravano, piuttosto che alle teorie geopolitiche in sé.

Va inoltre rilevato come talvolta il determinismo di tali teorie sia solo apparente. La geopolitica, come si è detto, è anche geostoria. D’altra parte, la geografia è la storia nello spazio, come la storia è la geografia nel tempo. Adottando una lettura diacronica per far emergere le tendenze ‛forti’, influenzate dalla geografia fisica, che è il fattore più stabile nella storia, si dà l’impressione di voler pervenire a conclusioni permanenti e immodificabili. In realtà non è così, perché obiettivo costante dei geopolitici è proprio modificare tali condizioni.

La tentazione del determinismo è alimentata in geopolitica dall’enorme valore propagandistico della carta geografica e dalla naturale tendenza a utilizzarlo per convincere delle proprie tesi chi deve decidere, oppure per ottenere il consenso dell’opinione pubblica. La scelta del centro della carta, della scala e del tipo di rappresentazione, l’accentuazione di taluni particolari anziché di altri possono prestarsi a vere e proprie manipolazioni (v. Lacoste, 19763, pp. 177-178 e 185; v. Taylor, 1992).

Con la sua capacità di semplificazione e la sua pseudoevidenza, la rappresentazione geopolitica costituisce un poderoso strumento di manipolazione psicologica. Affinata grandemente dalla geopolitica tedesca del primo dopoguerra, essa viene sistematicamente utilizzata da tutti coloro che propongono un programma politico: come cercano di arruolare ‛Dio’ e ‛l’Idea’ sotto le loro bandiere, così essi tendono a fare altrettanto con la geografia, la storia, la giustizia e così via. Far discendere le proposte politiche da una necessità naturale o divina presenta infatti il grande vantaggio di non doverne esplicitare le reali motivazioni.

Solo una ‛cultura geopolitica’ può tutelare i popoli dalle manipolazioni delle rappresentazioni cartografiche. Pertanto, la reintroduzione della geopolitica nel dibattito politico consente di riportare sotto il controllo democratico le grandi decisioni di politica estera, che tendono spesso a essere sottratte ai cittadini, se non altro per mancanza di informazioni e di conoscenze specifiche.

 

 

c) Geopolitica e geografia politica.

I due termini sono spesso impiegati come sinonimi, soprattutto nei paesi anglosassoni. Entrambi sono recenti, essendo stato il primo introdotto nel 1899 dallo svedese Rudolph Kjellén (v. Holdar, 1992) e il secondo nel 1897 dal tedesco Friedrich Ratzel (v. Parker, 1985).

Le incertezze e le ambiguità sulle differenze fra i termini geopolitica e geografia politica derivano anche da quelle sulla natura di quest’ultima. Come la storia, la geografia non ha un oggetto specificamente proprio, bensì costituisce la base spaziale di discipline diverse e comprende lo studio, oltre che la rappresentazione, della distribuzione spaziale dei vari aspetti geografici, fisici e umani, le loro classificazioni statistiche, il loro raggruppamento in insiemi omogenei e la previsione delle loro variazioni nel tempo.

Sin dall’inizio della storia, l’attività dei geografi ebbe rilevanza sul piano politico, militare, economico, ecc. Gli esploratori furono anche agenti segreti e operatori commerciali. Fino al XX secolo l’attenzione prevalente fu rivolta agli aspetti fisici e naturali; solo con Ratzel gli aspetti umani divennero centrali, anche perché la tecnologia affrancava rapidamente l’uomo dai condizionamenti dell’ambiente naturale, ma non da quelli dell’ambiente umano.

Fra la geografia politica e la geopolitica esistono comunque strette correlazioni. Per alcuni, specie per la scuola anglosassone, che considera la geografia anche una scienza sociale e non distingue fra geografia pura e applicata, non esiste alcuna differenza: anche se viene impiegato l’aggettivo geopolitical, non viene utilizzato il termine geopolitics. Per altri, la geografia politica studia la politica avvenuta, cioè la distribuzione spaziale dei fenomeni politici e la loro influenza sui fattori geografici. La geopolitica studia, invece, l’influenza dei fattori geografici sulle scelte politiche, tenendo anche conto delle possibili scelte e delle azioni/reazioni degli altri soggetti geopolitici che operano sul medesimo territorio.

La geografia politica è una scienza, in quanto studia i dati di fatto; la geopolitica non lo è, perché relativizza e soggettivizza tali dati, interpretandoli e fondendoli con fattori che non sono geografici, come i principî e i sistemi di valore. A livello di teoria, la geopolitica è quindi una metageografia, combinata con altre dimensioni metateoriche, quali la metastoria. Come campo disciplinare, essa è indipendente dalla geografia politica ed è dotata di una propria individualità, diversa da quella di una semplice geografia politica applicata.

 

 

d) Geopolitica e geostrategia.

Spesso i termini ‛geopolitica’ e ‛geostrategia’ sono impiegati come sinonimi. In realtà ciò accade anche per i termini ‛politica’ e ‛strategia’, soprattutto quando si parla di strategia globale o di ‛grande strategia’, intendendo in tal modo l’insieme dei principî ai quali si ispira la politica di sicurezza e degli obiettivi che essa si pone.

Sembra però opportuno fare una distinzione tra i due termini. La geostrategia si interessa della dimensione militare, e dovrebbe essere quindi una ‛geopolitica militare’, una sorta di ‛sorella minore’ della geopolitica (v. Célérier, 1969).

Nella storia, i due termini sono stati e vengono tuttora utilizzati nelle accezioni più varie. Giacomo Durando (v., 1846) ha utilizzato il termine geostrategia come sinonimo di geopolitica, individuando il punto ‛protostrategico’ che avrebbe dovuto permettere l’unificazione della Padania o Eridania con l’Italia peninsulare (v. Botti, 1994). Il gruppo di geostrategia della Fondation pour les Études de Défense Nationale (v. Lacoste, 1991) ha sostenuto che il concetto centrale della geopolitica è quello di ‛zona di influenza’, mentre per la geostrategia è quello di ‛zona cuscinetto’. Tale distinzione appare discutibile, in quanto le zone cuscinetto, per essere tali, devono essere anche zone di influenza, e comunque si trasformano in teatri operativi nel corso dei conflitti. Il geografo e geopolitico americano Saul Bernard Cohen (v., 1963) ha dato alla geostrategia un’accezione più ampia rispetto alla geopolitica. Egli infatti teneva conto dei due blocchi esistenti all’epoca della guerra fredda, che definiva regioni geostrategiche”; esse comprendevano al loro interno regioni geopolitiche differenti, che tendevano però a esser più omogenee e più integrate economicamente, culturalmente e anche politicamente. Tale suddivisione, che riflette le condizioni specifiche della guerra fredda, risulta tuttavia ‛datata’, in quanto corrisponde a un periodo in cui le esigenze di sicurezza venivano considerate prioritarie rispetto a qualsiasi altro aspetto. Inoltre, essa corrisponde anche a una concezione della strategia molto più ampia di quella tradizionale e che si riferisce alla cosiddetta ‛strategia globale’ del generale francese Beaufre o alla Grand strategy, termine largamente utilizzato, specie negli Stati Uniti. Nel linguaggio politico e militare, il termine ‛geostrategico’ tendeva infatti a sostituire ‛geopolitico’, proprio per l’ostracismo contro la geopolitica, considerata scienza ‛malvagia’ e sostanzialmente nazista.

Altra distinzione interessante è quella recentemente proposta da Yves Lacoste (v., 1993), secondo il quale non vi sarebbero differenze sostanziali tra geopolitica e geostrategia per la fondamentale identità dei loro contenuti: la geopolitica, però, si riferirebbe al dibattito interno sulla politica estera, che è influenzato dalla ‛rappresentazione’ che ogni gruppo politico ha del proprio spazio; la geostrategia riguarderebbe invece i rapporti, sia conflittuali che cooperativi, fra i vari soggetti geopolitici. Anche tale distinzione, tuttavia, non sembra accettabile, sia perché ove non esistesse dibattito democratico non vi sarebbe neppure geopolitica, sia per l’accezione troppo estesa del termine strategia, che coprirebbe di fatto tutta la politica estera.

Appare in sostanza preferibile riferire i due termini a campi specifici: a quello della politica apparterrebbe la geopolitica, intesa come definizione dei fini, degli obiettivi e delle grandi scelte circa i mezzi (diplomatici, economici, militari, ecc.) disponibili ai vari soggetti geopolitici per conseguirli. Il termine geostrategia si dovrebbe invece riferire al campo specificamente militare, subordinato e strumentale alla politica, estendendolo, beninteso, a tutti i fattori con esso strutturalmente collegati e subordinati, come l’impiego di sanzioni economiche, blocchi, embarghi, o come la preparazione degli strumenti militari, che prima di essere fatto tecnico, implica decisioni politico-sociali.

 

 

e) Geopolitica e geoeconomia.

La geopolitica va infine distinta dalla geoeconomia (v. Savona e Jean, 1995). Quest’ultimo termine è entrato nell’uso corrente a seguito dei lavori di Edward N. Luttwak (v., 1990), il quale afferma che la geoeconomia ha sostituito la geopolitica nel mondo industrializzato. La gerarchia delle potenze e la cooperazione/competizione fra gli Stati avanzati sarebbero ormai unicamente di natura economica. Geopolitici – nel senso tradizionale del termine – rimarrebbero invece il Terzo Mondo e gli Stati collocati alla periferia dei nascenti blocchi o poli regionali.

I temi fondamentali della geoeconomia riguardano la preparazione degli Stati per la competizione geoeconomica; l’analisi dei rapporti fra globalizzazione, regionalizzazione e localizzazione dell’economia; la competizione fra i vari sistemi economici, e così via.

Alla visione di Luttwak si contrappongono coloro, come Paul Krugman (v., 1991), i quali affermano che l’economia internazionale non obbedisce a regole di competitività dei ‛sistemi-paese’, ma a logiche del tutto diverse da quelle della politica.

A nostro parere, la geoeconomia non può avere in nessun caso una natura separata dalla politica, anche se, nella costante dialettica fra Stato e mercato, quest’ultimo ha assunto una maggior importanza che nel passato, soprattutto perché dalla situazione premoderna, in cui esistevano più mercati che Stati, e da quella moderna, in cui i mercati coincidevano essenzialmente con il territorio degli Stati, siamo attualmente passati a una situazione in cui esistono più Stati che mercati; questi ultimi, inoltre, per l’indipendenza e la globalizzazione economica, tendono a unificarsi in un mercato globale. La geoeconomia non si contrappone pertanto alla geopolitica, ma è una specie di geopolitica economica, come la geostrategia è una geopolitica militare, entrambe subordinate e strumentali alla geopolitica nel senso proprio del termine.

 

 

f) Definizione e contenuti della geopolitica.

Il significato e i contenuti della geopolitica variano notevolmente nelle varie accezioni che sono state date al termine. Se tutti sono d’accordo nel ritenere che la geopolitica esprima i rapporti fra fattori geografici e politica, è il differente giudizio sulla natura di tali rapporti a originare la diversità delle definizioni di geopolitica.

Per taluni, anche con le cautele prima descritte in riferimento al significato del determinismo in politica, la geopolitica è la disciplina che studia i fatti politici rispetto alla loro dipendenza dall’ambiente geografico. In quest’ottica, pertanto, la geopolitica assume valore normativo: indica alla politica, di cui in certo senso costituisce il fondamento naturalistico, ciò che deve fare. Inoltre, essa ha un oggetto specifico e quindi un campo disciplinare proprio, diverso da quello delle scienze geografiche. È questa la tesi attribuita da molti alla scuola geopolitica tedesca degli anni venti-trenta, ma non solo a essa (v. cap. 2, § b): si sarebbe trattato quindi di una ‛geopolitica metafisica’ (v. Gallois, 1990), di una vera e propria ‛mistica dello spazio’. Una simile geopolitica – sia detto per inciso – caratterizza tutti i conflitti identitari ed etnici emersi nel periodo post-bipolare, allorché sono entrate in una crisi irreversibile le ideologie globalizzanti che semplificavano il mondo della guerra fredda.

In una seconda accezione, i rapporti fra fattori geografici e politici vengono visti in una prospettiva non deterministica. Soggetto della geopolitica non è l’ambiente, ma l’uomo. La geografia, pur restando un fattore importante della politica e della storia, non può dare indicazioni, ma offrire solo opportunità e imporre condizionamenti che devono essere tenuti presenti da chi effettua le scelte. In questo senso la geopolitica è la geografia del principe” (v. Pagnini, 1985): essa appartiene più al campo delle scienze politiche che di quelle geografiche, in quanto per ogni ragionamento geopolitico sono determinanti i valori, i principî, gli interessi e la cultura che influenzano le valutazioni. Anche se indica una gamma di possibilità, la geopolitica presuppone l’esistenza, almeno implicita, di un progetto politico.

Secondo una terza accezione, nella geopolitica assume un ruolo determinante il ‛senso dello spazio’: in questa prospettiva l’influsso della geografia e della storia sulla cultura ‛determina’ la lettura dello spazio – o meglio degli spazi – in cui si vive e si agisce. La geopolitica riguarderebbe in primo luogo le ‛rappresentazioni’ che influenzano il comportamento politico (v. Lacoste, 1993, pp. 1-35): determinante sarebbe, più che l’ambiente, il modo in cui lo si immagina e lo si concettualizza ai fini delle decisioni politiche, cioè la Weltanschauung che ispira un ragionamento geopolitico. La geopolitica sarebbe quindi il derivato diretto di una metapolitica.

Una seconda classificazione della geopolitica si basa sulla differenza del punto di vista da cui ci si pone e della natura dei problemi che si intendono affrontare. Ponendo lo Stato come elemento centrale del sistema politico, sia interno che internazionale, si può distinguere una geopolitica esterna da una interna; qualora, invece, ci si riferisca a soggetti geopolitici diversi dallo Stato, si può distinguere una geopolitica globale, una statale, una regionale (nel senso delle macroregioni) e una substatale, che può variare da quella localistica alla geopolitica delle imprese.

La differenza fra la geopolitica interna e quella esterna appare evidente dagli stessi termini impiegati: la prima si riferisce ai rapporti di potere all’interno – quali, ad esempio, la ripartizione del territorio di uno Stato in regioni amministrative o la distribuzione territoriale delle varie forze politiche – e si sviluppa anche a seguito dell’affermarsi del concetto di frontiera naturale, che racchiude in sé quello di confine lineare; si tende a spostare ogni tensione sulle frontiere esterne, per eliminare quelle esistenti all’interno e per omogeneizzare il territorio. La geopolitica esterna si riferisce invece ai rapporti esterni di ciascun soggetto geopolitico.

Per la geopolitica globalista l’unico vero soggetto della politica sarebbe il mondo: si tratta di un approccio per molti versi simile all’attuale geopolitica ‛critica’, che taluni – data la globalizzazione delle culture, dell’ecologia, dell’economia e dell’informazione, l’interdipendenza fra gli Stati e l’affermarsi di istituzioni e di un diritto internazionali – hanno denominato ‛geopolitica della pace’ o ‛ecologia delle potenze’ (v. Strassoldo, 1979). L’interesse della geopolitica globale non dovrebbe essere rivolto ai rapporti di potere, ma alla stabilità e alla pace intese come fini in sé, non come fattori che riflettono i rapporti di potenza e mirano a perpetuarli o a modificarli (che sarebbe poi la preoccupazione principale della geopolitica ‛classica’: v. Wieser, 1994). Temi come quelli dei rapporti Nord-Sud e dei grandi problemi ecologici globali (buco dell’ozono, variazioni climatiche, ecc.) dovrebbero costituire le preoccupazioni centrali della ‛nuova’ geopolitica.

Un filone particolare di questa tendenza – come abbiamo già accennato – è rappresentato dalla cosiddetta geopolitica ‛critica’, che mira soprattutto a smascherare la funzione strumentale, sostanzialmente di manipolazione delle percezioni e di propaganda, di tutte le teorie geopolitiche ‛classiche’.

La geopolitica localistica e quella delle imprese hanno preoccupazioni più limitate, circoscritte a un’area o a un oggetto d’interesse particolare. La prima è caratteristica dei gruppi politici substatali; la seconda cerca di individuare, ai fini delle decisioni di carattere imprenditoriale, il rischio politico degli investimenti, l’affidabilità dei sistemi-paese e le opportunità che questi ultimi presentano ai fini degli interessi delle imprese.

Esistono poi geopolitiche specializzate o settoriali, come quelle delle religioni, dell’energia, dell’acqua, della droga e così via.

 

 

 

 

3. Precursori e storia del pensiero geopolitico fino alla fine del mondo bipolare.

 

a) I precursori.

Le origini della geopolitica, nella sua accezione allargata, risalgono agli albori della storia, cioè alle origini della politica e della geografia. La politica, come la strategia e l’economia, non possono prescindere dai loro rapporti con l’ambiente geografico, politico, strategico ed economico, siano essi tanto fisici o naturali quanto antropici.

Storicamente, l’influsso dei fattori geografici è sempre stato considerato importante, implicitamente o esplicitamente. I geografi, come gli esploratori, hanno sempre fornito notizie utili ai politici, agli strateghi e ai mercanti. I condizionamenti e le opportunità che offre la geografia hanno rappresentato, sin dagli albori della storia, tematiche di interesse fondamentale: l’influsso del clima, della morfologia e della collocazione geografica sugli interessi e sulle caratteristiche dei popoli e degli Stati, la contrapposizione fra terra e mare, popoli nomadi e sedentari, città e campagne, montagne e pianure. In tal senso il pensiero geopolitico può esser fatto risalire alla Bibbia, a Strabone, a Erodoto, ad Aristotele. Geopolitiche sono le teorie sull’evoluzione ciclica della storia, da Ibn Khaldūn a Vico, o sull’influsso del clima sulla cultura, l’organizzazione sociale e le strutture politiche, da Aristotele a Bodin e a Montesquieu (v. Konigsberg, 1960). Geopolitiche sono la concezione romana che ha presieduto alla costruzione delle grandi strade per unificare l’Impero, l’urbanistica di Cosimo de’ Medici o la geografia ‛volontaria’ di Vauban, mirante a correggere le vulnerabilità naturali della Francia e a rafforzarne le difese.

Geopolitiche sono anche le dottrine mercantilistiche, da E. J. Hamilton a F. List, e in particolare i progetti di quest’ultimo per la costruzione di una rete ferroviaria sia fra la Germania orientale e occidentale, per garantire l’unificazione della nazione e permettere un’agevole manovra per linee interne delle sue forze militari, sia in direzione nord-sud (ad es. con la ferrovia Berlino-Bagdad), per favorire la penetrazione economica tedesca verso sud, in modo non intercettabile dalla marina britannica.

Geopolitici sono stati il cosiddetto Great game, svoltosi nel secolo scorso fra gli Imperi britannico e zarista in Caucaso e in Asia centrale, come pure l’affermazione della frontiera naturale francese sul Reno, anticipata da Richelieu ma affermatasi con specifiche connotazioni naturalistiche, sotto l’influenza dell’illuminismo, durante la Rivoluzione francese. Geopolitiche sono state le decisioni di introdurre l’insegnamento della geografia nelle scuole e università, dapprima in Prussia, dopo il Congresso di Vienna, e successivamente in Francia, dopo la sconfitta del 1870-1871 e la perdita dell’Alsazia e della Lorena. In particolare, le decisioni prese a questo riguardo dal governo prussiano, sollecitato dai geografi K. Ritter e A. von Humboldt (v. Korinman, 1990, p. 17), sono state ispirate dalla volontà di acquisire il consenso del popolo tedesco all’unificazione, dimostrandone la necessità ‛naturale’ attraverso sapienti rappresentazioni cartografiche.

Le origini della geopolitica moderna, in particolare della Scuola tedesca, vanno invece fatte risalire alla fine del secolo scorso, con lo sviluppo della geografia umana e di quella politica, e con l’introduzione di concetti quali quelli di Stato-potenza, di Stato come organismo vivente, di mobilità delle frontiere, di spazio vitale e di autarchia. Tali teorie, sempre collegate col pensiero politico realistico, si contrapposero dapprima all’internazionalismo del libero mercato e della supremazia economica dell’Impero britannico, e successivamente all’idealismo wilsoniano.

È da tale punto che si prenderanno le mosse per analizzare anche l’influsso che tali teorie hanno avuto durante la guerra fredda e che ancora hanno sul pensiero geopolitico post-bipolare.

 

 

b) La nascita della geopolitica moderna: Ratzel e Kjellén.

Friedrich Ratzel (1844-1904) è il fondatore della geografia politica. Egli svolse un ruolo attivo in politica: si considerava infatti un patriota al servizio della Germania ed era fautore delle conquiste coloniali a sud, della costruzione di una grande flotta oceanica per proteggere le colonie dalla Marina britannica, e dell’espansione culturale ed economica, prima ancora che territoriale, verso est. Ratzel aveva una visione darwiniana e biologica dello spazio e dello Stato, e concepiva uomo e natura come componenti di un unico processo teleologico, in cui entrambi svolgono un ruolo essenziale; non era determinista, né fautore di una politica necessariamente aggressiva; sosteneva l’importanza sia del ‛senso dello spazio’ proprio di ciascun popolo, sia della volontà politica di realizzare un’armonica unità fra territorio e nazione, conseguibile solo allorché una nazione si sia estesa sull’intero spazio vitale che le è proprio.

Rudolph Kjellén (1864-1922), politologo e uomo politico svedese, impiegò per primo, nel 1899, il termine ‛geopolitica’ in un articolo sui confini della Svezia, riprendendo e sviluppando in seguito tale concetto nella sua opera fondamentale Lo Stato come organismo vivente (1916). Kjellén considerava la geopolitica una delle cinque categorie necessarie per l’analisi politica degli Stati, della loro struttura e delle loro relazioni, in cui interagiscono popolazione, territorio, società, economia e ordinamento giuridico e istituzionale; le altre quattro categorie erano rappresentate da demopolitica, sociopolitica, ecopolitica e cratopolitica. Secondo Kjellén la geopolitica non è solo un contenitore spaziale delle altre quattro categorie, che essa unifica su un determinato territorio, ma influisce anche direttamente sulle caratteristiche dello Stato e quindi sulla sua politica e sulla sua storia. Essa va esaminata sotto tre aspetti: la topopolitica, che riguarda la posizione di uno Stato rispetto agli altri; la morfopolitica, che analizza gli effetti della forma del territorio; la fisiopolitica, relativa alle caratteristiche fisiche, in primo luogo alle dimensioni dello Stato. In sostanza, Kjellén riteneva, a differenza di Haushofer (v. sotto, § c), che la geopolitica non assorbisse tutto l’influsso dei fattori geografici sulla politica; alcuni fattori geografici venivano infatti considerati dalle altre quattro categorie di analisi dello Stato (le risorse naturali dall’ecopolitica, l’entità della popolazione dalla demopolitica, ecc.).

Kjellén pertanto combinava la geografia con la scienza della politica e considerava lo Stato un organismo vivente territoriale, la cui essenza era costituita dalla potenza. Egli era influenzato dal darwinismo sociale, dalla filosofia idealistica tedesca e dalla scuola della politica di potenza, e riprendeva tesi sostenute da von Ranke, da von Treitschke e da Ratzel.

Filotedesco, auspicava la vittoria della Germania nella prima guerra mondiale, in quanto solo con la germanizzazione dell’Europa la civiltà europea avrebbe potuto sopravvivere, espandendosi verso sud fino al Golfo Persico e creando una zona d’influenza a est, per poter competere con le altre due grandi ‛panregioni’: quella americana, dominata dagli Stati Uniti, e quella dell’Asia Orientale, a egemonia giapponese. Kjellén costituisce un tramite fra Ratzel e la scuola geopolitica tedesca sul potere continentale, sviluppatasi nel primo dopoguerra a Monaco di Baviera.

 

 

c) Il pensiero geopolitico continentalista.

Sir Halford John Mackinder (1861-1947) è il più conosciuto sostenitore della teoria del potere continentale. Il punto centrale delle sue tesi è che esiste un’area, che denomina prima pivot area” (v. Mackinder, 1904) e successivamente heartland” (v. Mackinder, 1919), il cui controllo garantirebbe alla massa continentale euroasiatica (isola del mondo”) il dominio mondiale. Dal cuore dell’Eurasia mossero nel passato le grandi invasioni verso la ‛mezzaluna interna’ (Europa, Medio Oriente, India e Cina ). Solo con la scoperta dell’America e la sua conquista, l’Europa acquisì la superiorità sulla massa continentale euroasiatica, estendendo il suo dominio su altre parti della mezzaluna interna, oltre che sulla mezzaluna esterna (Americhe, Africa, Australia). All’inizio del Novecento, però, due fattori stavano nuovamente modificando la situazione: la costruzione delle ferrovie russe, che consentivano una manovra per linee interne, e l’espansione industriale tedesca, che metteva in pericolo la superiorità britannica. Di qui l’esigenza per la Gran Bretagna di cambiare politica, rompendo l’alleanza con la Germania e alleandosi con la Francia, gli Stati Uniti e il Giappone.

La tesi dell’esistenza di un centro da cui si irradiava la potenza continentale era ben spendibile, dal punto di vista propagandistico, per sostenere la politica che Mackinder proponeva per la Gran Bretagna, una politica che fu rivista più volte dallo stesso Mackinder per adattarla alle circostanze. Prima della sconfitta della Russia a opera del Giappone, lo heartland era collocato nell’Asia Centrale e nella Siberia, da dove la Russia zarista poteva minacciare l’India, cuore dell’Impero britannico. Dopo la prima guerra mondiale venne spostato a ovest, includendo i bacini del Baltico e del Mar Nero, fino alla linea Elba-Adriatico; infatti, il nemico principale era in questo caso la Germania, dato che la Russia era stata neutralizzata dalla Rivoluzione. L’obiettivo principale delle potenze marittime era impedire che le capacità organizzative e industriali tedesche si potessero giovare delle risorse della massa continentale; per raggiungerlo, esse dovevano quindi creare e mantenere il controllo su una fascia cuscinetto che separasse la Germania e l’Unione Sovietica. In sostanza, Mackinder polemizzava con l’applicazione pro-tedesca dei quattordici punti di Wilson sull’autodeterminazione dei popoli e razionalizzava la politica francese e britannica al congresso di Versailles, opponendo le ragioni del realismo geopolitico a quelle degli ‛ideali democratici’ wilsoniani. Al volgere della seconda guerra mondiale, il cuore della Terra” (v. Mackinder, 1943) venne spostato nuovamente, questa volta verso est, e venne individuato un secondo cuore marittimo” nell’Oceano Atlantico, ponte fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale. I due ‛pivot’ dell’emisfero Nord avrebbero dovuto allearsi per bilanciare il crescente peso della Cina e dell’India.

La scuola geopolitica tedesca degli anni venti e trenta, che fa capo al generale Karl Haushofer (1869-1946), trae spunto polemico dal concetto di heartland di Mackinder per denunciare le basi imperialistiche della politica britannica nella pace di Versailles e, nel contempo, per sostenere la causa della rivincita tedesca contro le ingiustizie subite e promuovere un nuovo assetto del potere mondiale – basato sull’intesa della Germania con l’Unione Sovietica e con il Giappone – abbattendo il monopolio marittimo e coloniale delle potenze anglosassoni. Secondo Haushofer, il mondo andava ristrutturato in ‛panregioni’ estese nel senso dei meridiani e caratterizzate, per la diversità delle loro parti, da un equilibrio interno. Le panregioni avrebbero dovuto essere quattro: la Pan-Europa, comprendente anche il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente fino al Golfo Persico; la Pan-America; la Pan-Russica, estesa fino all’India, ma non più menzionata a partire dal 1941; e la Pan-Pacifica, a egemonia giapponese, comprendente la Cina, l’Indonesia e l’Australia. Il sistema Mediterraneo avrebbe avuto una sua autonomia nell’ambito della Pan-Europa e sarebbe stato dominato dall’Italia.

Contrariamente a quanto affermato dai geografi americani negli anni quaranta (v. Antonsich, 1994), la geopolitica di Haushofer si ispirava alla tradizione del nazionalismo tedesco, e quindi era del tutto opposta a quello che fu il programma nazista, che prevedeva – sulla base di una concezione razzista sconosciuta, fino ad allora, alla geopolitica tedesca – un’espansione illimitata a est e il mantenimento della pace a ovest; per Hausofer, il nemico era costituito dalla Gran Bretagna e dalle potenze marittime, non dalla Russia. In geopolitica, in realtà, tra il concetto di razza e quello di spazio esiste una contraddizione sostanziale.

 

 

d) Le teorie dei poteri marittimo e aerospaziale.

Le teorie del potere marittimo – i cui principali esponenti sono l’americano Mahan e il britannico Corbett – sono vere e proprie teorie geopolitiche, che vanno separate dal pensiero strategico navale. La potenza navale è considerata unitariamente con quella economica e finanziaria.

Alfred Thayer Mahan (1840-1914) visse nell’epoca in cui, raggiunto il Pacifico, gli Stati Uniti dovevano espandersi sui due oceani – anche per controllare gli accessi al canale di Panama, fulcro strategico della sicurezza e dell’unitarietà geostrategica fra le coste orientali e quelle occidentali degli Stati Uniti – occupando le Hawaii, le Filippine e Cuba. Le visioni geopolitiche di Mahan furono fatte proprie dal presidente Theodore Roosevelt, di cui Mahan era consigliere, e ispirarono il neoimperialismo americano, che diede della dottrina Monroe un’interpretazione dinamica, se non aggressiva. Come stratega navale, Mahan è considerato il principale esponente delle cosiddette ‛scuole navaliste’, che attribuiscono grande importanza agli aspetti geografici del potere navale, come le basi, e che, in caso di conflitto, sostengono la priorità dell’acquisizione del dominio sul mare mediante la distruzione delle flotte nemiche, con una grande battaglia navale volta a consentire il dominio del mare e la libera utilizzazione delle vie di comunicazione marittime. Come Ratzel e von Tirpitz nella Germania guglielmina e, in tempi successivi, come l’ammiraglio S. G. Gorshkov, creatore della grande marina sovietica del secondo dopoguerra, Mahan venne condizionato da concezioni mercantilistiche, come quelle dell’importanza del commercio estero e del possesso, se non di colonie, almeno di basi per esercitare un dominio mondiale.

L’inglese Julian Corbett (1854-1922) aveva una visione ‛anfibia’ del potere navale e incentrava la sua attenzione sull’influenza che esso esercitava sulle operazioni terrestri. Egli riteneva che, pur facilitando la vittoria, il dominio del mare, da solo, non permettesse di vincere un conflitto, e che a tal fine occorresse un esercito reso mobile dal trasporto navale. Le tesi di Corbett riflettono la ‛grande strategia’ della pax britannica del secolo scorso e, dalla fine della guerra fredda, sono in corso di rivalutazione in Occidente, dove tutte le marine stanno passando da una strategia ‛navalista’ a una ‛marittima’.

Per molti versi analoghe alle teorie del potere marittimo sono quelle del potere aerospaziale. Esse rappresentano in realtà teorie geostrategiche, fondate sullo sviluppo del potere aereo e dell’impiego militare dello spazio; i loro esponenti principali sono stati l’italiano Giulio Douhet, che in realtà era un teorico esclusivamente strategico, e il russo-americano Alexander de Seversky, che sviluppò anche argomentazioni di tipo geostrategico e, parzialmente, geopolitico. Tali teorie rispecchiano il fatto che lo sviluppo della dimensione aerea e delle armi nucleari ha attenuato la contrapposizione terra-mare, divenuta subordinata alla competizione per il dominio dell’aria. Il centro del potere mondiale si sarebbe spostato nell’Oceano Artico, come risulterebbe evidente dalle rappresentazioni cartografiche centrate sul polo Nord. Tali tesi – superate peraltro dalla gittata dei missili intercontinentali lanciati sia da terra che da sottomarini, nonché dalla conquista dello spazio – attribuiscono prevalente importanza ai fattori tecnologici e si ripercuotono sulle nuove teorie della ‛guerra delle informazioni’; quest’ultima starebbe provocando una ‛rivoluzione negli affari militari’ che permetterebbe agli Stati Uniti di esercitare il dominio mondiale senza ricorrere allo schieramento permanente di forze in Europa occidentale e in Asia orientale. Si tratta però di tesi che si ispirano a una visione esclusivamente tecnologica, la quale riduce la politica alla strategia e quest’ultima alla tecnologia degli armamenti: per quanto esse abbiano ispirato le teorie della dissuasione nucleare, predominanti nel corso della guerra fredda, appaiono ora superate sia dal fatto che la dissuasione nucleare reciproca si è tradotta in autodissuasione (v. Gray, 1977), sia dalla diffusione di potenza e dalla frammentazione del mondo post-bipolare (v. Gray, 1991), che hanno portato a rivalutare il ruolo delle forze convenzionali.

 

 

e) Le teorie del potere peninsulare.

Nicholas J. Spykman (1893-1943), uno degli esponenti più importanti della scuola americana del realismo politico, concepiva la geopolitica come un filone particolare di quest’ultimo, come componente essenziale degli arcana imperii, polemizzando aspramente sia con l’idealismo cosmopolita di derivazione wilsoniana, sia con l’isolazionismo miope di coloro che avrebbero voluto estraniare gli Stati Uniti dagli affari del mondo. Secondo Spykman, la conservazione della ricchezza e della potenza degli Stati Uniti imponevano loro, invece, di intervenire nel secondo conflitto mondiale e di farsi promotori, alla sua fine, di un ordine mondiale coerente con i loro interessi, definiti beninteso anche in relazione ai loro principî e valori di fondo.

Il centro propulsore della conflittualità mondiale sarebbe costituito (v. Spykman, 1944) dalla fascia peninsulare e insulare dell’Europa occidentale e dell’Asia orientale (denominata rimland), da cui sono partiti gli assalti al potere mondiale”. La sua unificazione sarebbe stata disastrosa per gli interessi degli Stati Uniti, che, infatti, erano circondati dal rimland, come risultava evidente esaminando una carta del mondo incentrata sugli Stati Uniti, e non lo circondavano, come invece si sarebbe potuto concludere da una carta incentrata sull’Europa.

Gli Stati Uniti sarebbero stati gli alleati naturali della Russia, con cui condividevano l’interesse a evitare l’unificazione del rimland, e che pertanto avrebbe dovuto essere favorevole alla presenza statunitense sia in Europa che in Estremo Oriente. Tale alleanza presentava, però, un limite: qualora fosse stata Mosca a cercare di esercitare la propria egemonia sul rimland, gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire per impedirlo. Quelle di Spykman sono tesi ricorrenti nelle relazioni fra Washington e Mosca. Sia la politica roosveltiana, sia quella attuale, nota come ‛Russia first‘ – fondamento dell’idea di un nuovo ordine mondiale basato su un ‛duopolio imperiale’ americano-russo legittimato dall’ONU, quale sembrò affermarsi con la guerra del Golfo – sia la politica del containment della guerra fredda, sono sicuramente ispirate a questa visione geopolitica. Taluni, però, fanno discendere la grande strategia americana del periodo della guerra fredda” dalle tesi di Mackinder piuttosto che da quelle di Spykman (v. Gerace, 1991).

Di tutte le teorie elaborate dalla geopolitica classica, quelle di Spykman sono ancora quelle che verosimilmente più influiscono sull’attuale pensiero geopolitico (v. Wilkinson, 1985).

 

 

f) Le concezioni regionali e multipolari.

Saul B. Cohen (v., 1963) criticò tutte le concezioni geopolitiche precedenti per il loro eccessivo schematismo, che avrebbe comportato una visione rigida e globalistica del containment, da cui era derivata la cosiddetta ‛dottrina del domino’, base dell’intervento americano in Vietnam. Secondo Cohen, ogni elemento geopolitico della fascia del containment dell’Unione Sovietica era dotato di una propria individualità; pertanto, la conquista di uno di essi non avrebbe provocato il collasso – per l’‛effetto domino’, appunto – dell’intero sistema. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto puntare a una maggiore autonomia regionale, diminuendo il loro impegno continentale sul rimland e creando poderose forze mobili, che avrebbero costituito un elemento equilibratore da impiegare solo in caso di aggressione a parti vitali del sistema antisovietico.

La prevalenza della dimensione strategica nella guerra fredda portò Cohen a dividere il mondo in due grandi regioni geostrategiche – il mondo commerciale marittimo e quello continentale euroasiatico – a loro volta suddivise in regioni geopolitiche, destinate a integrarsi attorno a uno Stato catalizzatore regionale, come la Germania per l’Europa.

Tali concezioni regionali o multipolari, che non ebbero modo di svilupparsi durante la guerra fredda data la rigidità della struttura del mondo bipolare, si stanno affermando dopo che quest’ultimo è venuto meno e si riflettono anche nelle concezioni geopolitiche del ‛nuovo disordine’ o dell’‛anarchia internazionale’.

 

 

g) La geopolitica francese.

La geopolitica francese si contrappone costantemente a quella tedesca. La Francia del XIX secolo non aveva ambizioni territoriali, se non quelle di recuperare i territori perduti dopo la sconfitta del 1870-1871. La scuola geopolitica francese si contrappose constantemente a quella tedesca, che tendeva ad arruolare la geografia sotto le bandiere dell’espansionismo (come avvenne nella Germania guglielmina prima e in quella hitleriana poi).

Il fondatore della geopolitica francese è considerato Paul Vidal de la Blache (1845-1918). Pur riconoscendo l’influenza della geografia sulla politica e sulla storia, egli affermava l’influenza determinante dell’uomo e della sua volontà, ridimensionando quindi quella dell’ambiente naturale e sostenendo una visione possibilista e antideterministica dell’impatto dei fattori naturali. Egli sottolineava la preminenza dei fattori culturali e della libera scelta dei cittadini, proprio per affermare la ‛francesità’ dell’Alsazia e della Lorena.

La sua impostazione venne ripresa da Jacques Ancel, che adottò l’approccio metodologico della scuola di Haushofer, francesizzando quindi la geopolitica tedesca proprio per confutarne le tesi e per porne in luce le finalità di mistificazione e di manipolazione.

L’intera geopolitica francese riflette quindi le concezioni francesi di nazione e di cittadinanza, contrapposte a quelle etniche e linguistiche proprie del pensiero tedesco.

 

 

h) La geopolitica sudamericana.

Negli anni cinquanta e sessanta si sviluppò, principalmente negli ambienti militari brasiliani, argentini e cileni, una geopolitica soprattutto interna, riferita alle esigenze di sistemazione, valorizzazione e organizzazione del territorio, anche in vista del miglioramento della sicurezza nazionale.

In particolare, il generale brasiliano Galbery do Conto e Silva (v. Lorot, 1995, pp. 80-83) applicò al Brasile il concetto di heartland, che situò nell’area compresa fra Brasilia, San Paolo e Rio de Janeiro. Tale zona sarebbe stata il centro di un arcipelago, dal quale si sarebbe dovuto procedere per integrare l’‛isola amazzonica’ e le penisole periferiche del nord-est (Recife), del sud (Rio Grande do Sul) e del centro-ovest nei pressi della frontiera con la Bolivia e il Paraguay. Da tale visione discesero lo spostamento della capitale a Brasilia e la decisione di costruire grandi vie di comunicazione strategiche per consolidare l’autorità del centro sulle regioni periferiche (per inciso, la recente decisione del Kazachstan di spostare la capitale da Alma Ata ad Akmola risponde a criteri almeno in parte analoghi).

Anche in Argentina e in Cile si diffusero teorie geopolitiche tendenti sempre a giustificare l’integrazione del territorio sotto il controllo dell’autorità centrale, completando la colonizzazione delle regioni scarsamente popolate e prevedendo anche il trasferimento, se necessario coatto, delle popolazioni.

 

 

i) L’idealismo geopolitico.

Tale orientamento si ispira a una visione idealistica o wilsoniana delle relazioni internazionali, in cui i rapporti di potenza sarebbero superati dall’esigenza di una pace positiva, basata sulla cooperazione e sulla solidarietà fra i popoli: ciò consentirebbe, fra l’altro, di non disperdere energie nella contrapposizione fra gli Stati, ma, al contrario, di concentrarle per la risoluzione dei grandi problemi comuni a tutta l’umanità, quali il sottosviluppo e il degrado ecologico.

Il tentativo più globale in questo senso fu compiuto da Immanuel Wallerstein (v., 1991), autore di un modello di sviluppo politico-economico mondiale, che avrebbe dovuto superare le disuguaglianze fra centro e periferia.

In Italia tali tesi sono state riprese e sviluppate, in particolare da Raimondo Strassoldo (v., 1979 e 1985), il quale ha teorizzato una ‛geopolitica costruttiva’ della pace e della ricostruzione sociale, cioè una ‛ecopolitica’ largamente decentrata da un lato e mondializzata dall’altro, contrapposta alla geopolitica classica, statocentrica e fondata sulla competizione per la ricchezza e per il potere.

Molte di queste tesi sono state riprese dalla moderna geopolitica ‛critica’ (v. Antonsich, 1995, pp. 49-57), i cui assunti sembrano però smentiti dal ‛pessimismo geopolitico’ ora dominante, in un mondo in cui a fenomeni di globalizzazione e anche di integrazione regionale ‛aperta’ sembrano contrapporsi da un lato la realtà del conflitto fra poli politico-economici, e dall’altro, soprattutto, le tendenze alla frammentazione, se non all’anarchia, del sistema internazionale.

 

 

l) Considerazioni sulla geopolitica del Novecento.

La geopolitica classica deriva dalla fusione di apporti storici e geografici ed è profondamente influenzata sia dall’evoluzione della tecnologia, sia dall’idea, tutta illuministica, di un progresso continuo verso un equilibrio corrispondente agli interessi dello Stato, al particolare periodo storico e all’ottica specifica in cui ci si colloca. Essa è fondata, in particolare, sulle correlazioni geografiche e su quelle della storia, intesa, quest’ultima, come processo razionale, interpretabile scientificamente e quindi tale da fornire indicazioni per la politica degli Stati.

La geopolitica classica, peraltro, non essendo mai neutrale né scientifica, assolve spesso una funzione ideologica e propagandistica, e rispecchia il sistema di valori e gli interessi di chi ne ha formulato le diverse teorie. Tale aspetto è particolarmente evidente nei ripetuti spostamenti dell’heartland di Mackinder.

Ciò non toglie che tali teorie costituiscano interessante materia di studio, perché taluni loro assunti, quali quello delle macroregioni (i Grossräume di Ratzel e Haushofer, ripresi da Carl Schmitt) sono stati ripresi sia dai sostenitori del NAFTA (North America Free Trade Agreement) o del cosiddetto partenariato euromediterraneo, sia dai federalisti europei o dagli eurasisti russi, spesso – ma non necessariamente – in antitesi con dottrine globaliste o internazionaliste. Queste ultime appaiono talvolta finalizzate esclusivamente a perpetuare, legittimandola, la superiorità degli Stati Uniti nell’epoca successiva alla guerra fredda e l’utilizzo da parte di questi ultimi delle grandi istituzioni internazionali, come l’ONU, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nei cui confronti peraltro – quando sono in gioco gli interessi americani – gli Stati Uniti assumono un approccio marcatamente unilaterale.

Un altro motivo di interesse è dovuto al fatto che, con la frammentazione del mondo post-bipolare e lo scoppio di conflitti identitari, etnici e regionali, le percezioni e le rappresentazioni geopolitiche tradizionali, cioè il senso dello spazio proprio di ciascun gruppo socio-politico, stanno riemergendo e si prestano a essere strumentalizzate dai leaders politici per assumere o consolidare il loro potere, acquisendo il consenso delle masse su programmi nazionalistici che vengono giustificati facendo appello alla geografia e alla storia.

 

 

 

 

4. La geopolitica italiana.

 

a) Dagli albori al Risorgimento.

Le origini della geopolitica italiana possono esser fatte risalire al Medioevo, allorché non solo le Repubbliche marinare e il Regno di Napoli, ma anche Roma, Firenze e Milano erano veri e propri Stati, con una propria politica economica, se non globale, estesa almeno dal Mediterraneo all’Europa settentrionale e con rapporti internazionali molto intensi anche sotto il profilo culturale. È inoltre opportuno ricordare le tesi di Vico sui cicli storici e sui rapporti reciproci fra le civiltà dei monti, dei fiumi e delle pianure.

La geopolitica si sviluppò però nel Risorgimento, sia al fine di razionalizzare le motivazioni dell’unificazione nazionale anche a scopi propagandistici, sia per affrontare problemi di fondo, come quelli relativi a un’iniziativa puramente nazionale o all’inserimento del movimento unitario nel gioco degli equilibri delle grandi potenze, quello della struttura centralizzata o federativa del nuovo Stato, quello dei suoi interessi e del suo ruolo una volta che, dopo l’unificazione, esso fosse entrato a far parte del novero delle grandi potenze europee.

Molti dei temi dibattuti allora sono ancora vivi. Federalisti furono Cattaneo, Gioberti e Balbo, anche se con motivazioni diverse: il federalismo di Cattaneo era soprattutto anti-piemontese; quello di Gioberti teneva conto del peso del papato al centro della penisola e della necessità di acquisirne il sostegno al movimento di unificazione nazionale o, quanto meno, di non provocarne l’ostilità; Balbo riteneva invece che una struttura federale risultasse più accettabile da parte delle potenze europee di quanto potesse esserlo uno Stato centralizzato, sia perché uno Stato federale, assorbito dal problema di mantenere gli equilibri interni, non avrebbe potuto svolgere una politica di potenza, alterando in modo imprevedibile i rapporti di forza in Europa, sia perché esso avrebbe potuto meglio conservare gli assetti socio-economici esistenti, senza riflessi negativi sulla stabilità interna degli altri Stati. Per questo Balbo criticava l’idea giobertiana del primato morale e civile” degli Italiani e voleva collocare il movimento unitario italiano nell’ambito di un vasto e pacifico assestamento geopolitico dell’intera Europa. L’unificazione italiana sarebbe stata compensata da un’espansione dell’Austria nei Balcani e nell’Europa sud-orientale fino agli stretti turchi, della Germania verso est, per dar sfogo al suo incremento demografico, e della Russia in Asia, per civilizzarla e cristianizzarla. Balbo prevedeva inoltre una lega germano-italica”, dal Baltico all’Adriatico, diaframma moderatore fra Oriente e Occidente.

Il movimento rivoluzionario risorgimentale fu invece decisamente unitario: esso propugnava la cacciata dell’Austria dall’Italia attraverso la mobilitazione popolare e la ‛guerra di popolo’. I suoi esponenti principali furono Carlo Pisacane – antesignano di quel socialismo nazionale, dotato di notevole carica irredentista e interventista, che diventerà una componente fondamentale della nostra storia – e Giuseppe Mazzini, che auspicava una repubblica centralizzata sul modello rivoluzionario francese e il raggiungimento dei confini naturali delle Alpi, con l’incorporazione quindi delle popolazioni alloglotte dell’Alto Adige e della Venezia Giulia. Mazzini sosteneva anche la tesi che l’Italia unificata avrebbe dovuto mettersi a capo di una ‛lega’ degli Stati minori europei, da quelli scandinavi alla Grecia, che avrebbe dovuto ottenere l’appoggio esterno dell’Inghilterra e allearsi con i popoli slavi per concorrere all’equilibrio europeo, opponendosi alle tendenze egemoniche russa, tedesca e francese. Mazzini era favorevole, infine, a una maggiore influenza italiana nel Mediterraneo e in Africa. In sostanza, nel suo pensiero erano presenti molte delle tendenze geopolitiche che successivamente influenzarono la politica estera dell’Italia unificata.

Il pensatore geopolitico più originale del Risorgimento fu il generale pontificio Giacomo Durando (v. Botti, 1994), che per primo introdusse il termine geostrategia, attribuendogli il significato che avrebbe assunto nel Novecento, ossia quello di geopolitica. Egli sosteneva che fossero i rilievi montani a determinare sia le strutture degli Stati e le caratteristiche delle nazionalità, sia le loro potenzialità strategiche. Secondo tale prospettiva, l’Italia sarebbe costituita da due subregioni, divise dall’Appennino tosco-emiliano: a nord l’Eridania, basata sul sistema idrografico del Po; a sud la regione peninsulare, basata sugli Appennini. Il ‛punto protostrategico’, situato fra le sorgenti del Santerno e il Monte Falterona, avrebbe costituito lo spartiacque fra i due sistemi geostrategici italiani, e pertanto il suo possesso avrebbe avuto un effetto catalitico per la loro unificazione.

 

 

b) La geopolitica dell’Italia liberale e del regime fascista.

Il Regno d’Italia fu caratterizzato dal sovrapporsi di varie tendenze geopolitiche incoerenti fra di loro. La nuova classe dirigente, rimasta prigioniera dei miti di grandezza nazionale propagandati nel Risorgimento, tese a strumentalizzare la politica estera a scopi interni, sforzandosi di occupare un ruolo che collocasse l’Italia nel novero delle grandi potenze europee. Ne derivò la cosiddetta politica del ‛peso determinante’, di cui un riflesso attuale è il presenzialismo, vale a dire la costante ricerca di un ruolo di mediazione nonostante la ridotta capacità propositiva, le cui ragioni vanno ricercate anche nel fatto che, in assenza di una cultura geopolitica delle classi dirigenti, non è possibile individuare interessi nazionali né elaborare una coerente politica estera, e si determina invece la tendenza a sostituire gli interessi con un ‛ruolo’. È da questa situazione che sono nate le ambiguità, i cambiamenti di alleanza e la tendenza a inserirsi in ogni combinazione e a trarne vantaggi. Ciò spiega inoltre l’intercambiabilità dell’irredentismo italiano – diretto talora contro la Francia, talaltra contro l’Austria – e la conversione di Crispi e di Mancini dall’anticolonialismo a una disastrosa politica di espansione in Africa, con grande sperpero di sforzi e risorse che avrebbero potuto essere più efficacemente impiegati per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Le uniche costanti della politica italiana dell’epoca furono l’amicizia con la Gran Bretagna, che dominava il Mediterraneo e che seguiva tradizionalmente in Europa una politica antiegemonica, e il tentativo di evitare confronti armati, in cui l’Italia sarebbe stata marginalizzata e avrebbe rivelato tutte le sue debolezze strutturali.

La costituzione, nel 1867, della Reale Società Geografica Italiana – alla quale diede un grosso impulso Cesare Correnti, con il dichiarato scopo di far sorgere in Italia uno spirito geografico per unificare culturalmente il paese e costituire uno stimolo per la sua politica estera – e quella, nel 1879, della Società Milanese di Geografia Commerciale – finanziata da industriali e volta inizialmente a reperire fonti di materie prime e mercati – trovarono scarsa eco negli ambienti accademici geografici, legati a una visione strettamente scientifica, se non arcadica, della loro attività, e interessati alla politica soprattutto per trarne sostegni finanziari.

Fece eccezione un’iniziativa editoriale di Cesare Battisti e del geografo Renato Biasutti, i quali fondarono nel 1899 a Trento la rivista Cultura geografica”, che ebbe però vita assai breve: essa si proponeva di porre il problema di rapporti fra geografia e politica su basi nuove, più attente ai problemi reali della società, contrapponendosi agli orientamenti più governativi e conservatori della Società Geografica.

Nemmeno la politica estera del fascismo, seppure caratterizzata da un grande attivismo – anche se in gran parte di semplice facciata e a uso interno -, fu sostenuta da un solido pensiero geopolitico. Negli anni trenta la politica estera italiana divenne destabilizzante, contestatrice degli assetti di Versailles e quindi alleata naturale, anche se inizialmente riluttante, del revanscismo tedesco; fu decisamente aggressiva sia nei Balcani che nel Mediterraneo, e tese a sfruttare il peso italiano, utile a Francia e Gran Bretagna in Europa, per ottenere compensazioni coloniali.

I problemi più delicati non riguardavano tanto lo ‛spazio vitale’ mediterraneo, quanto i Balcani, in cui l’Italia si trovava a fronteggiare la Germania; anche in questo caso l’incoerenza politica italiana è dimostrata dall’appoggio dato al croato Ante Pavelić, poi abbandonato nelle mani dei Tedeschi, per sostenere nel corso dell’occupazione più le milizie cetniche che quelle ustascia.

La corporazione dei geografi italiani sostenne i progetti di espansione nazionale ma, anziché dare un apporto culturale di spessore, si fascistizzò, beninteso con le dovute eccezioni, per ottenere riconoscimenti e prebende dal regime.

Il pensiero geopolitico non ebbe grande sviluppo. Vanno comunque segnalati i lavori di Roberto Almagià (v., 1923), che introdusse l’espressione ‛geografia politica dinamica’, utilizzata come sinonimo di geografia politica applicata, e di Luigi De Marchi (v., 1929), che sottolineò il valore indicativo e predittivo della geografia rispetto alla politica e affermò l’esistenza di ‛leggi tendenziali’ nel comportamento degli Stati.

Una vera e propria scuola geopolitica italiana si affermò a Trieste. Qui fu fondata nel 1939, e continuò le sue pubblicazioni fino al 1942, la rivista Geopolitica – Rassegna di geografia economica, politica, sociale e coloniale”, diretta da Giorgio Roletto, professore di geografia economica all’Università di Trieste, e dal suo allievo Ernesto Massi, docente di geografia all’Università di Pavia e all’Università Cattolica (v. Antonsich, 1991-1992). La rivista fu influenzata dalla tedesca Zeitschrift für Geopolitik”, ma se ne differenziò grandemente non solo per impostazione, negando ogni determinismo e affermando l’importanza centrale dell’uomo, ma anche per una maggiore ‛geograficità’, dato che i suoi collaboratori erano in prevalenza geografi. La sua tesi centrale era quella dello ‛spazio vitale’, inteso come spazio da organizzare più che da conquistare. Alla rivista non interessavano tanto le impostazioni teoriche; essa aveva l’ambizione di divenire la ‛coscienza geografica’ del regime e di sostenerne la politica estera, sia culturalmente, sia come mezzo di propaganda. Di fatto, il suo impatto reale rimase ridotto e la sua tiratura limitata, mentre la geografia accademica italiana la ignorò completamente, forse per il sospetto che l’autonomia della geopolitica dalla geografia fosse finalizzata ad ambizioni accademiche dei suoi sostenitori. La geopolitica italiana subì, in sostanza, una sorte analoga a quella della geopolitica tedesca. L’improvvisazione del regime, solitamente gabellata per pragmatismo, non voleva sicuramente farsi imbrigliare da elaborazioni che, per la loro stessa esistenza, l’avrebbero costretta a confrontarsi con l’esigenza di una maggiore coerenza e sistematicità.

 

 

c) La geopolitica della guerra fredda.

Le grandi ‛scelte di campo’ effettuate dall’Italia nell’immediato dopoguerra furono ispirate a una precisa visione geopolitica, chiaramente rintracciabile nel discorso di Luigi Einaudi a favore della firma del Trattato di pace, che mirava al reinserimento dell’Italia nell’Occidente e nell’economia internazionale. Non mancò neppure una politica di espansione economica nel Mediterraneo e nel mondo arabo, subordinata alle scelte atlantica ed europea, e una mini-Ostpolitik, ispirata non solo da interessi commerciali, ma anche di politica interna.

L’Italia perseguì in modo organico gli interessi nazionali entro tre cerchi (v. Incisa di Camerana, 1993): quello atlantico, quello europeo e quello mediterraneo, a cui se ne aggiunse successivamente un quarto, comprendente l’Est europeo e l’Unione Sovietica. Il primo, che era preminente, garantì la sicurezza esterna e costituì anche un fattore di stabilità interna; il secondo stimolò la modernizzazione e lo sviluppo economico italiano; il terzo e il quarto costituirono l’apporto più originale dell’Italia alla politica occidentale e consentirono inoltre la creazione di interessanti sbocchi commerciali e, soprattutto, di raggiungere l’indipendenza energetica, ma ebbero anche un non trascurabile effetto politico interno, in quanto attenuarono l’opposizione delle forze della sinistra cattolica e comuniste all’atlantismo e all’europeismo.

Il pensiero geopolitico teorico ebbe scarso spazio. Vanno comunque ricordati la rivista Hérodote/Italia”, diretta da Massimo Quaini fra gli anni settanta e ottanta e ispirata alla omonima rivista francese, e numerosi articoli, specie di Ernesto Massi e di Paola Pagnini, pubblicati sulla Rivista geografica italiana”. Più legati a visioni globaliste, ecologiste e pacifiste sono i già citati lavori di Strassoldo degli anni settanta e ottanta sulla ‛geopolitica della pace’, sull’‛ecologia delle potenze’ e sul significato delle frontiere, che dovrebbero essere i limiti permeabili di sistemi aperti portati alla collaborazione, anziché di sistemi chiusi e conflittuali, volti all’affermazione egoistica di propri specifici interessi.

 

 

 

 

5. La geopolitica contemporanea.

 

a) Le teorie globaliste.

La fine della guerra fredda ha provocato anche la scomparsa della separazione del mondo in tre raggruppamenti di Stati – i due blocchi e il Terzo Mondo – e ha in tal modo avviato una nuova dinamica. Lo sviluppo tecnologico ha portato alla globalizzazione dell’economia, della finanza e dell’informazione; ciò ha a sua volta determinato interdipendenze che andrebbero valorizzate a vantaggio di tutti. Il ‛gioco’ politico-strategico-economico non è più a somma zero: è divenuto a somma diversa da zero. La stessa contrapposizione economica fra gli Stati e fra i ‛poli’ regionali dovrebbe essere assoggettata a regole, basi di un nuovo ordine economico mondiale, in cui il Nord sarebbe portato a sviluppare il Sud e a risolvere i grandi problemi comuni, come quelli ecologici, quelli demografici e quelli dovuti a forze ‛devianti’ transnazionali, come la criminalità internazionale. Gli Stati-nazione sarebbero in via di estinzione, perché erosi dalle forze sovranazionali, transnazionali e substatali. La democrazia e il libero mercato avrebbero vinto. Si sarebbe determinata la ‛fine della storia’ e si sarebbero poste le basi per un ‛villaggio globale’, in cui la politica di potenza sarebbe sostituita dal diritto e da un ordine mondiale facente capo alle grandi istituzioni internazionali, dall’ONU a quelle economiche (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale del Commercio). L’unica superpotenza rimasta – gli Stati Uniti – dovrebbe svolgere il ruolo di ‛gendarme del mondo’, regolatore e garante degli equilibri, della stabilità e della pace mondiali, in nome della democrazia, dei diritti umani e del libero mercato.

Il punto culminante del successo di tali teorie è stata la guerra del Golfo, in cui gli Stati Uniti, alleati di fatto con l’Unione Sovietica in una specie di ‛duopolio imperiale’, hanno ripristinato il diritto internazionale violato dall’aggressione irachena al Kuwait.

L’euforia globalista si è ora notevolmente attenuata, anche se non è completamente scomparsa, e si è modificata con l’affermazione di un ‛regionalismo aperto’, fondato sulla cooperazione anziché sulla competizione fra i poli politico-economici che stanno sorgendo nel mondo, anch’essi peraltro sottoposti a tensioni interne fra le forze dell’integrazione e quelle della frammentazione.

Il collasso interno ha trasformato l’ex Unione Sovietica da fattore di ordine in causa di disordine anche al di fuori del suo spazio imperiale: infatti, la scomparsa della sua potenza militare, con le pressioni che questa esercitava anche a nord della Cina, consente a quest’ultima una politica, se non espansionistica, quanto meno di pressione in Asia orientale e meridionale.

Ma gli Stati Uniti, concentrati sui loro problemi interni e sull’esigenza di fronteggiare la competizione economica con l’Europa e con il Giappone, sono sempre più restii ad assumersi l’onere di guardiani dell’ordine mondiale.

La crescita vertiginosa dell’Asia, non solo economica ma anche militare, e il progressivo slittamento del centro dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico creano nuove tensioni e pongono a rischio la prosperità dei paesi più ricchi e la loro capacità di competere economicamente con paesi che hanno costi della manodopera estremamente ridotti. L’Africa subsahariana è in completo collasso: la disintegrazione dovuta alla conflittualità sorta negli Stati post-coloniali e in quelli post-comunisti non sembra arginabile. I fallimenti dell’ONU in Somalia, Ruanda e Bosnia hanno fatto diminuire la fiducia nella sua capacità di realizzare un nuovo ordine. Il commercio mondiale, anziché essere regolato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, vede il sorgere di una rete di accordi interregionali e interstatali, spesso in contrasto con le sue regole globali.

 

 

b) Le teorie multipolari.

A differenza delle teorie globaliste, quelle multipolari ritengono che il nuovo assetto geopolitico mondiale sia basato sul consolidamento di blocchi regionali, con rapporti sia cooperativi sia competitivi o, al limite, conflittuali fra di loro.

Di fatto, si assiste al riemergere di panregioni, che si sviluppano nel senso dei meridiani, analogamente a quanto sostenuto dalle tesi della scuola di Haushofer. La costituzione del NAFTA e la ripresa del concetto di Eurafrica nel programma del cosiddetto partenariato euromediterraneo, affermato nella Conferenza di Barcellona del 1995, ne sono dimostrazioni. Tali tesi riecheggiano anche nelle teorie eurasiste (v. Thom, 1994), che propongono un programma di cooperazione della Russia con Iran e India da un lato, e con Germania e Cina dall’altro, nell’ambito di una contrapposizione ‛binaria’ fra Eurasia e potenze oceaniche anglosassoni. Prosegue anche l’integrazione nel senso dei paralleli, come avviene nell’Unione Europea, nell’ASEAN (Association of South-East Asia Nations), nell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e, in un certo senso, con i più stretti rapporti fra Unione Europea e MERCOSUR (Mercado Común del Sur; v. Sacco, 1994).

Sembra prodursi un sistema pentapolare, simile a quello previsto da Henry Kissinger, in cui il mondo sarebbe basato su Stati Uniti, Europa, Russia, Cina e Giappone, a cui si potrebbero aggiungere l’India e forse, in futuro, i paesi del MERCOSUR. Il concetto di panregione serve comunque spesso a giustificare in termini geopolitici, come peraltro già avveniva in passato, le ambizioni egemoniche degli ‛Stati catalizzatori’.

Non è ancora chiaro se il panregionalismo tenda a essere ‛aperto’, cioè collaborativo a livello globale, oppure ‛chiuso’ e potenzialmente conflittuale. Un ‛polo’ che sembra corrispondere alle caratteristiche di quest’ultimo tipo è la Cina, che costituisce l’unico soggetto geopolitico potenzialmente in grado di sfidare la supremazia degli Stati Uniti, almeno in Asia orientale e sud-orientale. La Russia e il Giappone stanno attraversando un periodo di regressione, forse transitoria, mentre la potenza dell’India sembra svilupparsi con molta rapidità, nonostante le incertezze che esistono circa la sua stabilità interna.

 

 

c) Le teorie binarie.

Le principali teorie binarie sono quella dello ‛scontro fra civiltà’ (v. Huntington, 1993), quella eurasista (v. Thom, 1994) e quella geoeconomica ( v. Luttwak, 1990).

La prima – che per certi versi è anche multipolare, poiché considera otto civiltà differenti – sostiene che l’identità religiosa condiziona le civiltà, le quali, a loro volta, influenzano le tendenze alla cooperazione o al conflitto fra i popoli. La comunanza di civiltà è quindi un fattore molto influente nelle relazioni internazionali, anche perché viene strumentalizzata dalle classi politiche per legittimare sia il loro potere, sia le loro alleanze internazionali. Huntington prevede che il prossimo conflitto mondiale mobiliterà contro l’Occidente un’alleanza – peraltro improbabile, a nostro avviso – confuciano-islamica, che minaccerà prima la Russia, poi l’Europa e infine gli Stati Uniti; questi ultimi tre dovrebbero pertanto allearsi. Su scala regionale, tale tesi è ripresa da coloro che sostengono in Europa l’esistenza di una minaccia islamica e che non considerano il Mediterraneo il centro di una regione geopolitica unitaria, ma ne auspicano la trasformazione in una barriera fra Nord e Sud.

La scuola eurasista, sviluppatasi grandemente in Russia, riprende le tesi della contrapposizione fra terra e mare proprie della geopolitica classica. Essa sostiene l’esigenza per la Russia di un’alleanza con la Germania a ovest, con la Cina a sud-est e con l’Iran e l’India a sud, per opporsi alla supremazia talassocratica degli Stati Uniti. I principali avversari di tale progetto sarebbero gli Stati europei occidentali e gli Stati islamici alleati degli Stati Uniti, primo fra tutti la Turchia, che costituiscono strumenti della penetrazione statunitense nell’Eurasia.

Quanto alle teorie geoeconomiche di Luttwak, esse possono in un certo senso essere assimilate alle teorie binarie, pur risentendo grandemente anche delle teorie dell’anarchia internazionale; in tale impostazione è centrale la distinzione tra un mondo industrializzato, dominato dalla geoeconomia e dall’assenza di conflitti militari, e un mondo ancora geopolitico, teatro di conflitti territoriali.

 

 

d) Le teorie anarchiche.

Viene indicata col nome di teorie anarchiche una ricca gamma di posizioni, da quelle della rinazionalizzazione e frammentazione del sistema internazionale a quelle del disordine mondiale – dovuto all’implosione degli Stati sotto la pressione degli etnonazionalismi – a quella sostenuta da Immanuel Wallerstein (v. Wallerstein, 1991) della fine del capitalismo, a quelle della cosiddetta geopolitica critica e della geopolitica ‛morbida’. Quest’ultima, che attribuisce grande importanza alle culture, all’economia, alle religioni e alle istituzioni sociali e politiche, si contrappone alla geopolitica ‛dura’, basata su fattori geografici fisici e sulla tecnologia militare.

Alle teorie del disordine si è già accennato precedentemente, parlando della crisi delle teorie globaliste.

Wallerstein sostiene che la fine dell’escatologia marxista comporterà anche la fine di quella liberista, giacché entrambe sono portatrici di una concezione del progresso di derivazione illuministica, imperniata sull’idea di un processo lineare dell’umanità verso un ordine sempre maggiore; ciò lascerà spazio a una fase storica imprevedibile, complessa e incerta, in cui si modificheranno profondamente le strutture del mondo. Tesi analoghe sono state sostenute da altri studiosi, come Alain Minc, che prevede un nuovo Medioevo senza impero e senza papato.

La geopolitica critica (v. Ó Tuathail, 1996) sostiene che, per comprendere le dinamiche del mondo ‛postmoderno’, occorre una nuova geopolitica. Lo spazio va concepito come prodotto sociale, quindi eterogeneo; vanno inoltre valorizzate le differenze e l’indeterminatezza e rifiutata ogni egemonia e ogni gerarchia. La geopolitica può essere solo globale, dato che la separazione fra gli Stati non ha più senso; a differenza delle teorie globaliste, la geopolitica critica auspica l’avvento di un ordine non gerarchico ma orizzontale, di natura funzionale.

 

 

e) La geopolitica italiana del dopo guerra fredda.

Se, nel periodo della guerra fredda, il riferimento principale della politica italiana era costituito dagli Stati Uniti, nel ‛terzo dopoguerra’ esso si è spostato sull’Europa, che l’unificazione tedesca ha trasformato da un sistema di equilibri in uno almeno parzialmente gerarchico. L’importanza del rapporto con gli Stati Uniti per l’Italia rimane però determinante, anche perché la presenza americana garantisce uno stretto legame fra il Mediterraneo e l’Europa centrale e mantiene un maggior equilibrio interno europeo, il che costituisce la premessa per la continuazione di quel processo d’integrazione europea che rappresenta, per il nostro paese, un interesse vitale.

Mutata è anche la dimensione del Mediterraneo. In passato esso era diviso in senso est-ovest dal confronto bipolare, ma era unificato dalla presenza della Sesta Flotta; oggi, invece, esiste una separazione nel senso dei paralleli, fra nord e sud. Inoltre, mentre nel periodo della guerra fredda la politica interna italiana era caratterizzata da una divisione ideologica verticale fra governo e opposizione, ora predominano le tensioni che contrappongono le zone settentrionali (e soprattutto quelle nordorientali) del paese a quelle centrali e meridionali. Infine, la caduta delle rigide strutture della guerra fredda ha fatto riscoprire talune dimensioni geopolitiche proprie degli Stati preunitari italiani, soprattutto, ma non solo, sotto il profilo economico (v. Incisa di Camerana, 1993; v. Santoro, 1993).

È ripresa in Italia la riflessione geopolitica, volta a superare la visione eccessivamente ideologizzata di molte delle forze politiche e culturali italiane; essa pone al centro del dibattito la definizione degli interessi nazionali italiani. Il successo di Limes – Rivista italiana di geopolitica” dimostra come nella cultura nazionale esistessero sia un vuoto al riguardo, sia la percezione dell’esigenza che tale vuoto andasse colmato.

 

 

 

 

6. I fattori geopolitici e i metodi impiegati dalla geopolitica.

 

a) Fattori permanenti.

I principali fattori geopolitici permanenti, o sufficientemente stabili per essere considerati tali, sono: lo spazio, la posizione, la natura continentale o insulare, la morfologia, la dimensione, il clima, le risorse naturali e la cultura di un popolo, quest’ultima intesa come quel complesso di valori e di principî che gli derivano dalla sua storia, religione, ecc., e che determinano la sua percezione, o ‛senso dello spazio’, il quale a sua volta si materializza in una particolare rappresentazione.

I fattori fisici dominarono la geopolitica fino al secondo conflitto mondiale, anche se quelli umani assunsero crescente importanza con lo sviluppo sia di una visione darwinista (e quindi dinamica) dei rapporti sociali, sia di una concezione ispirata all’antropologia e alla geografia politica. Si postulava, infatti, tanto la costanza di taluni meccanismi di fondo dei rapporti internazionali, quanto l’impatto diretto dei condizionamenti e delle opportunità geografiche sulla dinamica delle potenze. Il pensiero geopolitico serviva quindi all’elaborazione di una serie di principî e regole aventi validità generale e tendenzialmente normativa, soprattutto quando da tali principî furono sviluppate teorie coerenti, con l’ambizione di trasformare la geopolitica in scienza o di dimostrare la necessità e l’oggettività delle proposte via via formulate (v. Strassoldo, 1985, p. 205).

Lo sviluppo della tecnologia ha diminuito l’importanza delle dimensioni naturali e soprattutto di quelle spaziali, anche se il territorio rimane determinante, come risulta evidente dall’importanza delle autorappresentazioni geopolitiche dei gruppi in lotta nei conflitti etnici e identitari. Si è modificato anche il valore della distanza: più che di distanza geografica, bisogna parlare di dimensioni spazio-temporali o di costo e tempo dei trasporti (l’impatto di questi ultimi è peraltro diminuito, per il fatto che una parte crescente del commercio mondiale si riferisce ai servizi e quindi a beni immateriali, veicolabili sulle ‛autostrade dell’informazione’). La ‛geografia volontaria’ (tunnel, canali, ponti, ecc.) e l’avvento dei trasporti aerei e delle telecomunicazioni via satellite hanno modificato profondamente la geografia naturale. Con l’avvento dei mezzi aerospaziali, la contrapposizione fra terra e mare non è più netta come in passato.

L’importanza delle risorse naturali si è modificata, sia per la moltiplicazione delle loro fonti, sia per la loro ampia sostituzione con materiali artificiali, quali la plastica al posto dell’acciaio, l’energia nucleare al posto del petrolio, ecc.

In passato, il valore geopolitico del territorio era collegato soprattutto con il gettito fiscale (prevalentemente agricolo) e con la leva militare: per questo le dimensioni erano considerate tanto importanti, da originare teorie come quelle dello ‛spazio vitale’. Oggi le dimensioni possono rivelarsi, invece, un handicap per l’economia: lo Stato-nazione è al tempo stesso troppo piccolo e troppo ampio. Si è passati da una situazione in cui i mercati erano in numero maggiore degli Stati a una in cui esiste, almeno per molti settori, un unico mercato mondiale.

In passato dominavano le dimensioni territoriali e orizzontali della geopolitica, oggi invece sono preminenti i flussi, rispetto agli spazi. La potenza e la ricchezza di uno Stato dipendono sempre più dall’essere inserito efficacemente nei flussi globali; la geopolitica si è così trasformata da prevalentemente statica in dinamica, anche se il principale soggetto geopolitico – lo Stato – è rimasto territoriale e deve quindi conciliare la sua territorialità con un efficace inserimento nella rete dei flussi finanziari, informativi, dei servizi avanzati, tecnologici, ecc. A tale proposito va rilevato che, mentre nel passato la coesione dello Stato veniva mantenuta soprattutto opponendosi alla rivolta dei poveri e proteggendo le industrie con barriere tariffarie, la situazione ora è notevolmente cambiata: non sono più i poveri a rivoltarsi contro lo Stato, ma i ceti e le regioni più ricche, che tendono a internazionalizzarsi sempre più, trasferendo capacità produttive, conoscenze tecnologiche, capitali e attività negli Stati o insiemi subnazionali che offrono loro migliori condizioni dal punto di vista fiscale, di costo e qualità di manodopera, di servizi e di infrastrutture. Non è più lo Stato a tassare le imprese, bensì queste ultime a scegliere lo Stato da cui farsi tassare. Il significato territoriale della base economica nazionale, fondamentale nella geopolitica del passato, che cercava, appunto con lo ‛spazio vitale’, di realizzare l’‛autarchia’, si è grandemente modificato.

Al modello ‛impero territoriale’ si è sostituito quello ‛economia mondo’, più vantaggioso perché non comporta i costi burocratici del mantenimento dell’ordine dell’impero, pur consentendo di trarne gli stessi vantaggi con i mezzi della geoeconomia e dell’informazione. La sconfitta dell’Unione Sovietica nella guerra fredda è sicuramente dovuta anche alla maggiore efficienza dei sistemi ‛economia mondo’ dell’Occidente rispetto al modello dell’‛impero territoriale’ che caratterizzava il blocco sovietico.

L’importanza e il significato diretto dei fattori geografici e fisici sulla geopolitica non sono peraltro scomparsi. La posizione, gli stretti marittimi, la disponibilità d’acqua e di prodotti petroliferi, ecc., sono rimasti fattori essenziali anche nella geopolitica contemporanea.

 

 

b) Fattori variabili.

I fattori geopolitici variabili sono la popolazione, l’economia, la finanza, le istituzioni politiche interne e internazionali e la tecnologia, sia militare che dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’informazione.

Per quanto riguarda la demografia, il fattore di maggior rilievo è l’accelerazione della crescita demografica e soprattutto il diverso tasso che essa fa registrare nei paesi in via di sviluppo e in quelli industrializzati. Altri fattori importanti sono rappresentati dall’urbanizzazione, spesso selvaggia, del Terzo Mondo, dalla tendenza delle sue popolazioni ad ammassarsi lungo le coste, dove esistono migliori condizioni di integrazione nell’economia mondiale, e infine dall’invecchiamento della popolazione dei paesi industrializzati, che influisce sui costi sociali e quindi sulla competitività globale degli Stati occidentali.

Particolarmente critica è la situazione dell’area del Mediterraneo: le differenze fra i livelli di crescita economica, anche nell’ambito dei medesimi Stati, stanno acquistando notevole importanza geopolitica, per le tendenze alla frammentazione che esse comportano. Lo dimostrano le situazioni italiana e britannica; lo dimostra anche, in un contesto diverso, il caso della Cina, dove, per la prima volta nella storia di quel paese, le regioni marittime stanno divenendo più importanti di quelle centrali, rimaste però sedi del potere politico e militare.

Se l’economia, l’informazione, ecc., si globalizzano, sorgono come reazione da un lato movimenti etnici e localistici, se non tribali, mentre, dall’altro, crescono le tendenze alla macroregionalizzazione sovranazionale. La crisi dello Stato – o meglio, l’esigenza dell’adeguamento dell’organizzazione economica e strategica alle nuove condizioni – sta determinando una dinamica geopolitica particolarmente accentuata, in cui esiste una presenza competitiva, se non conflittuale, delle forze tese all’integrazione e di quelle che portano alla frammentazione e alla disintegrazione. Determinanti in geopolitica sono divenute le grandi reti globali, i flussi che vi circolano e la capacità degli Stati di accedervi; la geopolitica risente della rivoluzione dell’informazione, che influisce in modo molto rilevante sulla potenza militare e sulla ricchezza, e che obbliga a ripensare le funzioni e le stesse strutture organizzative degli Stati-nazione.

 

 

c) Approcci, metodi e tecniche.

I mutamenti attuali impongono una revisione dei fondamenti epistemologici e metodologici della geopolitica classica, che, come si è più volte detto, era essenzialmente territoriale. Agli spazi prevalentemente fisici se ne sono sovrapposti altri di maggiore rilevanza: economici, demografici, strategici, istituzionali, psicologici, culturali, ecc.

Gli attori sono divenuti qualitativamente differenti: non si tratta più solo degli Stati, ma anche delle istituzioni sovranazionali, delle organizzazioni substatali e delle forze transnazionali. Ciò nonostante, molti tendono a ricollocare al centro dell’interesse della geopolitica gli Stati, considerati gli elementi fondamentali del sistema internazionale, i luoghi in cui gli uomini sono collegati a un territorio e a un ordinamento giuridico, gli aggregati sociali capaci di definire anche impositivamente valori, interessi e politiche e in cui sia possibile realizzare un equilibrio fra solidarietà e libertà, e, infine, le entità il cui valore di riferimento simbolico non va trascurato.

Insomma, la ‛nuova’ geopolitica rimane soprattutto statocentrica, anche se è molto più multidirezionale e multidisciplinare che in passato. Ogni fattore e ogni attore ha un suo spazio specifico, che si incrocia con quello degli altri sul medesimo territorio: non si tratta di spazi reali né tantomeno naturali, ma di spazi risultanti da una concettualizzazione, basati sia sugli interessi, sia sulle capacità necessarie per conseguirli e che sono sempre più immateriali. La geografia che interessa non è tanto quella fisica, quanto quella umana. Mentre la geopolitica classica considerava soprattutto le dimensioni spaziali – diversamente dalla filosofia, che dava preminenza a quelle temporali – la nuova geopolitica attribuisce importanza a entrambe le dimensioni e ai fattori immateriali. Per pensare lo spazio, al fine di poter agire efficacemente, possono essere seguiti vari approcci (v. Cohen, 1963; v. Hartshorne, 1950 e 1960): storico, morfologico o geografico in senso proprio, funzionalista, dell’analisi di potenza, comportamentale e sistemico. L’approccio storico prende in considerazione soprattutto le ‛rappresentazioni geopolitiche’, cioè il ‛senso dello spazio’ dei vari attori; quello morfologico-geografico analizza i fattori geopolitici permanenti e variabili con le metodologie proprie delle scienze geografiche, mettendo in correlazione i vari fattori, valutandoli e ponderandoli secondo la logica dei loro meccanismi interni, beninteso in relazione agli interessi che ne hanno motivato la rilevazione e che influiscono anche sulle valutazioni; l’approccio funzionale si incentra sulla valutazione del funzionamento e del significato di una particolare regione, considerata come un’entità politica, economica, strategica, ecc.; quello dell’analisi di potenza tende a dare rilievo alle interrelazioni esistenti in una determinata area fra i vari soggetti che vi agiscono e si basa sull’individuazione di convergenze e conflittualità e sulla correlazione delle forze presenti nell’area; l’approccio comportamentale è fondato sull’individuazione delle presumibili intenzioni dei vari attori, su cui influiscono le strutture e i meccanismi decisionali, politici e burocratici; l’approccio sistemico, infine, è una combinazione dei precedenti, soprattutto di quello dell’analisi di potenza e di quello comportamentale, e attribuisce eguale importanza alle possibilità e alle intenzioni.

Qualsiasi metodologia di valutazione geopolitica comporta tre aspetti: 1) la definizione degli spazi, e quindi degli attori interni ed esterni, da considerare; 2) i fattori da valutare; 3) le interconnessioni fra attori e fattori. A monte di ogni analisi deve beninteso esistere una meta-geopolitica, cioè un insieme di valori che influiscono sulle preferenze soggettive circa gli interessi generali da perseguire e che costituiscono elemento di riferimento indispensabile sia per le delimitazioni che per le successive valutazioni.

La delimitazione dello spazio, o degli spazi, dipende dalla natura degli interessi che si intende perseguire e dal livello di potenza disponibile, che peraltro può variare nel tempo; con essa vengono anche definiti gli attori da prendere in considerazione. Esistono zone di interesse, d’influenza e d’azione, che sono di solito rappresentate con cerchi concentrici, ma che nella realtà si distribuiscono a ‛chiazze di leopardo’ – in modo diverso, ad esempio, per gli interessi economici e per quelli relativi alla sicurezza. Lo stesso avviene per la potenza disponibile, che subisce un fenomeno di attenuazione differenziata con l’aumentare della distanza, in modo comunque dipendente dalla tecnologia disponibile.

I fattori da considerare non vanno valutati in modo assoluto bensì relativo, tenendo conto delle interrelazioni fra di loro e fra i vari attori geopolitici che agiscono nello spazio prima delimitato. Si tratterà sempre di effettuare analisi e valutazioni in campi disciplinari differenti, ciascuno con propri spazi e orizzonti. Solo l’esistenza di un progetto, anche se di larga massima, permette valutazioni coerenti: occorre ragionare prima di misurare. La sintesi progettuale precede l’analisi e questa retroagisce sulla prima, affinandola e perfezionandola.

La valutazione delle interazioni fra i vari attori e fattori mira infine a precisare gli interessi e a definire le politiche e le strategie per conseguirli. La tecnica impiegata è sostanzialmente quella dell’‛impatto incrociato’, molto più flessibile e meglio in grado di tener conto degli aspetti qualitativi, e non solo quantitativi, rispetto a tecniche più rigide, quali quelle ispirate alla ‛teoria dei giochi’. Quest’ultimo ‛passo’ metodologico è quello più creativo ed è quindi caratterizzato da un elevato tasso di soggettività, soprattutto allorquando si tratta di definire interessi e obiettivi. Nell’azione concreta, volta a raggiungere tali obiettivi, i condizionamenti e le opportunità dell’ambiente hanno invece un influsso più diretto.

La nuova geopolitica tiene quindi conto degli spazi e dei flussi e si traduce nella capacità di ‛pensare lo spazio’. La fine del mondo bipolare, rimettendo in gioco gli assetti precedenti di potere, la divisione internazionale del lavoro e la gerarchia delle potenze, ha dato il via a una nuova competizione per il dominio dello spazio e per la sua organizzazione, di cui si deve tenere conto per essere attori e non solo spettatori della storia e dei destini propri e del mondo.

 

 

 

Si ringrazia l’Autore e l’Istituto della Enciclopedia Italia per aver autorizzato la pubblicazione della voce, apparsa in Enciclopedia del Novecento  vol. X Suppl. II A-G.

 

* Carlo Jean – Nato a Mondovì (Cuneo) il 12 ottobre 1936. È docente di Studi Strategici alla “LUISS – Guido Carli” e Presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica. È autore o curatore di numerosi articoli, libri e saggi tra i quali, in particolare: “Guerre Stellari: società ed economia nel cyberspazio”  in collaborazione con Giulio TREMONTI, Franco Angeli, 2000; “An Integrated Civil Police Force for the European Union”, CEPS, Brussels, 2002; e con Tito FAVARETTO “Reti infrastrutturali nei Balcani”, CSGE – Franco Angeli, 2002; Guerra, strategia e sicurezza, Laterza, 2002; “Manuale di geopolitica”, Laterza, 2003; “Manuale di Studi Strategici”, Franco Angeli, 2004; “La geopolitica del XXI secolo” Laterza, 2004; “Geopolitica dei Balcani Orientali e Centralità delle Reti Infrastrutturali”, CSGE – F. Angeli, 2004; “Sicurezza: Le nuove frontiere”, CSGE – Franco Angeli, Milano, 2005; “Interessi Nazionali: metodologie di valutazione”, Franco Angeli, 2005. Membro del Consiglio esecutivo e direttore scientifico della Rivista Liberal Risk. È insignito della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce O.M.R.I e della Medaglia d’oro di Gandhi dell’UNESCO per le sue attività in Medio Oriente e nei Balcani.

 

 

 

 


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IN YAHWEH WE TRUST: A DIVINE FOREIGN POLICY OF THE USA

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It was largely the Biblical message that stood at the origin of the American endeavor to “make the world safe for democracy.” Contrary to many European observers critical of America, America’s military interventions have never had as their sole objective the goals of economic imperialism but rather the desire to spread American democracy around the world. This objective became obvious, when America, following the end of the Second World War, became a major global power. After the Cold War America also became the arbiter of world affairs and the interpreter of the international law. Whoever militarily challenged America ran the risk of being placed outside the category of humanity or labeled as a terrorist. Once declared outside humanity or declared terrorist, a person, a nation, or a regime could be disposed of at will. When the Soviet Union and communism were gone, other negative archetypes had to be invented in order better to profile America’s unique democratic zeal. By the beginning of the third millennium, the negative fixation on the Other found its substitute in Islam and the official mantra of “fighting radical Islamic terrorists” all over the world. It is striking how America, ever since its foundation, has resorted to negative profiling of other political actors, seldom looking at the specific root causes of the problem that stood behind the actors’ hostile un-American behavior.

Although postmodern America has assigned itself the role of being at the forefront in combating ethnic prejudices and racism, its own racial heterogeneity is having an impact on its foreign policy. As a multiracial society with over 25% of its citizens being of non-European origin, America’s role in world affairs can no longer be the same. The September 11, 2001 terrorist bombing of the Twin Towers in New York came as a small respite in forbidden ethnic stereotyping. From then on, a joke or a deprecatory remark against Arabs or against the religion of Islam could get a safe passage in the American media. Many American conservatives and radical right-wingers, including white supremacists, fell into the trap of such negative stereotyping of Muslims, and their hatred of Islamic fundamentalism turned into an excuse for xenophobic sentiments across the board against all non-white immigrants. General resentments against Islam became a common denominator for many white Americans as they could finally vent their frustrations against social experiments with their home grown ideology of multiculturalism.

But why not point out that the Bible-inspired American ideology can be as intolerant as Islamism, and why not recall that many Muslims living in Europe are of white European origin? Furthermore, the outbursts of anti-Islamic feelings in America became a handy instrument of different pressure groups including Jewish-American lobbies who had traditionally been wary of the real or alleged rise of radical Islam in the Middle East. Therefore, in examining American foreign policy, particularly towards Muslim countries in the Middle East and Central Asia, one must ask the standard question: cui bono? Who benefits from it?

 The American vocabulary of similar negative stereotyping had its origin in the preceding vilification of Germany and Japan, two countries, which during the Second World War, found themselves in deadly military conflict with America and Americanism. The consequences of that military and ideological clash are visible to this day and they continue to shape the political agenda of the elites both in America and Europe. It was to be expected that after the disappearance of Fascism and National Socialism in 1945, other negative stereotypes had to be invented in order to legitimize the new American world order. One must raise the question whether Americanism can persist at all without constantly looking over its shoulder for a negative political counter-model?  To a large extent the real or alleged Islamic threat that became part of world politics in the early 21st century is the logical result of America’s neurotic quest to cleanse its own household of evil.

Europe and its heartland Germany experienced after 1945 the full para-Biblical impact of American foreign policy although the interests of the American political elites in Europe were then more complex than just removing the “Nazi Evil.” After all, Germany had been on the track of becoming a major Euro-Asian superpower ready to block America from the entry to energy sources in the rimland countries of the Middle East and the Pacific Basin. Carl Schmitt, the well known German jurist and a theoretician of international law, who also experienced for some time the wrath of American world improvers, writes that America’s hubris was only strengthened after the Second World War as America had become the world’s premier economic and military superpower. After 1945 America came to be viewed by many re-educated European leaders as the economic embodiment of the spirit of Enlightenment and as a pristine country of the state of nature that was best reflected in the dominant ideas of peace and progress. Even if America, during the Cold War, was often looked down upon by many European leaders for its often harmful foreign policy decisions, its astounding economic growth coupled with amazing technological discoveries earned her the reputation of a miracle do-good country. Psychologically, not a single European leader and not a would be hegemon could dismiss the fact that America represented something all political actors in Europe and elsewhere had always dreamed about. America was destined to push aside Europe and begin to function as its embellished substitute. It already had the ideological asset of having established he own city on the hill in the self-appointed desire to make the entire world safe for democracy. “The new West, America, will remove the old West, i.e., Europe from its own historical location, that is, from the old center of the world.”(1)

America can often be on friendly terms with smaller countries of different un-American and even anti-American ideological persuasions, but she can never allow a large un-American adversary to compete with it for world supremacy. Hypothetically speaking, even if there was a replica of America of the same geographic size and same military capability and sharing same democratic values, very likely the present day America would sooner or later find itself on a collision course with its own “other-sameness.”  In the last analysis, the question should not be raised as to how harmful American foreign policy is, but whether or not there is any alternative to American hegemony at all. And if there were other non-American alternatives, who can argue they could not be worse?  Over the last two thousand years European politicians and thinkers have been sagely discussing the idea of a common European homeland and a common European foreign policy. The results of such well thought out ideas became clear by the beginning of the third millennium, notably when the European elites had failed again to rearrange their endless tribal disputes among their own member states in the newly launched so-called European Union. How can then the European elites project their “Europeanness” in other parts of the world if they are not capable of finding a consensus on their small peninsula, which is one third the size of America?.

 

The Insular Mind vs. the Continental Mind

America is a superpower and often against her own will. It is a military might because at least for now there are no contestants in the world arena.  As an American author, a former diplomat and opinion maker, Zbigniew Brzezinski, notes, America was able to combine during the course of the twentieth century, four major factors in order to preserve its superpower status:  it had a first rate military might; it was a world locomotive of economic growth; it made path breaking innovations in the computer industry. Finally, America’s popular culture and its diverse leisure–oriented paraphernalia made the American life style widely accepted by the whole panoply of word actors – even by those who profess “anti-Americanism.“(2)  Indeed, this fourth point is  the most important as it gives America cultural legitimacy which she can at any time translate into a military quest for power. Technically speaking, it is probable that the jurisdiction of America and its citizens can be projected into some other corner of the world, as this happened, after World War II with the Americanization of Europe. It cannot be ruled out that even if America, with its present geopolitical location and its capital in Washington DC, disappeared from the map, Americanism and its citizens could relocate to some Euro-Asian or African region of the same size. America may have its own sense of order, which may be accepted or rejected by other world actors. She does, however, have its own list of priorities which may often be repulsive to foreigners but which have, over the last one hundred years, sustained some sort of world order. Different theories, concocted by European anti-American theoreticians, notably about some Berlin-Paris-Moscow axis or some Euro-Asian empire in the offing, look childish and  reflect the typical wishful thinking of right wing Europeans on their own self-imposed political margins. These theories are not based on solid empirical facts.

The Euro-Asian continent and especially the European powers have traditionally been torn apart by different political narratives, and nothing indicates that Europe, or for that mater China, are capable of forming a common entity to counter America’s present or future ambitions. In fact America does not even need to have outstanding geopolitical ambitions; they often become available to her as the result of constant Euro-Asian infighting. For instance, the much-vaunted European Union, ever since its foundation in 1957 and its refurbishment in 1992, has been mired in bureaucratic horse-trading. The much-acclaimed European cultural diversity hinders, paradoxically, Europeans from having a common foreign policy. By contrast, the big advantage of America is its monolithic character, its linguistic unity, and nation-less ideology of one world government. Therefore, America has been so far in a better position than any system in fostering world hegemony.

Undoubtedly, at the beginning of the third millennium, America began to show ambitions in Central Asia. Her interests will inevitably clash with the future interests of China, Russia, and Europe. This area represents a gigantic space, replete with energy sources which could possibly feed world energy demands for centuries to come, regardless of the Middle East imbroglio which has marred America’s foreign policy energy and crippled most of its foreign aid over the last several decades. But given the long standing ethnic, racial, and cultural bickering of a myriad of actors in this large area, it is highly unlikely that some Euro-Asian empire hostile to America or Israel will emerge any time soon. Viewed from another angle, is it not better to have some sort of stability and security – however superreal and hypermoral that stability may sound -  than to live in an ethnically independent and balkanized world governed by semi-anarchical regimes?  The political disruption in the Balkan Peninsula following the end of the Cold War, the incapacity of Europe to halt the carnage in ex-Yugoslavia, that is, in its own backyard, the call for the American intervention to stop the Yugoslav killing fields, confronts us with the old dilemma: Is it not, after all, preferable to have some American-staged security to some vague notions of liberty replete with fear and violence?

These geopolitical remarks cannot be an excuse for the American political theology that most foreign leaders comprehend with great difficulty. Since its inception America has been a victim of her equivocal attitude towards other political actors, a practice that has reflected itself in its foreign policy decisions to this day. On the one hand American decision makers adhere to political autism, called isolationism; on the other, they often break into spasms of global military enterprises, frequently conducted by violent methods against the “Other,” i.e. the “Non-believer,”  “the Axis of Evil,” the “Empire of Evil,” the Communists, the Fascists, the Muslim Fundamentalists – that is, against all those who oppose the American religious crusade against the “Evil.”

Similar to Bolshevik Russia, America had introduced into the rules of military engagement a discriminatory factor against her opponents who are no longer regarded as “just adversaries” (justus hostis, but instead as absolute foes. Naturally, the absolute foe needs to be destroyed absolutely. This discriminatory factor first appeared during the American Civil War. Later on, the American engagements in Europe followed the similar line of Biblical exclusion and discrimination, as American wars became total wars aiming at totally eradicating “evil” and regenerating humanity.(3) The firebombing of European cities during the Second World War, the destruction of Germany, as well as the bombing of other European countries (4) by the Anglo-American forces, must have served,  if not as a  role model, then at least as a moral excuse for similar destructions carried out by America’s communist allies in Eastern Europe.

Towards the end of the Cold War, some American and European scholars opened up the Pandora box by openly addressing the issue of American war crimes and “other losses” committed by the American forces in Europe (5). This issue in postmodern America and Europe deserves a special chapter. With the opening of numerous German files and archives, many modern American-made myths are now subject to a more severe academic scrutiny. Here again we seem to be confronted with the same semantic dilemma encountered earlier; notably, who defines what is the historical truth and what is the historical lie? What is an act of humanity and what is a crime against humanity? The advantage of America, particularly in the latter half of the twentieth century, was her ability to justify the destruction of hostile forces by using the euphemism of “collateral damage” and wrapping up its military engagements in the endless rhetoric of human rights and democracy.

Other than the omnipotent Bible, which has traditionally served as moral cover by providing good conscience for the American political elites, the true advantage of America is its unique geopolitical position. No country on earth has been blessed by such a splendid insular position as America. Nor could America have prospered without constituting a common geopolitical whole stretching from Alaska to Arkansas, from New York to San Francisco without political or cultural barriers or alien systems hostile to its interests. America, unlike any empire so far, has a coast-line stretching for over 10,000 miles on the East and the West coast. As a result, America has been in a position directly to immerse itself in the affairs of Pacific rim countries or in the affairs of Europe, yet it always is able to retreat into its own isolationism. Insularity permits America, even when she commits a cardinal error in her foreign policy, to return to its own home affairs. In addition, unlike other empires in history, America does not have to deal with militarily and industrially sophisticated neighbors in its immediate vicinity. America’s ability to project its might to different antipodes remains, therefore, unimpeded. Geography is America’s destiny, despite the fact that the academic field of geopolitics has never stirred much interest in America(6). Geography is the advantage of each insular country, as was once the case with Great Britain, in contrast to land-locked countries on the Euro-Asian continent. Smaller continental countries in central Europe are always surrounded by unpredictable neighbors, as has been the case with Germany since the break-up of the Charlemagne’s empire.

The Monroe doctrine became the major centerpiece in the formulation of American geostrategic calculations.  Named after its architect, President Monroe, in 1823, this doctrine had at the beginning a limited geographic scope, which extended only to Central and Latin America. After Word War I, however, with Woodrow Wilson as President, the Monroe Doctrine was to encompass the entire globe. On January 22, 1917, Wilson officially declared the Monroe Doctrine as the guiding principle of American foreign policy. Thus America could reserve for itself the right to project its military might to any corner of the globe, while using the same principles to prevent foreign encroachment in its own backyard.(7) During its inception the Monroe Doctrine was purely a defensive mechanism of American foreign policy, primarily designed as a tool to hedge against European colonial powers.  At the beginning of the nineteenth century, America, other than enjoying her insular position, was still far from becoming a major naval power able to police the oceans.  Following the Napoleonic Wars and the establishment of the European Holy Alliance, colonial and maritime Spain was still the major power in the Caribbean, that is, in the very vicinity of the newborn America. Since then, with the gradual decline of European empires, America began to emerge as the only sea power, a development that in turn enabled her to conduct a single-handed policy of unilateralism.

This new thalassocratic policy has always been more of a reactive, and less of a proactive, nature. American leaders have always understood that any geopolitical void, wherever it may appear, is eventually detrimental to America’s long term interests. Any geopolitical vacuum leads to chaos and anarchy. Be it in the Caribbean, in the early twentieth century or in the Balkans at the end of the twentieth century, or in Central Asia, at the beginning of the 21st century, distant America cannot tolerate for an extended period of time the existence of a political vacuum. For reasons of its own geopolitical security, America will, therefore, even side up with anti-American systems, as long as these systems provide some stability and do not geopolitically pose a threat to America. Despite its lachrymal Bible inspired rhetoric, despite its obsession with political preaching, American political elites have demonstrated over the last two hundred years a remarkable sense of geographic realism. It is wrong, therefore, to accuse her elites of naiveté, bias, or ignorance in world affairs, as many Europeans do.  America’s understanding of the complexity of the globe appears all the more puzzling as America is spatially and historically a “suspended” country whose perception of the enemy differs from the enemy’s own self-perception or the enemy’s perception of America. The Biblical fanaticism is only one distinct phenomenon in the American ideology; sound analysis of geopolitical issues, a field in which America has been quite successful, is quite another phenomenon.  By failing to distinguish between these two different issues, many European critical observers frequently draw the wrong conclusions about America’s long term goals.

The Monroe Doctrine, as Schmitt notes, was basically a unilateral decision.  “It is not a treaty signed with other European countries.”(8)  It is very general in its wording and can be interpreted at will by its architects, providing America with an astounding weapon to counter hostile propaganda. The Monroe Doctrine, over the last two hundred years, has served its purpose; it subjected the Western hemisphere to American influence and military control. America has achieved something that other powers have never been able to dream about. The American Monroe doctrine is “extremely vague and its equivocal principles cannot be disputed by anybody. Other nations can never extract anything from America by means of this doctrine, whereas America can always demand from any political actor, whatever it desires.”(9) Despite the fact that America recognizes the sovereignty of the countries in its close and distant vicinity, it is actually the American elites who define the concept of sovereignty and the concept of the political.

Later, after the First World War, the practice of unilateralism continued unabated as America became the architect of the Geneva-based League of Nations – from which she quickly withdrew several years later when she deemed the legal provisions of the League contrary to her security interests. After the Second World War, America adopted the same attitude towards the United Nations and the Hague Tribunal and various other international bodies – which it had assisted in creating. So long as these international bodies furthered American interests they were propped up and used as a legal cover; when America, by contrast, deemed these actions hostile to her interests or hostile to the interests of her favorite ally, Israel, it ignored them. When other countries are concerned, America, particularly at the beginning of the third millennium, insists on their full cooperation with the UN and the Hague Tribunal and their strict adherence to the letter of the international law. But this rule does not apply to America or Israel when their interests are at stake.

In the late twentieth century America became a master of political semiotics whose signs can be seen up to this date. The crucial moment occurred in 1928 with the so-called Briand-Kellogg pact. By declaring that wars should be put “outside law” America became the sole master of political meta-language, which enabled her, henceforth, to define what was internationally “good” and what was “bad;” who was the aggressor and/or who was the victim of aggression. “This is the great superiority of the astonishing political mastership of America: the systematic recourse to general concepts which are open to any interpretation,” writes Schmitt (..) “The one who has real power also defines words and concepts.” As a result of the introduction of this new meta-language, American future military engagements overseas, particularly in Europe and in the Pacific Basin during World War II, always found ample legal justification. Often those engagements were not viewed by the American elites as full-scale military interventions; they were labeled as “humanitarian police actions.”(10). Later, in the latter half of the twentieth century, American foreign policy assumed even stronger messianic traits, which further boosted her already tireless effort to spread the gospel of democracy. Undoubtedly, foreign policy of any country on earth must have a sound basis in some belief or some dogma, however angelic the dogma may appear to its architects and however criminal it may appear to its victims. Therefore, a good analyst of a country’s foreign policy must carefully study the founding myths of that county and project himself into the mind of his opponent from that country. But how many American modern and postmodern politicians have gone through the trouble of observing – let alone of judging -themselves through the hostile eyes of their opponents whom they often regard as ignorant recipients of America’s divine deeds?  Generally, only a few American authors openly admit the self-serving influence of the Bible in the American political and military affairs. One can find in Europe more authors critical of American hyper-moralism and the role of the Bible in American political conduct. It is a common practice among the American elites, regardless whether they consider themselves “liberals” or “conservatives,” to sermonize other nations against real or alleged religious fanaticism, a behavior that became glaring when America, following the September 11, 2001 attack, warned the world community against the alleged Islamic threat against Western democracies.

If one studies American political behavior, one is struck with the large dose of simplistic rhetoric. Even the modern liberal ideology of “human rights,” so dear to secular American opinion makers, may be seen as just another expression of the primeval Biblical code of good conduct.(11) Words such as  “humanity” and “democracy” have constantly been on the lips of American foreign policy architects and these words  must have left a strong aftertaste on the American public in the twentieth century. But American statesmen have also used words such as “providence or destiny.” From John Adams to Andrew Jackson, from Franklin Roosevelt to George W. Bush, American politicians have traditionally resorted to a species of rhetoric that leaves other foreign actors puzzled and shocked, particularly when they become the military target of America’s biblical millennialists and their  sponsors in the White House who never tire of calling anti-American foes the “enemies of peace.” “These are the same definitions that serve to justify (their) military aggression without justification under international law”… (12)  As some critical, mostly European authors argue, the American involvement in Europe during World War II and the later occupation of Germany, had been motivated by America’s self-appointed do-good sentiments and her belief that the Evil in its fascist form had to be removed whatever might be the costs.  Some modern authors call this postmodern American policy “neo-Jacobin,” although this term may sound equivocal. “These new Jacobins, (or neo-globalists) typically use democracy as an umbrella term for the kind of political regime that they would like to see installed all over the world.” (13)

The concept of American democracy in postmodernity is also all-disarming. To oppose America’s drive to democracy and peace must be seen as a lunatic behavior.  It then becomes clear why America has been such an important lecturer in foreign affairs and why she has been able to foist her hegemony an all states in the world. Irving Kristol, a prominent Jewish-American opinion maker, and a true spokesman of Americanism, writes that America’s world mission “is that of an exceptional nation founded on a universal principle, on what Lincoln called ‘an abstract truth, applicable to all men and all times.’”(14). It is the simplicity of the American political discourse, which often ignores all shades of meaning which has led to untold misunderstandings and conflicts world wide. Towards the end of the 20th century, however, American unilateralism has brought about serious rifts amidst America’s allies and may be seen as the first sign of America’s decline.

 

The War Crime of the Bible

In the first half of the twentieth century American Biblical fundamentalism resulted in military behavior, which the American postmodern elites are not fond of discussing in the public forum. It is common in the American academia and the film industry to criticize National Socialism for its real or alleged terror. But the American way of conducting World War II – under the guise of democracy and world peace – has been as violent,  if not even worse.  Puritanism had given birth to a distinctive type of American fanaticism that does not have parallels anywhere else in the world.  Just as in the 17th century England Cromwell was persuaded that he had been sent by God Almighty to purge England of its enemies, so did his American liberal successors, by the end of the 20th century, think they were elected to impose their own code of military and political conduct – both in domestic and foreign affairs.  M.E. Bradford notes that this type of Puritan self-righteousness could easily be observed from Monroe to Lincoln and Lincoln’s  lieutenants Sherman and Grant. “As an American long exposed to political Puritanism, I cannot help thinking of Cromwell by way of analogy to other men ‘on an errand’; to our version of the species, and especially to the late gnostics who in God’s name forged a Union of ‘fire and iron’ in our great Civil War.” (…) “The Southerners are puzzled at such schizophrenia. They should have studied the life of Cromwell and then emptied the house.“(15) Similar American discrimination against modern ideological opponents was reserved for Germany during World War II. While everybody in the American and European modern political establishment is obliged to know the body count for the victims of Fascism and National Socialism, nobody knows the exact number of Germans killed by the American forces during and after World War II. Worse, as noted earlier, any different perspective in describing the US post-war foreign policy toward Europe and Germany is not considered politically correct. After the ill-fated American military excursion into Iraq in 2003 and the subsequent media coverage of the American crimes committed there, the question in retrospect needs to be raised as to the behavior of the American military in Germany in 1945 and after. The American mistreatment of German POWs and civilians during World War II must have been far worse than that in Iraq after 2003. (16)

Just as communism, following the Second World War, used large scale terror in the implementation of its foreign policy goals in Eastern Europe, so did America use its own type of repression to silence heretics in the occupied part of early post-war Western Europe.  Purges carried out by the American military authorities in the post war Germany remain an uneasy topic for many American historians, who mostly look only at the Allied version of post-war events in Europe.  Many European conservative scholars have been unable to comprehend sudden shifts in American political behavior, because many have wrongly assumed that America is a cultural and spiritual extension of Europe. The American political behavior in the war-ravaged Europe could only be understood and judged within America’s own judgmental parameters. Using classical European value judgments regarding the notion of limited vs. unlimited warfare, yields different results, often rejected by the American elites. The American crusade to extirpate evil was felt by Germans in full force in the aftermath of World War II. Freda Utley, an English American writer depicts graphically in her books the barbaric methods applied by the American military authorities against German civilians and prisoners in war-ravaged Germany. Although Utley enjoyed some popularity among American conservatives, her name and her works fell quickly into oblivion. Utley’s books throw additional light on the other side of the vaunted American humaneness. In hindsight one wonders if there was any substantive difference between warmongering Americanism and Communism?  If one takes into account the behavior of the American military authorities in Germany after World War II, it will become clear why the American elites, half a century later, were unwilling to initiate the process of decommunisation in Eastern Europe and the process of demarxisation in the American and European higher education. After all, were not Roosevelt and Stalin wartime allies? Were not the American and the Soviet soldiers fighting the same “Nazi evil”?  It was the inhumane behavior of the American military interrogators which left deep scars on the German psyche and which explains why the Germans, and by extension all Europeans today, must behave in foreign affairs like scared lackeys of American geopolitical interests.

A thoughtful American professor, whom I met in Heidelberg, expressed the opinion that the United States military authorities on entering Germany and seeing the ghastly destruction wrought by our obliteration bombing were fearful that knowledge of it would cause a revulsion of opinion in America and might prevent the carrying out of Washington’s policy for Germany by awakening sympathy for the defeated and realization of our war crimes. This, he believes, is the reason why a whole fleet of aircraft was used by General Eisenhower to bring journalists, Congressmen, and churchmen to see the concentration camps; the idea being that the sight of Hitler’s starved victims would obliterate consciousness of our own guilt. Certainly it worked out that way. No American newspaper of large circulation in those days wrote up the horror of our bombing or described the ghastly conditions in which the survivors were living in the corpse-filled ruins. American readers sipped their fill only of German atrocities.(17)

Utley’s work is today unknown in American higher education although her prose constitutes a valuable document in studying the crusading and inquisitorial character of Americanism in Europe. There are legions of so-called revisionist books describing the plight of Germans and Europeans after the Second World War, but due to academic silence and self-censorship these books do not elicit mainstream credibility in professional circles. Both American and European historians seem to be light miles away from historicizing contemporary history and its aftermath. This is understandable, in view of the fact that acting and writing otherwise would throw an ugly light on crimes committed by the Americans in Germany during and after the Second World War. The American crimes included extra-legal killings of countless German civilians and disarmed soldiers with the tacit American approval of serial Soviet genocides and Communist mass expulsions of the German civilian population in Eastern Europe.(18) As Utley notes the sheer sight of horror and destruction which American warplanes had inflicted on German towns and cities must have, from the psychological point of view,  prompted the American military authorities and subsequent American administrations, academics, journalists, historians, and film makers to cover up their misdeeds by fabricating in turn their own  industry of real or alleged National Socialist crimes. Thus, as years and decades went by, crimes committed by the Americans against Germans were either whitewashed in the media or passed under silence. Utley describes in detail how thousands of German captives had been molested and dispatched to the gallows, often on flimsy charges with no evidence, and no chance of standing a fair trial(19).

The total number of German fatalities during and after the Second World War, is still unknown. The number varies wildly and according to individual authors it ranges from the figure of 6 to 16 million people, both civilians and soldiers. (20) The official American hesitancy to establish the precise number of the German war losses is understandable as this is a topic that American court historians do not find compatible with the spirit of American democracy. It is only the fascist criminology of the World War II, along with the rhetorical projection of the evil of the Holocaust that modern historiography contains, with American historians being at the helm of the narrative. Other victimhoods and other victimologies, notably those of other peoples, are rarely mentioned. Although Germany was the direct party involved in the war, the whole of Europe was affected by the American victory. The American supreme military headquarters, under the general Dwight Eisenhower, withdrew, after May 8, 1945, the POW status to German soldiers captured prior to the armistice. According to some German historians, over a million and a half German soldiers died after the end of hostilities in American and Soviet run prison camps. (21

The political events in America and Europe since 1945 bear a strong mark of this Manichean American approach in foreign policy – all related to the struggle which pitted during World War II nations of European ancestry against other European nations, albeit with three radically different world views. There is a large and impressive “un-American” revisionist legacy in America, which depicts various aspects of American foreign policy during and after the Second World War. These revisionist scholars in America do not shrink from describing the plight of Germans and other Europeans at the hand of the American victors. However, their prose, although having legally a right of entry in America, has so far not had much of an impact on public consciousness and on university professors. The answer is not difficult to guess. The masters of the discourse in postmodern America have powerful means to decide as to the concept of the historical truth and they give it their own historical meanings. Moreover, if this critical revisionist literature were to gain a mainstream foothold in America and Europe, it would render a serious blow to the ideology of Americanism and would automatically change the course of history in the coming decades. Former America’s foes, Japan, Germany and other European countries must continue to play the role of American democratic disciples: Germany in the continental Europe and Japan in the Pacific Basin.

Despite frequent reversals in her foreign policy, America’s self-perception, at the beginning of the new millennium, continues to abide by the same concepts of self-chosenness mixed with puritanical moralism. Irrespective of many experts and scholars who craft American foreign policy and who are in charge of improving America’s “cognitive warfare” abroad,  the idea prevails among all of them that there cannot be an alternative to the American system. This type of hubris is quite natural in view of the fact that America is the richest country on earth and that it does not have to face other challengers yet. How can one reject the American system if America is seen by its ruling class as  “the last best hope on earth” or, according to the former American secretary of the State, Madeleine Albright, as the “indispensable nation.”?(22)  Obviously, the American elites use different logic and make different judgments when trying to understand a non-American perception of America’s Bible-inspired foreign policy. As the French philosopher Louis Rougier writes, a true believer will continue to believe in his self-styled dogmas, regardless of how aberrant these dogmas appear or sound in the eyes and ears of the future generations. “What matters is not the true or false foundation of a religion, but how the believers live this religion. A historical truth, or a golden legend – who cares. It is in the hearts of the believers that gods live and become resurrected.”(23) Likewise, the goddess of American democracy must firmly be grounded in evangelical millenarianism that America has used in her foreign policy ever since her inception. Since its foundation, America has defined her foe as it has best suited its moralistic and legalistic principles. With this goal in mind the American language was also skillfully crafted for the description of America’s foreign policy gains or failures. As a result, many political concepts have lost their original meaning and have acquired the role of political theology in American foreign policy. “The language became a deception: it was infected not only with those great bestialities. It was called to enforce innumerable falsehoods,” writes George Steiner (24). Therefore, it is indispensable for a student of Americanism, before studying any move or shake of American decision makers, carefully to look at the language and the meaning they assign to their language. This is especially important for studying American behavior in postmodernity.

In the second half of the 20th century, it was again the Biblical narrative mixed with democratic babble that made the Americans embrace the new state of Israel, with unforeseen consequences for the whole of the Middle East and for the whole of mankind.  Most of the American Presidents, writes Lawrence Davidson in his piece, followed Woodrow Wilson’s messianism, for Wilson was himself an ardent pro-Zionist who was easily persuaded back in 1916 by Chief Justice Louis Brandeis, who was himself of the Jewish origin,  to support the Balfour Declaration.  Subsequent American presidents held a romanticized picture of the future Israel, a country that they viewed as their own spiritual homeland. In early postmodernity their task was facilitated in so far as they could rely upon millions of American evangelists, mostly residing in the American Bible belt, whose behavior was often more Jewish than that of American Jews themselves.  Once upon a time, during the Cold War, it was the “evil” communists who were damned by the American political class. At the beginning of the third millennium, under the guise of such abstract notions as the “war against terror” and the “fight for democracy,” America began waging endless wars against the real or alleged enemies of Israel. The high priest of this new Biblical fundamentalism in foreign policy, as Lawrence Davidson calls him, is American President George W. Bush. “American Manifest Destiny and Christian Zionist delusions now pave the road down which we all walk. It runs through Palestine and leads to hell.” (25).
 
As many European journalists noted, the uniqueness of American unilateralism has become a dangerous factor in world politics. But has it ever been any different? The behavior of American President George W. Bush, during the invasion of Iraq in 2003, was quite in line with that of his predecessors.  “Bush’s government is forced back to the doctrines of Puritanism as an historical necessity. If we are to understand what it is up to, we must look not to the 1930s, but to the 1630s.” (26) And this new version of the Bible-inspired American policy does not only apply to President Bush but to all US presidents since the American Declaration of Independence. America’s unconditional support of Israel resembles a belated form of White House Christian-inspired medieval neurosis. Fear of being called anti-Semitic prevents American politicians and a great number of academics from openly criticizing Israel. When they do, as academic voices can be heard to do sometimes, they usually leave out the founding myths of the Biblical narrative, focusing instead on the dry facts about the influence of Jewish lobbies in America. In a typical American “expertise” fashion American academics who happen to be critical of Israel focus on one set of arguments while forgetting other scholarly approaches. Clearly, America derives little if any geopolitical benefit from supporting Israel. Israel is more of a liability than an asset for America. Also, from the geopolitical perspective, Israel is a nuisance for America given that as a small country, the size of Rhode Island, it is surrounded by a host of hostile cultures, religions, and neighbors both outside and within its borders. The historical irony is that while America, thanks to her unique insular position, has been, geopolitically speaking, able to avoid troublesome neighbors and their problems, from which the American founding fathers had once run away, the balkanized Middle East with its plethora of problems is now being transferred back to the American shores. Israel acts in a similar way as ancient Prussia; in order to survive it must grow at the expense of its neighbors – or its must perish.(27) But America’s special metaphysical links to Israel prevent this  from happening. Israel, metaphysically speaking, is the place of spiritual origin for the American divine world mission and the incarnation of the American ideology itself. Only in this sense can one understand why America has accepted with zeal her own deliberate decline into a global morass as we come to the early 21st century. America has given birth to countless enemies around the world and her actions stand in sharp contrast to her originally proclaimed goals.
 
The imagery of Israel and “God’s chosen people” represents a framework of America’s foreign policy not only regarding the Middle East but regarding all other foreign policy issues. In the meantime “any aspiring policymaker is encouraged to become an overt supporter of Israel, which is why public critics of Israeli policy have become an endangered species in the foreign policy establishment.”(28). These words were written in 2005 by two prominent American scholars whose words were relayed by major media around the USA and Europe, which in turn immediately prompted Jewish lobbies in America to cry foul and raise the specter of  “anti-Semitism.” What John Mearsheimer and Stephen Walt write, however, is nothing new to knowledgeable people. Similar critical views of Israel were earlier heard from many American authors, and they reflect, both in private and officially, the views of many European scholars and politicians. But when such views are uttered by politically correct American scholars, who have strong credentials, then they must result in a different aftereffect on the American political establishment. Hence the reason for worry among American Jews and the Israelis at the beginning of the new century. The large essay by John Mearsheimer and Stephen Walt, is a well documented survey depicting the staggering financial aid that America gives to Israel. The essay also depicts America’s persistent ignorance of the root causes of Islamic fundamentalism. The authors describe the awesome help provided by American taxpayers to Israel, the frightened Congress always ready to approve any whim of American Jewish lobbies, and the irrelevance of Israel for the long term security of America. The Jewish American Lobby has its avid supporters among Christian Gentiles who often show in public their pro-Israeli stance.  This trait of mimicry is also widespread among American intellectuals and politicians who often wish to prove that they are more Zionist than the Jews themselves.  In hindsight, their behavior resembles that of former communist apparatchiks in the old Soviet-run Eastern block who pledged their ideological allegiance to the Kremlin by showing the surplus strength of their mimicked, albeit feigned, communist orthodoxy.
 
A widespread sense of civic duty to provide service for the greater good, does not prevent the American political elites from using violent and brutal conduct in foreign policy. The deeply rooted idea of chosenness is further legitimized by the belief in the democratic mission that, consequently, must ignore the truth or the destiny of the “other.”  Regardless of what the odds are, homo americanus will always have good conscience in his foreign military adventures. As a form of political theology, Americanism as a Puritan derivative, must remain resilient to any criticism. The compulsive political drive to lecture Europeans, Arabs, or Japanese on the virtues of democracy, the urge to preach and pontificate, to “re-educate” heretics – all of these ventures were tested out by the Americans during and after World War II in Europe. By moralizing every aspect of their own political life, the American elites wish to extricate America from the tragic and from any form of power politics. This brings us again to the earlier point mentioned in this book, i.e., that America, while rejecting any political ideology, fully embraces its own para-biblical political theology, which it calls American democracy.(29)   The question, however, needs to be raised as to how long this Biblical discourse will remain the major political and theological leitmotiv of American foreign policy. The brutal reality of the ever-changing global environment has its own historical logic, which cannot be forever directed or wished away by “good vs. bad” analyses.  Furthermore, America, like any other country on earth, is also constrained by objective geopolitical factors and the ever-changing constellation of smaller and larger powers. America’s incredible luck in the twentieth century may not continue into the 21st century. Her overextended military position in the world does not mean that America will forever be a “major global player,” as Brzezinski rightly notes. Brzezinski was himself one of the important men in shaping the theoretical foundations of the Post-Cold War American foreign policy, and he adds that “America is not only the true superpower but probably also the last one.”(30). Its sole advantage so far has been that a newcomer could become an American, or Homo Americanus by choice  – in contrast to other states in the world where nationality and citizenship are largely conferred by the fact of blood lineage.
 
Most importantly, as Brzezinski notes, given the fact that America has become an increasingly multicultural and multiracial society, professing different ethnic and cultural allegiances,  “it will be more and more difficult to reach consensus concerning foreign policy issues.”(31) This is a theme that few American politicians openly wish to address. What may be desirable tomorrow for American Jews regarding America’s relationship to Israel, may be seen as contrary to Arab American interests. What may be considered a priority for European Americans tomorrow may be viewed as a hostile act by Asian Americans or Mexican Americans.  Short of some major issue, such as a common security threat which can bring about consensus among all American ethnicities and all racial groups, there will be less and less support among Americans for future foreign military adventures. After the terrorist bombing of the Twin Towers in New York, in 2001, the common subject of anti-Islamism brought together, momentarily, Americans of different racial backgrounds and from all walks of life. Islamism became suddenly a new catalyst of evil, vindicating earlier predictions by the author Samuel Huntington about the clash of Christian and Islamic civilizations. At the beginning of the 21 st century, Islamism is seen in America as a seedbed of radicalism and a motor of world disruption and a no lesser evil than the previously defeated Fascism. “This is the only civilization which has threatened on two occasions the very existence of the West,” writes Huntington (32)
 
Although Huntington must be commended for his realistic views about the disruptive nature of multiculturalism in America, the scope of his analyses and predictions are far behind the probity of the German jurist Carl Schmitt or the expert on geopolitics Karl Haushofer, who long ago both described American expansion as a history of  “’longitudinal dynamics’  transforming itself into ‘latitudinal dynamics.’” (33) Haushofer, who was a sharp critic of Americanism and American economic expansion, had some influence on the views held by National Socialist Germany about America. In his numerous articles and books he views the American sponsored economic globalism as incompatible with the German view regarding  self-sufficient large spaces (Grossraum), i.e., an international regime best seen as the  means of  co-existence of different states and cultures.(34) In contrast to the conservative Haushofer, the American conservative Huntington, however, is enamored with the concept of the “West” and notes “that whenever Americans look for their cultural roots then they find them in Europe.”(35) However, Huntington also points out that during the last two hundred years America has been at war with almost each European power and had as a sole interest to “prevent Europe or Asia from being dominated by a single power.” (36) Like most American conservatives in the establishment, Huntington uses wrongly the concept “West” as a synonym for both Europe and America, although European conservative thinkers, including Haushofer, use the term “West” only when describing America. 
 
How can America safeguard an Americanized Europe in the future, given that since her incipience she has been fighting against European powers, notably against England, Spain and lastly against Germany? Huntingdon’s obsession with the specter of Islam is typical for American mainstream conservatives and many right-wingers at the beginning of the 21 st century. The difference in bellicosity and fundamentalism between Americanism and Islamism appears, however, very marginal. Both aim at a global civilization, albeit by using different sets of value systems. Both are eager to convert the unbelievers to their cause only. Which side will win the historical contest, history will tell. Until now the main ingredient of Americanism has consisted in the opposition to creating ethnic and racial cohesiveness of European Americans and a common cultural identity of the European derived American population. The social fabric of America has traditionally been atomized. With the influx of non-European immigrants the American society now runs the risk of becoming thoroughly balkanized. This will have lasting effects on American foreign policy in the near future. Interracial clashes, and the subsequent break-up of the country into smaller entities, seems a looming American reality.
 

* Tomislav Sunic is a former US professor and Croatian diplomat. He is the author of articles and books in German, English, French and Croatian. This essay is a revised version of his chapter from his latest book. Homo Americanus: Child of the Postmodern Age (2007)

 


 
1. Carl Schmitt, Der Nomos der Erde (Berlin: Duncker und Humblot, 1950), p. 265 and passim.
 
2.  Zbigniew Brzezinski, Die einzige Weltmacht (Frankfurt: Fischer Taschenbuch Verlag, 1999), p. 44

3. Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus (Köln: Greven Verlag, 1950), especially p. 58.

4. Jean-Claude Valla, France sous les  bombes  américaines, 1942-1945 (Paris: Librairie nationale). Over 70,000 civilians in France perished during the Anglo-American firebombing during WWII.

5. James Bacque, Other Losses (Toronto: Stoddart, 1989). Also Alfred M. de Zayas, Die Anglo-Amerikaner und die Vertreibung der Deutschen (1977 Ullstein: Frankfurt, 1996).

6.  Jordis von Lohausen,  Les Empires et la puissance (Paris: Labyrinthe, 1985), p. 23.

7. Carl Schmitt: “Grand espace contre l’universalisme” in Du Politique (Paris:  Pardès, 1990), p.129.

8.  Carl Schmitt, Les formes de l’impérialisme en droit  international in Du Politique ( Pardès: Paris, 1990) p. 86

9.  Ibid., p. 88

10.  Ibid., p. 99.

11.Georg  Jellinek, Die Erklärung der Menschen und Bürgerrechte (Leipzig: Duncker und Humblot, 1904), who writes on page 46 that  “the idea to establish legally the unalienable, inherent and sacred rights of individuals, is not of political, but of religious origins.”

12.  Joe Lockard, “American Millennialists and the EU Satan,” Bad Subjects, issue No. 72,  February, 2005. See:http://bad.eserver.org/issues/2005/72/lockardamericanmillenialists.html

13.   Claes G. Ryn, “The Ideology of American Empire” (Foreign Policy Research Inst., published by Elsevier Sc. Ltd.) summer 2003,  p. 385

14. Ibid., p.  387.

15 .  M. E. Bradford, “Politics of Oliver Cromwell,” The Reactionary Imperative  (1990 Illinois, Sherwood Company ) p. 214.

16. See Prof. Dr  Helmut Schröcke,  Kriegsursachen, Kriegsschuld (CZ-Ostrava: Verlag für ganzheitliche Forschung, 2000). This book was printed, like thousands of similar revisionist titles, by the author himself – which is often the case in Germany with books dealing with sensitive topics concerning Germany and World War II losses. Also Gerd Honsik in his “Geheimnis des Westens,” posted on his site, where he writes about 13,5 million German civilian and military fatalities during and after WWII. See http://www.honsik.com/briefe/westen.html

17. Freda Utley, The High Cost of Vengeance (Chicago: Henry Regnery Co.  1949), p.183. See also, Ralph Franklin Keeling, Schreckliche Ernte; Der Nachkriegs-Krieg der Alliierten gegen das deutsche Volk (Long Beach: IHR, 1992).Translated from the original Gruesome Harvest, (Chicago: Institute of American Economics, 1947).

18. Alliierte Kriegverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit, (Kiel: Arndt Verlag, 2001). The book represents a compendium of documented crimes committed by American soldiers in Germany after World War II.

19. Utley, p. 187 and passim.

20.  Schröcke,  Kriegsursachen, Kriegsschuld, pp. 296-297.

21.   “Vergeltung statt Recht,”  by Franz W. Seidler, in the German annual  military journal,  Deutsche Militärzeitschrift (Kiel 2006):  pp. 118-123.

22. John B. Judis, “The Author of Liberty, Religion and U.S. Foreign Policy,” in  Dissent (fall 2005), pp . 54-61. Also see link: http://www.dissentmagazine.org/menutest/articles/fa05/judis.htm.

See also "One War is Enough," by Edgar L. Jones, Atlantic Monthly, 1946.

23.  Louis Rougier, Du Paradis  a l’utopie ( Paris: Copernic, 1979), p. 262.

24.  George Steiner, A Reader (Oxford University Press: New York, 1984) p. 212.

25. Lawrence Davidson, “Christian Zionism and American Foreign Policy: Paving the Road to Hell in Palestine” in Logos (winter 2005) http://www.logosjournal.com/issue_4.1/davidson.htm

26. George Monbiot, “Puritanism of the Rich:  Bush’s ideology has its roots in 17th century preaching that the world exists to be conquered,” The Guardian (Tuesday, November 9, 2004

27. Jordis von Lohausen, p. 266.

28.  John Mearsheimer and Stephen Walt, “The Israel Lobby” London Review of Books, Vol. 28. No. 6 March 23, 2006. Also published in an extended version by Harvard University, “The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy,” by John J. Mearsheimer and Stephen Walt; Working Paper Number: RWP06-011
Submitted: 13/03/2006.

29.  Carl Schmitt, Politische Theologie (München und Leipzig: Verlag von Duncker und Humblot, 1934), p. 80.

30.  Brzezinski, p. 298.

31.  Brzezinski, p. 301.

32. Samuel Huntington, Le choc des civilisations (Paris: Odile Jacob, 2000), p. 306-307.

33. Karl Haushofer, “Les Dynamiques latitudinales  et longitudinales,” in  Vouloir ( Bruxelles), N, 9, spring 1997.  First published  in Zeitschrift   für Geopolitik, Nr. 8, 1943.

34. See Frank Ebeling, Geopolitik: Karl Haushofer und seine Raumwissenschaft, 1919- 1945 (Berlin: Akademie Verlag, 1994),  pp. 95-100.  Haushofer’s last letter, immediately sent before the end of the war to his wife, is reprinted in the book on page 98, where he compares the new world of the USA to a “handsome alligator …  which  first honoured the old world of  Europe with syphilis, and now with the Yankees.”

35. Samuel Huntington, pp- 461-462

36. Ibid., p. 344.

INTERVISTA AL PRESIDENTE DELL’ABCASIA

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A cura di Filippo Pederzini
 
Scomodo, verrebbe da dire, dato che diversi sono stati gli attentati nei suoi confronti. L’ultimo risale al 22 febbraio di quest’anno. L’ultimo, da quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica di Abkhazia, in un trionfo popolare nel 2011, succedendo ad Sergej Bagpash. Patriota indefesso, con fama di combattere la corruzione e di non risparmiarsi per la crescita del suo paese, Aleksandr Ankvab, ancora giovane, come il suo predecessore – lo sono anche tutti i ministri dell’attuale governo dello stato che si affaccia sul Mar Nero – è tra coloro che per l’indipendenza non ha esitato a combattere nel periodo compreso tra il 1991 e 1993, quando il conflitto abkazo-georgiano infiammava l’area. Paiono secoli. Ferita che non si è mai rimarginata, tantomeno oggi: dopo la piccola crisi russo-georgiana del 2008 e il riconoscimento internazionale di vari paesi tra cui Russia, Venezuela e Nicaragua. I ‘vicini’ però non sono minimamente intenzionati a rinunciare all’Abkhazia, che rivendicano, sospinti da Nato e Usa, nonostante le diversità, culturali e storiche, che caratterizzano i due popoli  (radici che affondano ben oltre a 2000 anni fa), e nel silenzio assordante della comunità internazionale (ben altre le posizioni assunte da questa ai tempi del Kosovo…). “La mano tesa ai georgiani da parte nostra non è mai venuta meno. Si ostinano a non voler riconoscere la nostra indipendenza e a rivendicare la nostra terra come loro. Non è così: l’Abkhazia oggi è uno stato libero, come liberi sono i suoi cittadini”. Pochi giri di parole per Ankwab per ribadire questi chiari concetti, sottolineare come la questione sia ancora cruciale, ma anche “Che siamo intenzionati a guardare avanti per cogliere quelle che sono le sfide che questi tempi ci pongono e far crescere il nostro paese”.  

 

 

Innanzitutto, signor Presidente, la ringraziamo per averci concesso questa intervista. Che genere di rapporto vige oggi con la Georgia anche alla luce delle ultime elezioni e dei fatti accaduti oltre confine: dall’affermazione di un candidato ‘filorusso’, agli scandali che hanno travolto ministri e governo di Shakasvili?

“Siamo al momento al nulla di fatto. Gli ultimi incontri con la Georgia, a Ginevra e avvenuti alla presenza di Stati Uniti, Russia ed Unione Europea, non hanno portato ad alcuna soluzione. Con i Georgiani non siamo riusciti assolutamente a dialogare. L’impedimento è sorto anche dalla presenza dei rappresentanti dei Paesi Baltici e della Polonia che hanno esercitato una sorta di ostruzionismo nei nostri confronti. La russofobia ha preso il posto dell’anticomunismo e tutto ciò che, come nel nostro caso rappresenta amicizia e rapporti di buon vicinato con la Russia, si trasforma in blocco, a prescindere dai contenuti. Le posizioni rimangono al momento diametralmente opposte. C’è comunque da parte dei georgiani ancora oggi, nonostante appunto i cambiamenti intercorsi, nessuna volontà di riconoscere l’indipendenza del nostro paese. Siamo due realtà completamente differenti. Questo però non esclude di istaurare, e ci stiamo impegnando ormai da anni a tal senso, un dialogo costruttivo finalizzato al riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia. Passo a cui seguirebbe una ripresa dei rapporti tra i due stati e di conseguenza alla riapertura delle frontiere. Non siamo noi però a non volere il dialogo con i georgiani, tengo a sottolinearlo, ma loro, fermi su posizioni assolutamente controproducenti e condizionati da terzi”.

 

 

Quali dunque signor Presidente, queste posizioni georgiane definite controproducenti, nei vostri confronti? Proprio nulla la Georgia sarebbe disposta a concedere? Non  potrebbe esserci qualche sollecitazione da parte dalla comunità internazionale?

“In primo luogo la Georgia pone come condizione l’irrinunciabilità e la rivendicazione dell’intero territorio abkhazo, come parte integrante del suo stato. Sono forti di questa posizione – sostenuta e nemmeno in modo troppo celato per altro dagli Stati Uniti – grazie al mancato riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia: sia da parte delle Nazioni Unite, che della stessa Unione Europea. La Georgia come ribadito in passato non si discosta dal considerarci null’altro che un lembo del proprio territorio e l’unica concessione che sarebbe eventualmente – il condizionale e d’obbligo – disposta a fare è una sorta di autonomia culturale dell’Abkhazia. Una formalità semplicemente irrisoria priva di valore; molto meno di quanto ad esempio, lo stato italiano offre a provincie e regioni autonome. Il sostegno degli Stati Uniti alla Georgia fa sì poi che molti Stati a livello internazionale evitando di analizzare ed approfondire la nostra questione, si allineano su posizioni filo georgiane. Posizioni per altro che trovano schierati anche tanti media occidentali: nel 2008 ad esempio alla stregua degli osseti del sud siamo finiti da ‘aggrediti’ ad aggressori, quando è vero l’esatto contrario. Nemmeno internet a tal senso ci viene incontro. Nonostante l’impegno profuso da parte nostra, dei russi e di altri che contribuiscono alla circolazione di notizie vere relative alla realtà abkhaza, come pure l’attività condotta da Mauro Murgia in Italia, che ringrazio come pure la rivista Eurasia, e tutti coloro che parlano e raccontano l’Abkhazia e le sue genti soprattutto, molte informazioni veicolate sul web non solo non sono veritiere, ma rasentano il falso. Su Wikipedia ad esempio la libera enciclopedia multimediale è riportato che l’indipendenza dell’Abkhazia va contro il diritto internazionale. Curioso vero? E quella del Kosovo, senza aver nulla contro i kosovari sia chiaro, invece no? È stato smembrato uno stato, la culla storico/culturale della Serbia oltretutto per crearne uno, privo di radici storiche, culturali, senza tradizione alcuna, che non ha avuto particolari difficoltà ad essere riconosciuto dalla comunità internazionale…”.

 

 

Il ‘caso Kosovo’ però, non avrebbe potuto rappresentare il perno su cui far leva per la vicenda abkaza? O meglio, il precedente per il quale, in sede delle Nazioni Unite attivare la procedura di riconoscimento?

“In teoria. In pratica, non ci siamo mai fatti illusioni. Nei nostri confronti, l’ostruzionismo e questo appare abbastanza evidente oggi, viene fatto quasi esclusivamente in funzione antirussa. Come antirussa, col beneplacito dell’occidente continua ad essere la politica estera georgiana: l’ultima novità giusto perché gli esempi non mancano mai e sono sempre di varia natura è che nel maggio di quest’anno la Georgia ha eretto un monumento sul confine della Circassia a ricordo dei circassi che hanno resistito all’occupazione sovietica. Come la si vuol definire? Propaganda? O cosa? Per non parlare del credito di cui godono certi organi di informazione dichiaratamente filo georgiani sui quali lo spazio all’Abkazia non è certo lesinato, solo però nei termini avversi a noi e alle nostre vicende. Tornando al Kosovo, tengo però a chiarire una cosa: rispetto alla ‘neonazione europea’, l’Abkhazia, oltre a vantare due millenni di storia ha sempre goduto di uno statuto speciale già dai tempi dello Zar, rinnovato anche nel 1931 quando è entrata a far parte dell’Unione Sovietica (solo l’avvento di Stalin ha mutato le cose: con la deportazione di migliaia di abkhazi e l’accorpamento del territorio alla Georgia). Se non altro storicamente e a livello di diritto internazionale qualche ragione in più pensiamo di averla e cerchiamo di farla valere. Già il fatto comunque che oggi, lo ribadisco si parli di Abkhazia a Ginevra, presso la sede delle Nazioni Unite, è un importante passo in avanti”.

 

 

Queste resistenze a livello internazionale nei vostri confronti, urlate in taluni casi paiono celare però anche altri argomenti al momento sottaciuti, sia dai vicini Georgiani che dagli Stati Uniti stessi. Ecco, quali altre ragioni, se mi è concesso e se esistono, impediscono l’attuazione di un percorso verso il riconoscimento dell’Abkhazia come stato indipendente? Di natura economica? Strategica? Oppure?    

“Posso risponderle che l’Abkhazia oggi è tra i primi paesi al mondo per l’elevata quantità in suo possesso e qualità, di acqua dolce. Difficile pensarlo per uno stato di dimensioni tanto limitate, ma è così. Lo sfruttamento di questa fondamentale ricchezza naturale, senza inquinamento alcuno, ci permette di produrre energia di tipo idroelettrico in abbondanza. E a parte quella utile al fabbisogno del nostro paese, il resto lo vendiamo alla Russia: una quantità tale che permette di soddisfare le esigenze di una larga fetta del territorio russo meridionale. È chiaro dunque che la portata di una risorsa naturale come l’acqua, guardando anche alle condizioni in cui cominciano a versare molti paesi causa siccità, mutamenti atmosferici e altro e per usare la nota frase “Che la prossima guerra si combatterà per l’acqua”, già adesso si rileva oltre che importante per la sopravvivenza, strategica per i paesi che ne possiedono in grandi quantità. Ma non è l’unico fattore. Ci sono ben altre risorse naturali su cui si concentra l’attenzione. A poche miglia nautiche dalla costa, in acque territoriali abkhaze a tutti gli effetti sono stati individuati nel sottosuolo marino enormi giacimenti di gas naturale e di petrolio. Sgombrando il campo da ogni sorta di equivoco e cioè che sono dell’Abkhazia e del suo popolo e di nessun altro, il Governo non è attualmente e non lo sarà nemmeno in futuro interessato a sfruttare questo tipo di risorse. Puntiamo per altro invece ad uno sfruttamento maggiore dell’acqua come delle tante bellezze naturali di cui è ricco il paese. Il mare, i laghi, le montagne i parchi. Il fatto che ora già oltre 2 milioni di russi ogni anno trascorrono le vacanze presso di noi, indica che la via che siamo intenzionati a percorrere è quella dello sviluppo turistico, prima che industriale, dato che il territorio va preservato. Le Olimpiadi Invernali di Soci nel 2014 rappresentano anche per noi una seria e concreta opportunità di crescita. Molto a livello di riqualificazione e valorizzazione si sta già facendo, ma tanto ancora ci sarà da fare soprattutto a livello infrastrutturale. Per questo ci rivolgiamo agli investitori stranieri, italiani compresi, offrendo loro un regime fiscale molto agevolato per intraprendere in Abkhazia”.

 

 

Le chiedo se possiamo per un attimo focalizzare l’attenzione sul ruolo della federazione russa, nei vostri confronti. Quale il rapporto che lo stato abkhazo ha attualmente con loro? Cosa ne pensa del fatto che molti media occidentali parlano espressamente di sudditanza?    

Con l’avvento di Vladimir Putin, il rapporto si è mostrato da subito costruttivo e di estrema collaborazione. Sono lontani ormai i tempi di Eltsin quando le relazioni con la Russia erano pressoché inesistenti. Basti pensare che dal suo primo insediamento al Cremlino Putin ha capito subito e manifestato che il nostro stato non era e non è parte integrante della Georgia, ma una realtà indipendente e come tale deve essere autonomo. La Federazione Russa inoltre dopo la crisi diplomatica coi georgiani non ha esitato solo un attimo a riconoscerci, contribuendo ad elevarci a nazione tra le nazioni. È venuta incontro alle esigenze della popolazione, in primo luogo mediante la concessione del passaporto russo, che consente ai cittadini abkhazi la libera circolazione al di fuori dei confini del proprio Stato, come avviene per i cittadini delle altre nazioni. Gli Abkhazi possono entrare liberamente in territorio russo, così come in tutti quei Paesi che hanno riconosciuto l’Abkhazia. Non va dimenticato poi il sostegno in termini economici sociali e tecnici offerto dalla Federazione Russa all’Abkhazia, teso allo sviluppo dello Stato, come pure quello militare. Come potrebbe fare altrimenti la nostra nazione a difendere e monitorare le proprie acque territoriali, in mancanza di una marina propria? Non è passato molto tempo, è utile ricordarlo, da quando unità navali georgiane si frapponevano e bloccavano tutte le imbarcazioni che volevano approdare nei nostri porti, arrestandone addirittura gli equipaggi. Inoltre è sicuramente meglio che siano le unità russe a controllare il confine con la Georgia, al fine di evitare ulteriori tensioni. Soprattutto il supporto offertoci dalla Federazione Russa ha contribuito a far parlare gli abkhazi del loro paese e non altri, come purtroppo continua in larga parte ad avvenire. Mi sento di parlare quindi di stretta collaborazione come per altro avviene con le altre realtà che ci hanno riconosciuto quali ad esempio il Nicaragua e il Venezuela. Chi usa il termine sudditanza, fa ben altro gioco…”.

 

 

Non di rado però si pone l’accento anche sull’assenza di democrazia in Abkhazia… 

Posso dirle che come il mio predecessore Bagpash, sono stato democraticamente eletto; ero in lizza insieme ad altri candidati. Mi permetta comunque di rispedire questa accusa al mittente. Le elezioni in Abkhazia avvengono nel rispetto delle regole. Senza contare che, a scanso di ogni equivoco, accogliamo centinaia di osservatori internazionali in occasione di ogni tornata elettorale, sia presidenziale che parlamentare, come avvenuto pure nel corso di quest’anno. L’affluenza è decisamente alta (siamo oltre al 90%). E il momento delle consultazioni è vissuto in molti casi come una festa, al di la di chi siano i vincitori o il vincitore. Ma a voler indicare questi come problemi significa conoscere in modo fittizio la nostra realtà. Necessitiamo di investimenti per crescere, di essere riconosciuti. E soprattutto di prosperare in pace dopo aver conquistato indipendenza e libertà alle quali non rinunceremo”.
 
 


COMUNICATO RELATIVO ALL’ESCALATION DELLE OPERAZIONI DEI GRUPPI TERRORISTICI ARMATI CONTRO I CAMPI PALESTINESI IN SIRIA

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 Negli ultimi giorni, i gruppi terroristici armati hanno moltiplicato gli attacchi e gli atti terroristici in ogni località della Siria, tra i quali si sono registrate violenze contro i figli del nostro Popolo Palestinese, in particolare nei campi di Damasco e Deraa.

Gli attacchi dei gruppi terroristici armati, che puntano al coinvolgimento degli abitanti dei campi palestinesi in Siria, hanno causato la morte di numerosi innocenti palestinesi ad Aleppo, dove i terroristi hanno fatto esplodere un autobus che trasportava ragazzi palestinesi che facevano ritorno in città, e a Damasco, presso il campo di Yarmouk, dove è stato fatto esplodere un autobus che trasportava donne e bambini, causando la morte di cinque palestinesi e il ferimento di molti altri. Di recente, le rappresaglie si sono succedute mediante il bombardamento del campo con colpi di mortaio, causando il ferimento di molti abitanti del campo di Yarmouk e la devastazione delle loro proprietà, oltre che la distruzione delle istituzioni siriane e internazionali che sono incaricate di tutelarle a partire dalla  “Nakba”, che ha costretto il popolo palestinese all’esodo nel 1948.

La Siria ha assunto fin da subito una ferma posizione verso la catastrofe che ha afflitto il popolo palestinese, facendo della questione palestinese una bussola  nel determinare le sue politiche e le sue posizioni, e non ha mai esitato a sacrificarsi materialmente e umanamente per appoggiare il popolo palestinese fratello nel conseguimento dei suoi legittimi diritti. Ciò di cui sta soffrendo adesso la Siria è una conseguenza delle sue posizioni in favore della lotta del popolo palestinese e del suo rifiuto a liquidare la questione palestinese.

La Siria ribadisce ancora una volta che l’unica via da percorrere per i rifugiati palestinesi in Siria e ovunque essi si siano rifugiati , è la via che porta alla Palestina e alla rivendicazione dei diritti inalienabili, in primis del diritto al ritorno, così come ribadisce che si schiererà fermamente contro qualsiasi tentativo di collegare i palestinesi con quanto sta accadendo in Siria. La Siria chiede a tutte le fazioni del popolo palestinese, alle sue organizzazioni e ai suoi dirigenti di dissociarsi da quanto ordito dai gruppi terroristici armati, che sono legati a disegni ostili  alle aspirazioni del popolo palestinese e ai suoi legittimi diritti, a servizio degli interessi di Israele e dei suoi sostenitori. La Siria inoltre continuerà a svolgere la sua missione, assicurando ai fratelli palestinesi tutta la tutela e le condizioni vitali in grado di garantire dignità, mezzi di sussistenza e sicurezza, ben lungi dalle politiche di provocazione e disinformazione esercitate da parti ben note ed avverse alla questione del popolo palestinese.

Fonte: Ambasciata della Repubblica Araba Siriana

LA RUSSIA CONTRASTA DAL MARE LO SCUDO ANTIMISSILE USA

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Il Pentagono sta lavorando per circondare l’Eurasia e la Triplice Intesa eurasiatica formata da Cina, Russia e Iran. Per ogni azione, tuttavia, vi è una reazione. Nessuna di queste tre potenze eurasiatiche resterà un obiettivo passivo davanti gli USA.

Pechino, Mosca e Teheran prendono le proprie contromisure per contrastare la strategia del Pentagono dell’accerchiamento militare. Nell’Oceano Indiano i cinesi stanno sviluppando le loro infrastrutture militare secondo quello che il Pentagono chiama “collana di perle” cinese. L’Iran procede nell’espansione navale, che vede il dispiegamento delle sue forze marittime sempre più lontano dalle acque nazionali, nel Golfo Persico e nel Golfo di Oman. Tutte e tre le potenze eurasiatiche, insieme a molti loro alleati, inviano anche navi da guerra al largo delle coste dello Yemen, di Gibuti e della Somalia nel contesto geo-strategico dell’importante corridoio marittimo del Golfo di Aden. Lo scudo missilistico globale degli Stati Uniti è una componente della strategia del Pentagono per circondare l’Eurasia e queste tre potenze. Nel primo caso, il sistema militare è volto a stabilire il primato nucleare degli Stati Uniti, neutralizzando qualsiasi risposta nucleare russa o cinese a un attacco dagli Stati Uniti o dalla NATO. Lo scudo missilistico globale è volto a impedire qualsiasi reazione o “secondo attacco” nucleare dei russi e dei cinesi ad un “primo colpo” nucleare del Pentagono.

 
 
 

Lo scudo missilistico globale degli Stati Uniti contro l’espansione navale russa

Tutti i nuovi rapporti sulle ramificazioni dello scudo missilistico degli Stati Uniti, trasferitesi in altre parti del mondo, sono sensazionalistici, in quanto ritraggono la sua espansione geografica come un nuovo sviluppo. Questi rapporti ignorano il fatto che lo scudo antimissile è stato progettato per essere un sistema globale, con le componenti posizionate strategicamente in tutto il mondo fin dall’inizio. Il Pentagono aveva previsto questo nel 1990 e forse molto prima. Il Giappone e gli alleati della NATO del Pentagono sono più o meno partecipi del piano militare fin dall’inizio. Anni fa sia i cinesi che i russi erano già a conoscenza delle ambizioni globali del Pentagono per lo scudo missilistico, e resero dichiarazioni comuni che lo condannavano come progetto destabilizzante che potrebbe turbare l’equilibrio di potere strategico globale. Cina e Russia rilasciarono congiuntamente anche dichiarazioni multilaterali, nel luglio 2000, assieme a Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan,  mettendo in guardia sulla creazione dello scudo missilistico globale del Pentagono, che avrebbe danneggiato la pace internazionale e violato il trattato Anti-Ballistic Missile (ABM). Il governo degli Stati Uniti è stato più volte avvertito che le misure che prendeva avrebbero polarizzato il mondo nelle ostilità che avrebbero ricordato la guerra fredda. L’avvertimento è stato ignorato con arroganza.
 
I russi ora contrastano lo scudo missilistico globale del Pentagono attraverso passi molto concreti. Questi passaggi implicano l’ampliamento della presenza del loro paese negli oceani e nell’aggiornamento delle loro capacità navali. Mosca prevede di aprire nuove basi navali al di fuori delle proprie acque interne e al di fuori delle coste del Mar Nero e del Mar Mediterraneo. La Federazione russa ha già due basi navali al di fuori del territorio russo: una è nel porto ucraino di Sebastopoli, nel Mar Nero, e l’altra è nel porto siriano di Tartus, nel Mar Mediterraneo. Il Cremlino ora guarda a Mar dei Caraibi, Mar Cinese Meridionale e alla costa orientale dell’Africa (in prossimità del Golfo di Aden) come luoghi adatti per delle nuove basi russe. Cuba, Vietnam e le Seychelles sono i principali candidati ad ospitare le nuove basi navali russe in queste acque. I russi erano già presenti in Vietnam, a Cam Ranh Bay, fino al 2002. Il porto vietnamita ospitava i sovietici dal 1979 e poi ha ospitato le forze russe dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. La Russia ha continuato ad avere una presenza militare post-sovietica a Cuba fino al 2001, attraverso la base di sorveglianza elettronica di Lourdes, che monitorava gli Stati Uniti.
 
Il Cremlino sta inoltre sviluppando le sue infrastruttura militari della costa artica. Nuovi basi navali nel nord artico stanno per essere aperte. Ciò fa parte della strategia russa, attenta ad includere il Circolo Polare Artico. È stata redatta in funzione di un duplice scopo. Uno è proteggere gli interessi territoriali ed energetici russi contro gli Stati della NATO, sul Lomonosov Ridge. L’altro è sostenere la strategia marittima mondiale russa. Mosca si rende conto che gli Stati Uniti e la NATO vogliono espellere le sue forze navali dal Mar Nero e dal Mar Mediterraneo. Le mosse degli Stati Uniti e dell’UE volte a controllare e a limitare l’accesso marittimo russo in Siria, sono un indicatore di tali tendenze ed obiettivi strategici. Le mosse strategiche per limitare le forze marittime russe sono uno dei motivi per cui il Cremlino vuole delle basi navali nei Caraibi, nel Mar Cinese Meridionale e nelle coste orientali dell’Africa. Lo sviluppo delle infrastrutture navali della Russia artica e l’apertura di basi navali russe in luoghi come Cuba, Vietnam e Seychelles virtualmente garantirebbero la presenza globale delle forze navali russe. Le navi russe avrebbero diversi punti da cui accedere alle acque internazionali e fissare delle basi di appoggio all’estero. Queste basi forniranno le strutture di attracco permanente ai russi sia nell’Oceano Atlantico che nell’Oceano indiano.
 
Le future basi navali all’estero, come quella in Siria, non vengono indicate come “basi navali” dai funzionari russi, ma con altri termini. Mosca chiede dei “punti di rifornimento” o basi logistiche, per farle sembrare assai meno minacciose. La nomenclatura non ha molta importanza. Le funzioni di queste strutture navali, tuttavia, hanno gli scopi militari strategici che vengono descritti. I russi al momento hanno soltanto le basi permanenti di attracco delle loro coste nazionali sul Mar Glaciale Artico e sull’Oceano Pacifico. Inoltre, le infrastrutture navali nell’Estremo Oriente russo, sulle rive dell’Oceano Pacifico, hanno il più ampio accesso alle acque internazionali. Le infrastrutture navali di Mosca sul Baltico, geograficamente un ambiente limitato potrebbero essere immobilizzate, come le infrastrutture navali russe nel Mar Nero, nel caso di un confronto con gli Stati Uniti e la NATO. Aggiungendo delle infrastrutture navali in luoghi come Cuba, si potrebbe effettivamente garantire alle forze navali della Russia la libertà di navigazione, ed evitare di essere circondate dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
 
 
 
 
La nuova posizione nucleare navale della Russia

Storicamente, il mandato delle forze navali russe è stato quello di proteggere le coste russe. Sia la Russia che l’Unione Sovietica hanno basato le loro strategie difensive sulla lotta contro una grande invasione terrestre. Per questo motivo le caratteristiche delle forze navali russe e sovietiche si sono sempre basate su funzioni volte ad appoggiare il contrasto ad una invasione terrestre. Così, la flotta navale russa non è stata strutturata come una forza d’attacco offensivo. Ciò, tuttavia, sta cambiando nell’ambito della reazione di Mosca alla strategia di accerchiamento del Pentagono.
 
La Russia, come la Cina e l’Iran, si concentra sulla potenza navale. La Russia potenzia ed espande la sua flotta navale nucleare. I media russi ne riferiscono come di una nuova possibilità per il “predominio navale” del loro Paese. L’obiettivo di Mosca è stabilire la superiorità nucleare della sua flotta navale, basandosi sulle relative capacità di attacco nucleare. Questa è una reazione diretta allo scudo missilistico globale del Pentagono e all’accerchiamento della Russia e dei suoi alleati. Più di 50 nuove navi da guerra e più di 20 nuovi sottomarini saranno aggiunti alla flotta russa, entro il 2020. Circa il 40% dei nuovi sottomarini russi avranno letali capacità di attacco nucleare. Questo processo è iniziato dopo che Bush jr. ha cominciato a prendere le misure per creare lo scudo missilistico USA in Europa. Negli ultimi anni, le contromisure della Russia allo scudo antimissile degli Stati Uniti hanno cominciato a manifestarsi. Le prove in mare del sottomarino classe Borej nel Mar Bianco della Russia, dove si trova il porto di Arcangelo (Arkhangelsk), hanno avuto inizio nel 2011. Nello stesso anno è stato annunciato lo sviluppo del missile balistico nucleare sublanciato Liner, che sarebbe in grado di penetrare lo scudo antimissile statunitense. Un sottomarino russo avrebbe segretamente testato il Liner dal Mare di Barents, nel 2011.

 
 
 

Verso una futura crisi dei missili a Cuba?

Se si raggiunge un accordo con L’Avana, c’è sempre la possibilità che la Russia possa schierare missili a Cuba, come già fecero  i sovietici. Parlando ipoteticamente, questi missili russi avrebbero molto probabilmente delle testate nucleari. Semplificando, questo può presentarsi come un replay dello scenario che aveva portato alla crisi dei missili tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cuba, nel 1962. C’è molto di più, però, sullo sfondo di questa storia da guerra fredda e dei relativi cause ed effetti. L’autore principale della crisi dei missili di Cuba fu il governo degli Stati Uniti. Il dispiegamento di missili nucleari sovietici a Cuba era stata una mossa strategica asimmetrica per controbilanciare l’impiego segreto di missili nucleari degli USA in Turchia, da cui avrebbero colpito le città e i cittadini sovietici. Il governo degli Stati Uniti non fece sapere ai suoi cittadini che i suoi missili nucleari erano in Turchia puntati contro la popolazione sovietica, perché ciò avrebbe portato a molte domande da parte dell’opinione pubblica degli Stati Uniti, su chi fossero i veri aggressori e su chi ricadesse per davvero la colpa di aver avviato la crisi nel 1962. L’utilizzo delle armi nucleari russe, a Cuba, sarebbe stata anche una reazione alle armi nucleari con cui il Pentagono stava circondano la Russia e i suoi alleati. Come nel 1962, il governo degli Stati Uniti sarebbe il responsabile ultimo, ancora una volta, se i missili nucleari venissero schierati a Cuba, giungendo a una crisi. Finora, non ci sono trattative in corso, ma solo una rinnovata presenza russa a Cuba. Nulla è stato concordato in termini concreti tra i governi di L’Avana e Mosca, e non vi è stata alcuna menzione di voler schierare missili russi a Cuba. Eventuali commenti sulle mosse russe a Cuba sono solo speculazioni.
 
Gli aggiornamenti nucleari cui la Russia sottopone la sua marina sono molto più significativi di qualsiasi futura base russa a Cuba o altrove. La nuova postura nucleare navale della Russia permette effettivamente di dislocare armi nucleari in postazioni, molto più mobili, attorno agli Stati Uniti. In altre parole, la Russia ha diverse “Cuba” sotto la forma della sua flotta navale nucleare in grado di schierarsi in tutto il Mondo.
 
Questo è anche il motivo per cui la Russia sta sviluppando delle infrastrutture navali all’estero. La Russia avrà la possibilità di circondare o di contrastare gli Stati Uniti con le proprie forze di attacco nucleare navale. La strategia navale della Russia ha lo scopo di contrastare abilmente lo scudo antimissile globale del Pentagono. In questo processo è compresa l’adozione di una politica di attacco nucleare preventivo da parte del Cremlino, in reazione all’aggressiva dottrina dell’attacco nucleare preventivo post-Guerra Fredda del Pentagono e della NATO. Nello stesso anno, mentre veniva testato il Liner dai russi, il comandante delle Forze Strategiche Missilistiche della Federazione Russa, Colonnello-Generale Karakaev, ha detto che i missili balistici intercontinentali della Russia sarebbero diventati “invisibili” nel prossimo futuro.
 
Il Mondo è sempre più militarizzato. Le mosse e le azioni degli Stati Uniti costringono gli altri attori internazionali a ridefinire e rivalutare le loro dottrine militari e strategie. La Russia è semplicemente solo uno di loro.

 
 
 
 

Per saperne di più sul piano dello scudo antimissile globale degli Stati Uniti e sulla militarizzazione degli Oceani, vedasi il recente libro di Mahdi Darius Nazemroaya: La globalizzazione della NATO (Clarity Press).
Può essere ordinato direttamente da Research Global Online Store (https://store.globalresearch.ca/), è disponibile anche su Amazon e nelle migliori librerie.

 
 
 
Global Research, 4 novembre 2012 
 
http://www.globalresearch.ca/russia-counters-the-us-missile-shield-from-the-seas/5310516
 

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

LA MINACCIA SEPARATISTA IN SPAGNA

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La Catalogna (Catalunya in catalano), comunità autonoma (comunidad autonòma) e regione storica della Spagna, comprende le province spagnole del nord- est: Girona, Tarragona, Lleida e Barcellona che ne è il capoluogo. La Catalogna è la più ricca ed industrializzata parte della Spagna. (1)

Riconosciuta nella Costituzione spagnola come comunità autonoma e come nazionalità dal proprio Statuto di autonomia del 18 dicembre 1979 (2), esprime rivendicazioni regionaliste, autonomiste ed indipendentiste. La forte spinta identitaria dei Catalani è ancora oggi causa di frizioni col governo centrale.

La Spagna ha conferito autonomia amministrativa alle sue aree interne che si individuano come unitarie per la loro tradizione storica, etnica e culturale (Catalogna, Andalusia, Province basche, Galizia, Asturie ecc.). Questo tentativo di aderire quanto più possibile alle differenze regionali è appunto rappresentato dal regionalismo. Il regionalismo ha portato alcuni autori, come Ambrosini (1944), a parlare di uno Stato regionale come tipo intermedio tra lo Stato unitario e quello federale. In realtà, l’analisi delle realtà statuali ci consente di osservare che in entrambi i casi (regionalismo e federalismo) il problema risiede nelle differenze e complementarità tra poteri centrali e poteri periferici: nel regionalismo è l’autorità centrale che si spoglia di alcune sue prerogative per affidarle ad organismi locali, mentre nel secondo sono le autorità locali che delegano a un organo centrale alcuni dei loro poteri. È quindi questa, per cosi dire, cronologia del potere, che consente a quasi tutte le Costituzioni federali di prevedere la secessione, mentre nessuno Stato unitario, se pure conceda ampia autonomia regionale, ammette la possibilità che le regioni si costituiscano in Stati separati. (3)

La Generalità della Catalogna (in catalano: Generalitat de Catalunya) è il nome con cui viene indicato il sistema amministrativo-istituzionale per il governo autonomo della Comunità autonoma della Catalogna. Gli organi che la compongono sono: il Parlamento, il Consiglio Esecutivo, la Presidenza della Generalitat e altri organi minori che sono contemplati dallo Statuto d’autonomia della Catalogna.

La regione è balzata all’onore della cronaca spagnola e internazionale negli ultimi mesi con frequenti manifestazioni e proteste dovute alla crisi che sta colpendo l’ economia spagnola.

In particolare la manifestazione per l’indipendenza catalana, svoltasi a Barcellona l’11 settembre 2012 (Dia Nacional de Catalunya) sotto lo slogan “Catalunya, nou estat d’ Europa” (“Catalogna, nuovo stato d ‘Europa”), è stata la più grande manifestazione nazionalista catalana dalla fine della dittatura franchista, convocata da un gruppo separatista (l’ Assemblea nazionale Catalana, ANC) per reclamare l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, ma sotto queste rivendicazioni riuniva molte tematiche sociali, e soprattutto la questione fiscale.

Secondo la polizia municipale (Guàrdia Urbana) i manifestanti sono stati 1.500.000 e 2.000.000 secondo gli organizzatori. Il clamore per l’indipendenza coinvolge per la prima volta il sostegno di più della metà della popolazione, tra cui figure come Jordi Pujol i Soley, presidente della Generalitat de Catalunya dal 1980 al 2003, Xavier Trias, sindaco di Barcellona, Sandro Rosell, presidente del Futball Club Barcelona. (4)

Artur Mas, presidente attuale della Generalitat ha dichiarato di non poter partecipare alla manifestazione per via della carica ricoperta dicendo di essere dalla parte dei manifestanti: “Il mio cuore è con voi perché, in fondo, che siano voci in favore del patto fiscale, per lo Stato autonomo, per il rispetto che meritiamo come Nazione pacifica e democratica, per la nostra dignità, tutte queste voci vanno nella stessa direzione: più giustizia e più libertà per la Catalogna”.

Il giorno della manifestazione ha convocato una conferenza stampa in cui ha minacciato di “ aprire il cammino della regione” verso  l’ indipendenza nazionale, a partire dall’ autonomia fiscale, se non verrà raggiunto al più presto un accordo economico con il governo centrale spagnolo.

Dalla fine del regime franchista (5) la democrazia ha permesso alla Catalogna di esprimere tutta la forza del suo sistema produttivo, cosi è diventata il motore propulsivo della crescita di tutta la Spagna. La regione ha una sua storica identità, fatta di re, cultura e una lingua, il catalano, insegnata e parlata in ogni istituzione scolastica. La crisi fiscale che ha colpito la Spagna ha motivato l’attuale conflitto tra Barcellona e Madrid ,che però ha radici assai più profonde. La Catalogna gode di un ampia autonomia dal governo centrale, ma questo discorso non riguarda le imposte che confluiscono quasi interamente a Madrid. Questa regione contribuisce molto al PIL della Spagna e lo fa anche da un punto di vista fiscale, senza che ci sia una compensazione sufficiente, e ciò si avverte in un momento di crisi come quello attuale.  I Catalani pagano tra 12 e 16 bilioni, in più di tasse ogni anno a Madrid di quanto ricevano indietro, con l’eccesso che va alle regioni più povere come Andalusia e Estremadura.

Barcellona non ha quello che hanno ottenuto i Baschi, ossia una propria imposizione fiscale. Per questi motivi c’è un diffuso sentimento di ingiustizia nei confronti di Madrid.

È tradizionalmente considerata una delle regioni più ricche della Spagna, ma è stata fortemente colpita dalla crisi economica (il tasso di disoccupazione è uno dei più alti in Europa , sono circa al 22%) ed è diventata anche la regione più indebitata del Paese (circa 40 miliardi di euro di debito, pari al 20 % del suo PIL).

Il Presidente della regione  Mas, leader del partito autonomista Convergenza e Unione, ha dovuto chiedere all’esecutivo statale guidato da Mariano Rajoy un aiuto da 5 miliardi di euro. Il Presidente catalano ha deciso di sciogliere il Parlamento regionale e di convocare elezioni anticipate che si terranno il 25 novembre e nelle quali chiederà (e forse otterrà) un pieno mandato popolare per guidare la Catalogna all’ indipendenza. Per poter mantenere questa regione nella Spagna, Madrid dovrebbe offrire ai Catalani lo stesso trattamento che hanno offerto ai Baschi: un regime fiscale autonomo, ma questo sembra altamente  improbabile.

Madrid e l’ Unione Europea non possono  ignorare la questione catalana, con 1 milione e mezzo di persone che hanno partecipato alla manifestazione.

Arthur Mas ha dichiarato : “L’ Europa dovrà affrontare in un certo momento la questione. Non è possibile che, a causa di certe rigide norme, non si possa adattare a una realtà che cambia”.  Non si possono e non si devono minimizzare le proteste catalane. Appare chiara la volontà della Catalogna di rimanere in Europa e di tenere l’ euro, “Non siamo diventati folli”  ha commentato Mas.

Queste sue dichiarazioni arrivano, dopo che il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, ha comunicato questa settimana che ogni nuovo Stato dovrà chiedere separatamente l’adesione all’ Unione Europea . Ciò significa che una eventuale Catalogna indipendente, se vuole aderire all’ UE, deve procedere con la richiesta come ogni altro Stato non membro, ed ogni Stato di già membro dovrà dare il proprio assenso. Da Bruxelles è arrivata anche la comunicazione che una Catalogna indipendente abbandonerà automaticamente l’ Unione Europea, e dovrà abbandonare l’ euro creando una propria moneta corrente.

Tuttavia anche nell’ Unione Europea non c’è un’uniformità di pensiero, infatti Viviane Reding, vicepresidente della Commissione e commissario europeo per la giustizia, ha dichiarato che la Catalogna non avrebbe dovuto lasciare l’ UE nel caso decidesse di separarsi dalla Spagna, contraddicendo in questo modo Barroso.

Anche  il ministro degli affari esteri spagnolo, José Manuel Garcia- Margallo, si è espresso a riguardo della questione catalana: “Una secessione unilaterale non è prevista nel quadro costituzionale spagnolo” e  “Una dichiarazione d’ indipendenza da parte di una regione non è accettabile”.

Nei Trattati dell’ Unione Europea non è considerato il comportamento da adottare nei confronti di un nuovo Stato che nasca per separazione da uno Stato membro. Nel caso la Catalogna decidesse di separarsi ci sarebbero due possibilità: la prima è che la Spagna blocchi l’ ingresso della Catalogna nell’ UE e che quindi sia necessario studiare una soluzione alternativa, non è stata ancora studiata una possibilità del genere, potrebbe essere transitoriamente quello di uno Stato associato, ma che continuerebbe ad usare l’ euro come moneta, parteciperebbe a diversi programmi europei. Se, invece l’atteggiamento spagnolo fosse più costruttivo, la Catalogna potrebbe entrare nell’ UE a tutti gli effetti come Stato a se stante.

Ma la questione del separatismo non riguarda solo la Catalogna/ Spagna, infatti sembra che stiamo assistendo ad una  “balcanizzazione” all’ interno dell’ UE. (6)

Come per ironia della sorte, appena l’ Unione Europea ha vinto il Nobel della Pace perché ha promosso l’ unità del continente anche in momento di crisi economica, sullo scenario europeo si son accesi più focolai del separatismo.  L’ Europa appare più divisa che mai.

La Scozia si prepara a un referendum storico che nell’ autunno 2014 potrebbe portarla   all’ indipendenza dalla Gran Bretagna. Dopo mesi di stallo nelle trattative tra Londra ed Edimburgo, il ministro britannico David Mundell ha annunciato che “Westminster darà al parlamento scozzese il potere di tenere un referendum per decidere se la Scozia rimane nel regno Unito o meno”.

Recenti sondaggi indicano che tra il 30 % e il 40 degli Scozzesi sono favorevoli all’ indipendenza. La questione politica principale in gioco non sarebbe comunque l’ indipendenza formale dal Regno Unito, ma concedere alla Scozia un miglioramento decisivo alla sua situazione economica: avendo in mano il controllo delle tasse, per esempio, la leva fiscale potrebbe essere utilizzata per aumentare competitività ed attrarre investimenti. C’è inoltre tutta la questione del petrolio dei mari del Nord: i profitti per l’estrazione del petrolio rappresentano una delle entrate principali per le casse del governo britannico.

Se al referendum vincesse il Sì, la Scozia non sarebbe più una nazione costitutiva con autogoverno limitato ma tornerebbe ad essere uno Stato indipendente dopo 300 anni di unione con l’Inghilterra.

Gli inglesi sembrano non preoccuparsi di un effetto domino, concedendo la possibilità del referendum alla Scozia, ma cosa potrebbe succedere in Irlanda del Nord, nervo scoperto del secessionismo violento che, nonostante la rinuncia alla lotta armata dell’ IRA, potrebbe riemergere dal passato?

Anche il Belgio sta lentamente e pacificamente dirigendosi verso la separazione fra fiamminghi e valloni. Ad Anversa, dopo 80 anni di gestione socialista, alle ultime amministrative ha vinto l’ indipendentista fiammingo Bart de Wever (“il Leone delle Fiandre”), leader del partito Nuova Alleanza Fiamminga (NVA).

L’ NVA critica duramente il governo centrale soprattutto sulla politica economica e l’immigrazione, in difesa della ricchezza fiamminga nei confronti della metà meno produttiva del paese, la francofona Vallonia.

In questo disarmante panorama di prolungata crescita minima, maggiore disuguaglianza e infine di crisi economica evidente, le tendenze localistiche, i separatismi e il nazionalismo acquistano un aspetto preoccupante.

Ora non ci resta aspettare e vedere cosa succederà a Barcellona il 25 Novembre, nel caso la Catalogna si separi dalla Spagna,  sicuramente rappresenterà un modello da seguire per gli altri separatisti europei.

 

*Natalya Korlotyan è dottoressa in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee (Università Statale di Milano)

 

 

1. Enciclopedia Orbis Latini

2. www.gencat.cat/generalitat/cas/estatut/index.htm

3.Gianfranco Lizza, Geopolitica, 2001

4.The Guardian, 13 settembre 2012, Catalunya warns EU that million-strong march cannot be ignored

5. Nel 1975 Franco morì e la democrazia venne ripristinata poco dopo. Con la nuova Costituzione, la Catalogna divenne una delle Comunità Autonome all’ interno della Spagna.

6.The Global Post, 16 ottobre 2012, The Balkanization of Europe ?

 

IL GRANDE SUPERMERCATO BULGARO

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Che si trafficava e che si produceva in Bulgaria?

Al-Muqaddasi (X sec.) fornisce un lungo e dettagliato elenco di merci esportate dalla Khoresmia, ma provenienti dalla Bulgaria del Volga: “…Quanto alle merci esportate dalla Khoresmia esse sono le seguenti: pellicce di zibellino, di ermellino, di puzzola, di donnola, di martora, di volpe, di castoro, di lepre e di capra, come pure candele, frecce, scorza di pioppo gattice (per la diuresi), alti cappelli, colla di pesce, denti di pesce (zanne di tricheco), olio di ricino, ambra grigia (spermaceti), pelli di cavallino, miele, nocciole (Corylus avellana, frutto altamente apprezzato e diffuso nel consumo nel Medioevo), falchi (da caccia), spade (lame), armature (di cuoio e di metallo e le maschere visive), scorza di betulla (per ricavare estratti antidolorifici), schiavi slavi, becchi e vacche e tutto questo è d’origine bulgara…”

Naturalmente la fonte diretta di tutti gli articoli sunnominati, come è abbastanza logico e semplice, si procuravano nell’immensa foresta! Di quale foresta parliamo? Le ripartizioni del manto verde che ricopre in pratica l’89% della Pianura sono tante e i nomi altrettanti, ma noi, in maniera puramente indicativa, diciamo che stiamo parlando della parte centrale chiamata a nord Foresta dell’Okà e, un po’ più a sudovest dove c’era la Suzdalia, Foresta di Mešerà (da un’etnia bulgaro-turca che qui abitava prima dell’arrivo degli attuali Mordvini).

E partiamo dal prodotto forestale più tipico, più noto e più abbondante: il legno che dominò la cultura materiale del Medioevo per le costruzioni, per il riscaldamento, per fare arnesi e suppellettili e, quello di quercia, per fabbricare natanti e parti di essi oltre che le mura delle città per la sua resistenza al fuoco. Il consumo più grande era per fondere i metalli o per cuocere recipienti di terracotta, ma anche, come accadde più tardi, per fare i mattoni. Insomma era talmente necessario per i bisogni quotidiani che non fu quasi mai esportato, se non occasionalmente, ad esempio quando si costruì più a valle Saksin Bulgar, la città sorella poco a monte del delta e vicina a Itil dei Cazari, facendone fluitare lungo il Volga.

Nella foresta inoltre si trovano piante di diverso genere oltre quelle commestibili: le tintorie, le medicinali e quelle che conferiscono consumandole poteri magici (funghi allucinogeni come l’Amanita muscaria) e medicinali usate dagli sciamani locali. La raccolta dei frutti di bosco era una delle attività importanti pari solo alla coltivazione dei campi!

Se la selva era il pascolo per le bestie del limitato allevamento contadino da cui si ricavavano i latticini,  i Bulgari erano più famosi per saper lavorare la pelle bovina giovane che, conciata col tannino di betulla, diventava la cosiddetta “vacchetta” (yuft o yukht) per farne calzature militari e borse morbide dal profumo caratteristico!

E non basta! Ci sono altri animali utili all’uomo fra gli alberi. C’è la selvaggina con le ali o quella a quattro zampe a cui si dà la caccia. I piccoli carnivori specialmente vanno distinti, salvo per le parti commestibili, per la fitta e morbida pelliccia. Con le pellicce (eccetto quelle dell’orso o del lupo che erano ritenute bestie sacre) il cacciatore nordico fa abiti, manti e coperte per sé e per i suoi contro il freddo e, data l’enorme richiesta che arriva fin qui dal sud, ne rivende pure ai mercanti bulgari, tanta è l’abbondanza. Sono a decine di migliaia gli esemplari che andavano sui mercati del sud poiché la piccola taglia di tali animali costringeva a comprarne molti per fare un capo di vestiario come si deve. Questa caccia era un’attività economica e praticata con trappole, lacci e frecce (non acuminate per non rovinare il manto) rispettando i periodi di riproduzione e le variazioni dei colori del pelo nelle stagioni.

L’export delle pellicce pregiate era già una costante del mercato scandinavo nel nordovest d’Europa, ma, non appena nel IX sec. in quelle foreste cominciarono a scarseggiare zibellini, martore, ermellini e scoiattoli, fu giocoforza rivolgersi alla foresta di nordest ossia alla Pianura. Così cominciò l’avventura variaga nel Baltico. Al principio, come ci raccontano le saghe scandinave, si ricorse alla razzia, alle spedizioni armate, all’incendio di villaggi interi per raccogliere le pellicce senza prezzo, tanto da costringere le genti ugrofinniche a difendersi ricorrendo ai mezzi più impensati (agli incantesimi, dicono le saghe) e soprattutto evitando i contatti fisici con gli stranieri che non parlano la loro lingua.

Marco Polo racconta che “…gli uomini che abitano presso queste montagne (gli Urali) sono buoni cacciatori e pigliano di molte buone bestiole e ne fanno un grandissimo guadagno. Sono zibellini, vai,  ermellini e capre (le pecore qui non vanno bene) e volpi nere e molte altre bestie da cui si ricavano le care pelli. E le catturano in questo modo: Stendono loro delle reti e non ne può scampare neppure una…” Proprio per queste pellicce i suoi stretti congiunti, Niccolò e Matteo, erano venuti da queste parti! Attirati dalla possibilità di fare ricchi guadagni, vi si fermarono mentre vi risiedeva ancora il khan Berke. Poi, mentre si accingevano a tornare a Soldaia in Crimea diretti a Venezia, a causa di guerre nella steppa fra il Volga e il Don furono costretti a rifare all’inverso la strada percorsa dall’Asia Centrale fin qui e raggiungere il Mar Nero passando dal sud del Caspio. Sono vicissitudini comprensibili e accettabili, se si pensa al valore enorme degli articoli trattati. Né si comprava sic et simpliciter, ma con certi criteri tecnici.

Il trattamento con la salamoia (il sale, al-Garnati ci informa, era trasportato in Bulgaria con i barconi dal sud) o il taglio ben fatto della testa e delle zampe o la separazione delle parti in base ai colori della zona ventrale rispetto a quella dorsale erano le operazioni primarie. Al-Muqaddasi non nomina Bulgar per questo lavoro preparatorio giacché la messa a punto finale per la vendita era completata in Khoresmia. Anzi! Si tramandava la storia del Califfo al-Mahdi su come avesse standardizzato (già nel VIII sec. quando Bulgar ancora non era nel business!) un saggio di qualità molto affidabile per controllare le pelli di volpe nera comprate dai Burtasi per i suoi eleganti cappelli e vestiti. Ogni pelle era posta in un vaso. Il vaso era riempito con acqua e si attendeva una notte intera. L’indomani il vaso in cui l’acqua non era gelata conteneva la pelliccia  migliore!

Prezzi di mercato? Al-Mas’udi per la volpe nera riferisce prezzi da 100 dinar in su!

Altro articolo costoso e importante sono gli schiavi. Su di loro è bene cancellare subito l’idea di giovani maltrattati e simili anacronistiche concezioni poiché non si parla di schiavi prigionieri di guerra, ma di forniture di giovani ben fatti e in ottima salute e da trattare bene durante il lungo viaggio di trasferimento.

Era uso presso gli Ugrofinni e presso gli Slavi, già a partire dalle femmine nei matrimoni cosiddetti esogamici, la vendita dei figli in età pubere fuori del villaggio non appena questi per il loro numero diventavano un peso per l’economia famigliare. Vivendo di un pezzo di terra che di anno in anno si andava esaurendo, i raccolti andavano divisi col passar del tempo fra bocche sempre più numerose per cui ai giovani, invece di una vita grama in patria, si offriva l’alternativa di emigrare all’estero presso un buon padrone e, data la minore età, i genitori incassavano dall’intermediario un compenso pari a 20 o 30 dirhem. Oltre alla questione della resa agricola decrescente, ricordiamo che, in un periodo storico in cui la mortalità infantile e perinatale era molto alta, un gran numero di figli era sempre auspicabile nella grande famiglia nordica affinché la comunità non si estinguesse. Il clima rigido continentale in questo caso influiva sullo sviluppo o sull’assenza di certe malattie infantili e la selezione naturale dei sopravvissuti alla pubertà era un numero maggiore di individui che nel sud. Di qui una demografia tendenzialmente positiva e la necessità di liberarsi dei giovani in più “vendendoli” ad estranei che offrivano loro possibilità di vita meno precarie. Naturalmente ne venivano raccolti anche con la forza. Racconta Ibn-Rusté (prime decadi del X sec.) che questo era il metodo dei Rus che sbarcavano dai fiumi sulla riva e rapivano tutti i giovani che trovavano nei villaggi…

Il loro prezzo sul mercato moltiplicava molte volte il compensa dato ai genitori e spesso toccava il livello di più centinaia di dirhem per il compratore finale! Il traffico durò pure a lungo, sebbene alla fine del X sec., per quanto riguarda l’Europa occidentale, la richiesta di schiavi slavi significativamente scemasse, all’opposto di come continuasse invece nel Vicino Oriente.

I maschi spesso erano evirati dai medici circoncisori di Bukhara o di Samarcanda (ma anche a Verdun e a Praga si compivano le stesse operazioni) prima di arrivare al mercato e migliaia di eunuchi “slavi” servirono a Cordova in Spagna e a Roma dal Papa…

I ragazzi delle steppe, turchi e alani, erano preferiti invece integri nel corpo per destinarli al servizio militare, giacché in giovanissima età sapevano già cavalcare e tirar di arco. Assoldati come mercenari, se non erano pagati, si rivoltavano e, come accadde in Egitto nel XII sec., un gruppo di questi “schiavi militari” (mamluk in arabo) riuscirono ad impadronirsi del potere fondando la dinastia detta appunto mammelucca.

Quanto costavano? Alla sorgente da 70 a 100 dirhem più qualche centinaio di dirhem per la cavalcatura (più cari degli Slavi e dei Finni), ma i prezzi arrivavano alle stelle sul mercato finale. Riferisce Ibn-Hauqal: “Gli schiavi che valgono di più vengono dalle terre dei Turchi. Fra tutti gli schiavi del mondo i Turchi non hanno pari e nessun altro schiavo si avvicina a loro per valore e bellezza. Ho visto abbastanza di frequente schiavi-ragazzi venduti nel Khorasan per 3000 dinar! In tutte le regioni della Terra non ho mai visto ragazzi o ragazze schiavi che costino quanto questi, siano essi greci o altri in schiavitù.”

C’era anche un manuale (Qabus-nama composto nel Tabaristan) che raccomandava fra l’altro sull’acquisto degli schiavi di prendere in considerazione 3 aspetti: Riconoscere dai tratti del volto le buone e le cattive qualità, esaminare dai segni e dai sintomi se sono sani o malati e infine da che classe sociale provengono per decidere dove destinarli.

Un particolare tipo di schiavo che pure c’interessa per la sua presenza a Bulgar, era un certo tipo di prigioniero “di guerra” in realtà catturato non in uno scontro armato, ma in una razzia o addirittura che si era venduto da sé per un tempo determinato. Riconoscendolo come specialista e artigiano, chi lo catturava o lo assumeva gli offriva la possibilità di lavorare, evitandogli l’ulteriore invio in altri mercati o, nel peggiore dei casi, la morte. Più avanti ne ritroveremo…

Se gli schiavi si possono classificare per comodità fra i “prodotti della selva”, altri prodotti di gran pregio, erano il miele e la cera. L’abbondanza di api selvatiche non richiedeva grandi impegni per le strutture d’allevamento degli insetti e perciò la raccolta era un’attività abbastanza semplice.

Il miele andava naturalmente filtrato, separato dalla cera e da altri corpi estranei prima di metterlo in commercio ed era soprattutto usato per preparare una diffusissima bevanda alcolica del Medioevo, l’idromele, al quale accenna pure Ibn Fadhlan. Più raramente lo si usava come dolcificante e un uso abbastanza curioso era come dentifricio mescolato con l’aceto! Famoso e gustosissimo era il miele dei Baškiri ancora ai tempi di Giovanni IV di Mosca!

La cera anch’essa andava ripulita e era la materia prima per i candelai. Se si pensa alla richiesta di luce nelle chiese e nelle moschee, nelle regge e nelle case dei ricchi, si possono contare le candele a milioni di pezzi l’anno corrispondenti a varie tonnellate di materia prima. Se poi si rammenta la tecnica della cera persa per fabbricare oggetti di bronzo, le quantità diventarono ancor più consistenti e con la domanda in crescita quando i Tataro-mongoli arrivarono in Europa con gli specialisti cinesi e le prime armi da fuoco in bronzo.

E non sono tutti i Tesori della Terra dell’Oscurità (come li chiama la signora J. Martin) perché via Bulgaria giungono le zanne di tricheco, quelle di mammut (che al-Garnati le dice: …bianche come la neve e pesanti come il piombo…), la colla di pesce, le noccioline avellane e persino i famosi falconi da caccia, tanto amati da Federico II e da Vladimiro di Kiev! C’è pure l’albero halang’ menzionato da Marwazi da cui i Burtasi estraevano un succo medicinale portentoso che poi vendevano. In realtà si tratta del succo di betulla (hadzing in Ibn Fadhlan e kading in turco in cui d<l) benché il nome sia stato correlato alla galanga del Sudest Asiatico.

Seguiamo un mercante proveniente dal Baltico che torna da Bulgar dopo aver completato i suoi baratti. La rotta più corta e più frequentata è quella che segue fino all’Okà e la mantiene in direzione nordovest fino alle sorgenti del Dnepr e del Don e della Dvinà di Riga che, guarda caso, sono più o meno molto vicine fra loro. Su questa rotta deve mettere in conto di incontrare i finni Mari (Ceremissi) che dall’VIII sec. erano in continuo movimento alla ricerca di una situazione di vita migliore più a nord di dove oggi si trovano. E non erano persone molto gentili. La Storia del Khanato di Kazan (documento romanzato del XVI sec.) ritrovava i Ceremissi presso gli Udmurti e i Ciuvasci definendoli gente selvaggia e incolta da non lasciar tranquillo nessun viandante. Sono pregiudizi, ma non si deve d’altronde pensare che i mercanti trattassero sempre pacificamente con gli autoctoni quando la conclusione d’un affare non era stata soddisfacente. Di certo i mercanti si trasformavano facilmente in pirati e razziatori e, come abbiamo detto per i Variaghi, la fama dello straniero non era delle migliori. Quanto poi al famoso “commercio muto” fatto con gli Ugrofinni e coi loro congeneri, in realtà, oltre che evitare di farsi vedere, nascondeva lo sgomento dello straniero di fronte alle numerose e frammentate lingue locali. La storia del commercio muto entrava nel calderone delle favole raccontate per scoraggiare chi pensasse di mettersi in viaggio da queste parti a scopo di lucro e aveva radici molto antiche dato che già Erodoto nel V sec. a.C. ne parla!

Comunque sia, già nel Racconto di Alessandro Magno di al-Omari si narrano le cose più fantastiche e più spaventose sui popoli del nord e sul nord stesso, esagerando e mal interpretando le descrizioni, seppure veritiere, raccolte in loco dai soliti mercanti. Il nord era dunque un mondo insicuro e, ad esempio, ancora nel XIV sec., all’epoca del reverendo Stefano di Perm, i locali (Yura e Permiani-Zirieni) uccisero i monaci non appena li videro affaccendati a tagliare alberi per costruirsi un convento intorno a Lago Bianco. Sempre sugli Ugrofinni, altre storie anche più assurde ne raccolse sia fra’ Guglielmo di Rubruck nel XIII sec. sia fra’ Giuliano in cerca dei “parenti ungheresi” fra i Baškiri, che tanto nordici poi non erano. Gli autori arabi poi accettarono addirittura l’idea che gli Ugrofinni fossero le bibliche genti di Gog e Magog e che preparassero la fine del mondo! Eppure i commerci andavano…

A parte i dirhem, di cui abbiamo già detto, gli Ugrofinni (Yura) ricevevano dai Bulgari altri oggetti come asce da rifinire per l’uso nella foresta, lame di spade, vetro e gocce di vetro oltre a gioielli fabbricati giusto per i loro gusti e agli alimentari e alle granaglie. Quanto alle lame di spade al-Garnati racconta una strana storia e cioè che ogni anno i Visu dovevano gettarne nel Mare dell’Oscurità a mo’ di sacrificio al dio delle acque che in cambio vomitava sulla spiaggia un enorme pesce da cui si poteva cibare abbondantemente e farne riserva nella stagione scura un’intera famiglia.

Dal Mar Baltico il prodotto ambito e più famoso e ritrovato fra i gioielli della Khoresmia era l’ambra e qui c’è una curiosità che abbiamo raccolto dai documenti su come arrivava a Bulgar. L’ambra era sfruttata per emigrare in Bulgaria! Arrivavano Slavi e Balti da queste parti con le borse piene spacciandosi per artigiani che sapevano lavorare e lucidare l’ambra meglio di chiunque altro. Si muovevano di nascosto sulla riva del Kama per timore che, individuati come spioni, fossero prelevati con la forza e mandati chissà dove! Trovato chi garantisse loro vitto e alloggio, finalmente si mettevano al lavoro che infine richiedeva pazienza e olio di gomito piuttosto che competenza.

I Bulgari dal sud avevano portato con sé una grande tradizione agricola e sapevano utilizzare il terreno delle radure con le rotazioni dei campi o ricavare terreno nuovo dalla foresta col metodo del taglia-e-brucia. Usavano l’aratro (saban) e nelle loro fertilissime Terre Nere coltivavano le varietà invernali (a rapida crescita) delle tre granaglie più comuni: orzo, miglio e frumento che raccoglievano prima della fine di settembre. Se la pioggia in realtà era scarsa (massimo 420 mm all’anno ancor oggi), l’acqua del sottosuolo era abbondante e agevolmente raggiungibile coi pozzi e, tutto sommato, la produzione dava cereali talmente abbondanti da poterne fornire ai vicini con regolarità e salvarli nei momenti di carestia, come si legge nelle Cronache Russe per il 1024. “In quell’anno a Suzdal si ribellarono i sacerdoti pagani locali. Per un’istigazione diabolica e per azione degli spiriti maligni bastonarono un povero vecchio con l’accusa che aveva fatto incetta di provviste (proprio in un momento in cui) c’era grande confusione e fame in tutta la contrada. E la gente si recò in massa dai bulgari e di là portarono il pane e riuscirono a sopravvivere.” Né fu questa l’unica volta in cui si cercò salvezza dalla fame in Bulgaria giacché sappiamo che i Bulgari esportavano granaglie.

In un’agricoltura così fiorente trovava posto un allevamento tecnologicamente avanzato di animali domestici con tutti i suoi prodotti e, da quanto abbiamo già detto e diremo ancora più oltre, possiamo affermare senza tema di smentita che la Bulgaria del Volga fra il X e il XIV sec. rappresentò il più importante fornitore alimentare di tutta la Pianura. Molte parole russe che indicano la carne (si parla specialmente di carne equina) preparata in vari modi o il pesce di fiume conservato sono di origine turco-bulgara e, dobbiamo aggiungere, gli sforzi di Vladimiro nel trapiantare contadini da nord a sud di Kiev non furono sufficienti per sostituire il flusso di prodotti alimentari da Bulgar sulla via terrestre che, malgrado ogni vicissitudine avversa, restò in funzione in 20 tappe per molti anni (almeno fino al 1240!) garantendo la sussistenza alla città sul Dnepr.

Se volgiamo adesso l’attenzione alle importazioni, va fatta un’altra riflessione. L’import è solitamente un segno quantitativo dello sviluppo di una comunità perché, se è destinato al consumo locale, dà un’idea di come si vive così come, se è destinato tal quale alla riesportazione o viene rilavorato, indica invece lo sviluppo tecnologico raggiunto. In termini più semplici diciamo che il livello di vita, la ricchezza e il volume di un “mercato” in prima battuta è indicato dal tipo e dalla quantità delle importazioni definitive ossia delle merci, comprese le derrate alimentari, destinate al consumo immediato e finale.

In seconda battuta le importazioni temporanee ossia di merci destinate all’esportazione dopo rilavorazione parziale (abbellimento, raffinamento) o totale (trasformazione o incorporazione in altri oggetti) denunciano lo sviluppo tecnologico dell’esportatore e la sua affidabilità quantitativa (quanta roba può lavorare) oltre che qualitativa (come e quanto velocemente lavora).

Logicamente l’import si trova in stretta relazione con le situazioni politiche ed economiche presenti verso la metà del IX sec. e possiamo dire perciò che, mentre in Europa (nell’Impero degli Ottoni in oarticolare) si stava rafforzando il sistema feudale e sorgevano miriadi di centri di potere autonomi, nel Vicino Oriente l’Impero Abbaside dopo lo splendore in precedenza raggiunto andava frammentandosi.

La “polverizzazione” politica per il mercante era in certo qual modo positiva perché gli permetteva di aumentare il numero di clienti possibili per far concorrenza a vecchie classi mercantili ormai in involuzione, ma poi aumentavano i posti daziari dove si pagava il pedaggio. La Via della Seta diventò pertanto in quel periodo una strada di traffici dinamicissima per la presenza “politica” di prodotti destinati esclusivamente alle élites al potere che non badavano tanto ai prezzi elungo la quale le guerre e gli scontri in particolare furono spesso i seguiti di liti commerciali…

Iniziamo allora col prodotto più costoso che importato in Bulgaria veniva istradato verso il Mar Baltico: La seta! Essa proveniva dagli operatori khoresmiani di Samarcanda, di Bukharà, di Murgab e di Bactria da un’industria che aveva radici antiche, benché i bozzoli non fossero bianchi, ma giallicci e quindi di qualità certamente buona, ma un tantino inferiore a quella cinese. L’Armenia, il Kurdistan anch’esse esportavano sete in tessuti e gregge. Al-Istakhri non teme d’esagerare dicendo che i prodotti serici del Centro Asia erano i migliori al mondo! E non era un affare da piccole quantità, se teniamo presente che, in un solo colpo e riscontrando una certa esagerazione nei numeri, nel 917 Costantino VII Porfirogenito ricevé in dono dal Califfo 38.000 tendaggi, 12.500 vestiti di gala, 25.000 arazzi, 8.000 tappezzerie e 22.000 tappeti… tutti fatti di seta!

Il magico materiale che proteggeva dalla scabbia trasmessa dai porci (temutissima per il tormento del prurito e che forse portò all’evitare il contatto con questo animale in ambito semitico) era un prodotto di lusso riservato solo ai ricchi e ai potenti e, sebbene proseguendo per il Nord, da Bulgar via Novgorod, avesse lo svantaggio di richiedere consegne lunghissime per noi oggi inaccettabili, a quei tempi la lunga attesa era un elemento in più di esoticità e di domanda che per nulla faceva rinunciare o ridurre gli acquisti, malgrado la concorrenza di Costantinopoli (che pure ne produceva!) fosse meno lontana.

Nel nostro caso, e l’archeologia lo conferma, la seta procurava nel mercato bulgaro solo qualche guadagno in più perché poca ne veniva smistata localmente. Con la seta però viaggiava un mondo non solo di stoffe pregiate, ma di profumi, di spezie e di portentose medicine, di oggetti e di animali magici e strani che approdavano a Bulgar nel suo grande bazar. Questa è una parola persiana e indica il mercato dove l’élite bulgara passava la parte maggiore del giorno in cerimoniali, in sagre, in feste tipiche oltre che nell’attività di compravendita. Era il luogo più variopinto della città dove i potenti amavano farsi vedere dando spettacolo di ostentazione e sfarzo. L’astante è obbligato non solo a sostare e a ossequiare (inchinandosi e togliendosi il cappello!), ma soprattutto ad ammirare la parata di baldacchini, portantine ricamate, tappeti stesi per terra, donne velate, cappelli variegati e enormi, abiti con strascichi lunghissimi, flabellari con scacciamosche altissimi e parasoli dorati e ricamati. Non mancano i soldati con le loro armi scintillanti e, chissà, qualche elefante maestoso o delle linci al guinzaglio. E’ un vero e proprio circo ambulante che si muove danzando e cantando fra la gente ammirata, quando passa il potente di turno. La seta concorreva al luccicore così come le pellicce pregiate, i gioielli e le pelli conciate al succo di betulla.

Se procurarsi il cibo o costruirsi un riparo o vestirsi sono attività che la maggioranza dei Bulgari dell’epoca sapeva svolgere senza interventi tecnici esterni, per l’élite, custode divina dell’universo, il vestirsi e l’agghindarsi non serviva tanto a proteggersi dalle intemperie quanto piuttosto a mostrare alla società chi è che governa. Il vestito, la divisa, la livrea dicono a chi t’incontra “chi sei” e “che potere hai” in una società senza contro-poteri bilancianti e per questo sommersa in continui conflitti e aggiustamenti.

E’ normale pertanto che l’industria bulgara dell’abbigliamento fosse controllata dall’élite emirale, ma, se si ricorda che per l’incontro con Ibn Fadhlan il sarto di Almyš era venuto da Baghdad, è evidente che non c’erano sartorie e gli abiti importanti venivano già confezionati dalla Khoresmia! Né il sarto è da annoverare fra i normali artigiani, ma fra i servitori fidati perché è a contatto intimo con ogni parte del corpo del suo padrone. E’ il sarto che sceglie le pellicce, le stoffe, l’argento per borchie e per fibule e a lui e ai suoi gusti e modelli è affidata l’apparenza giusta del potente e per questo riceve persino… una cospicua parte dell’eredità, nel caso che il padrone muoia prima!

CONFERENZA SU “LA CRISI IN AFRICA”: RESOCONTO, FOTO E VIDEO

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“LA CRISI IN AFRICA”, SABATO 10 NOVEMBRE A BRESCIA

Sabato 10 novembre si è svolta a Brescia la conferenza su “La crisi in Africa”, organizzata da “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” in collaborazione con la Comunità Ivoriana di Brescia e l’Associazione culturale “Nuove Idee”.

I rappresentanti di diverse comunità africane hanno illustrato la situazione dei rispettivi Paesi (Senegal, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Mali, Repubblica del Benin) e si sono soffermati sulla situazione delle aree di crisi. I vari relatori hanno inquadrato i fenomeni di destabilizzazione dell’Africa – in particolare quelli della Costa d’Avorio e del Mali – nella “geopolitica del caos” di matrice statunitense, che nell’Africa subsahariana si avvale del collaborazionismo francese.

Il direttore di “Eurasia” ha indicato l’integrazione africana come una necessità storica, ostacolata dalla frammentazione politica del continente, dall’inadeguatezza delle classi dirigenti locali e dal neocolonialismo statunitense. Quest’ultimo non è motivato soltanto da ragioni d’ordine energetico (usufruire di almeno il 25% del petrolio africano), ma si spiega anche con un disegno geostrategico che ha almeno due scopi: prevenire la formazione di un asse afro-sudamericano e fare dell’Africa lo spazio di manovra per il rilancio della potenza militare atlantica nella contesa con le potenze eurasiatiche.
 

 

 

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