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“XI JINPING A MOSCA: L’INCUBO DI BRZEZINSKI E KISSINGER È APPENA DIVENTATO REALTÀ”. INTERVISTA A LEONID SAVIN

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Intervista a cura di Andrea Fais

 

La situazione in Siria sembra prossima ad un accordo tra le controparti. Alcuni osservatori lo considerano come una possibile nuova Jalta. La NATO non può proseguire nel sostenere il terrorismo per così lungo tempo, il governo turco rischia di diventare sempre più impopolare tra le masse e il “doppio criterio” morale occidentale in relazione al terrorismo è ora persino più lampante alla luce della recente missione militare in Mali. Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, Washington è costretta ad abbandonare i suoi piani nel Vicino Oriente e forse sarà costretta ad accettare un compromesso con la Russia. Cosa sta accadendo?

La situazione siriana mostra ora la crisi dei piani dell’Occidente e dei suoi alleati nel Vicino Oriente. Anzitutto uno scenario libico non era possibile in virtù del veto di Russia e Cina. In secondo luogo, la Siria ha una struttura di sicurezza migliore della Libia e può contare su un’alleanza militare con l’Iran da cui ottiene notevoli rifornimenti militari. Anche la Russia ha ceduto materiale bellico alla Siria oltre a notevoli aiuti economici. In terzo luogo, è diversa l’influenza in relazione ai fattori strategici e tattici. La Libia era accerchiata su due fronti da Paesi dove la cosiddetta primavera araba era già cominciata. La Siria può fare affidamento su Hezbollah in Libano e sull’amicizia del governo iracheno.

Il problema è invece rappresentato dalla Giordania e dalla Turchia dove si trovano i campi di addestramento dei ribelli. L’ultimo tentativo dell’Occidente è stato la creazione di un Comando Generale diretto da Salim Idriss con il decisivo supporto logistico e materiale della Croazia e della Libia attraverso la Turchia, la Giordania e il Libano così come di istruttori statunitensi e britannici. Sembra che tutti i gruppi miliziani possano disporre di circa 50.000 unità e questo costituirebbe una seria minaccia. Tuttavia, l’opposizione armata non è unita e ci sono diversi gruppi terroristici al suo interno. Così, questo progetto probabilmente fallirà, passando alla storia come il “Free Syrian Army” costruito dai servizi segreti della Turchia e degli Stati Uniti. Per di più l’Occidente ormai non ha margini per quanto concerne la propaganda e l’informazione di guerra.

Dall’altro lato, il governo siriano è ancora solido sebbene siano ancora presenti ondate di attacchi terroristici e gihadisti. Al momento i miliziani hanno buone possibilità di scappare e trasferire la guerra nel Mali dove vendicarsi contro l’Occidente secolare. Non hanno opzioni in Siria. Nella prima ipotesi saranno eliminati dalle forze governative e viceversa, dopo un eventuale successo (che è quasi impossibile), saranno sostituiti da pragmatici novizi che diventeranno i fantocci dell’Occidente. In ogni caso, la questione non chiama in causa un compromesso con la Russia, ma semplicemente il riconoscimento dei principi del diritto internazionale. E parlando di doppio standard, cosa dovremmo dire delle guerre dei cartelli della droga in Messico e in Colombia? Soprattutto in Messico, ai confini con gli Stati Uniti, e con gli aiuti forniti a Felipe Calderon da Washington? Migliaia di uomini e donne sono stati uccisi negli ultimi anni. In questa situazione Mosca ha un vantaggio primario. E anche la Cina.

 

 

La Russia e la Cina hanno giocato un ruolo determinante al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il loro veto ha impedito una guerra quasi certa e le conseguenze catastrofiche che questa avrebbe avuto nella regione. Durante l’ultimo vertice dei primi ministri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai a Bishkek, il vicepresidente afghano Karim Khalili ha richiesto il sostegno della Struttura Regionale Anti-Terrorismo dell’Organizzazione per il 2014, quando la coalizione occidentale ISAF abbandonerà il Paese. L’alleanza Mosca-Pechino sarà capace di neutralizzare il terrorismo e realizzare un vero piano di pacificazione dell’Afghanistan?

La Russia e la Cina stanno già facendo molto nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Inoltre, la Cina sicuramente farà il suo ingresso in questo Paese con le sue enormi capacità finanziarie, fondamentali per la ricostruzione e lo sviluppo. Dal momento che la Cina si muove secondo altri principi per quel che riguarda le politiche finanziarie e del prestito, i suoi sforzi avranno successo dopo l’attività disastrosa del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e delle società transnazionali occidentali. Anche l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) guarda all’Afghanistan, soprattutto in relazione al traffico di droga. Il terrorismo è un fenomeno duplice. In primo luogo ha natura politica. Se la politica locale cambierà complessivamente, non ci sarà spazio per le attività terroristiche. Molti esperti occidentali lo dimenticano. In questo caso, abbiamo bisogno di capire molto chiaramente che i principi “occidentocentrici” legati ai concetti di democrazia parlamentare e di diritti umani non funzioneranno mai in Afghanistan! Una società tradizionale come l’Afghanistan ha bisogno di un altro modello. Se parliamo di terrorismo inoltre dobbiamo tenere in conto che è un fenomeno di portata globale e la sua interconnessione è determinante. Dobbiamo esaminare tutti i possibili collegamenti, nodi e scali per individuare i centri ideologici, le fonti di finanziamento, i campi di addestramento e i nascondigli. L’Afghanistan è compreso tra il Pakistan, dove c’è un’analoga attività militante, e alcune repubbliche ex-sovietiche a maggioranza islamica. Dall’altro lato, c’è anche l’Iran che può giocare un ruolo determinante nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo. Ovviamente, quando le forze statunitensi abbandoneranno l’Afghanistan ci sarà una sindrome da combattimento per qualche tempo ancora. Ma dopo il caos seguirà comunque l’ordine.

 

 

I Salafiti arabi non sono i soli terroristi all’interno del mondo islamico. L’estremismo wahhabita mette in pericolo anche la Russia e la Cina specie a causa dell’attrazione che riesce ad esercitare su alcuni tatari della Crimea, su alcuni ceceni, su alcuni daghestani, su alcuni uiguri e su alcuni dungani. La manipolazione che queste sigle operano ai danni del vero Islam è ancora capace di coinvolgere molti giovani, come sottolineato dal presidente uzbeko Islom Karimov alcuni anni fa in relazione ai disordini di Andijan. Come sono percepiti i musulmani in Russia? Come “stranieri” o come “patrioti”? 

Sì, negli ultimi anni il wahhabismo è dilagato in diversi Paesi. Non solo in Asia, in Nord Africa e nel Vicino Oriente, ma anche in Europa e in Russia. L’Islam tradizionale in Russia non ha origini salafite. Il wahhabismo una setta salita al potere in Arabia Saudita col sostegno dell’Impero Britannico. Sul piano geopolitico osserviamo semplicemente la prosecuzione del Grande Gioco [la sfida tra Russia zarista e Gran Bretagna nel XIX secolo, ndt] nel XXI secolo, dove un ruolo ancora più attivo viene svolto dall’Arabia Saudita e dal Qatar (senza dimenticare che Al-Jazeera è stata creata con il sostegno britannico, soprattutto nella realizzazione di servizi speciali!). Queste petromonarchie sono ovviamente coinvolte nella guerra contro la Siria (sebbene rappresentino diversi punti di vista nel conflitto: il Qatar vuole fare tabula rasa, mentre l’Arabia Saudita è interessata a mantenere intatta la base infrastrutturale del Paese). Tornando alla Russia, posso dire che l’Islam qui presente è sunnita, stanziato nella Repubblica del Caucaso Settentrionale, nel Tatarstan e nel Bashkortostan, nella regione del fiume Volga. I due principali madhhab [scuole giuridico-religiose, ndt] sono quello hanafita e quello sciafeita. Tuttavia gli azeri (in Russia circa due milioni) sono per lo più sciiti. Nel Caucaso ci sono ordini sufici e confraternite (la Naqshbandiyya e la Qadiriyya sono le più famose) che si oppongono ai salafiti. Gli ordini sufici sono formati su base etnica, ma l’influenza wahhabita è presente anche nel Caucaso. Molti giovani aderiscono a queste sette perché non c’è bisogno di studiare e apprendere così tanto come nella tradizione sufica. E i salafiti sono sostenuti dall’Arabia Saudita con ingenti finanziamenti e con agevolazioni per il Pellegrinaggio a Mecca. Alcuni daghestani mi hanno detto che è molto facile sapere chi è sostenuto dai Sauditi. E non dall’apparenza o dal vestiario, ma dall’automobile! La ricchezza è l’arma dei Sauditi e molti poveri caucasici aderiscono al wahhabismo per arricchirsi. Come possiamo definire tutto questo? Religione in cambio di denaro o reclutamento sotto l’insegna del credo? Oltre ai militanti radicali, in Russia c’è un altro progetto alienante, che è l’”Islam soft” di Fethullah Gülen. Questi ha raccolto una rete di adepti della setta Nurjullar nelle repubbliche caucasiche, in Siberia, a Mosca e a San Pietroburgo. Ma questo movimento ora è fuori legge. La Turchia è ovviamente coinvolta in questa trama e ha utilizzato il movimento gulenista per scopi di infiltrazione. In sostanza l’idea principale è vecchia come il mondo: preparare una propria élite nei Paesi stranieri e dopo molti anni prendervi il potere. Questo tipo di “Islam soft” è prevalentemente panturchista. Credo che l’Islam radicale come progetto politico (Emirati del Caucaso) e gli sforzi di Gülen falliranno in ogni caso.

 

 

Cosa pensi della nuova dottrina strategica della NATO stabilita nel Maggio 2012? Credi che la cosiddetta Smart Defense rappresenti un obiettivo realistico e possibile o che invece sia soltanto l’ultimo tentativo dell’Occidente di non ammettere il declino dell’egemonia strategica statunitense e di non alzare “bandiera bianca” in tal senso?

Dobbiamo comprendere molto chiaramente che la NATO non è soltanto un’alleanza difensiva contro un nemico inesistente, ma anche un potente strumento degli Stati Uniti in Europa e all’estero. Per definizione, ad esempio la NATO non può esistere in Afghanistan e nella nuova dottrina vediamo un’idea di NATO globale che implica una dominazione globale del Pentagono con i suoi alleati europei. La parola “smart”, inoltre, è legata alla politica estera degli Stati Uniti. Joseph Nye e i suoi colleghi hanno proposto questa definizione per la nuova dottrina nordamericana ben prima della prima elezione di Obama. Non erano interessati a chi fosse il nuovo presidente, ma hanno sviluppato quest’idea per il nuovo capo. La Smart Defense è soltanto l’integrazione di hard e soft power, nel senso che le guerre e la brutalità continueranno al fianco di progetti paralleli di sorveglianza, interferenza, propaganda, manipolazione e cyberpolitica. Tuttavia, per l’Unione Europea il problema è costituito dai fondi a disposizione e dalle prospettive di innovazione tecnologica. In ogni caso, ogni singolo Paese è interessato ad ottenere una preferenza e i membri della NATO che hanno una propria industria difensiva sono intenzionati soltanto a fare affari dalla vendita di sistemi d’arma, equipaggiamenti e così via. Il progetto promosso qualche tempo fa in materia militare dal Gruppo di Visegrád [formato nel 1991 da Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia, ndt] è un altro esempio dello scetticismo nei confronti della NATO.

Penso che il tentativo di espansione dell’Alleanza Atlantica continuerà perché è la sola possibilità di integrare altri Paesi europei e non-europei nel proprio campo e di stabilire una dipendenza politica e tecnologica sui nuovi membri. La Russia è molto sensibile a questa espansione e pronta ad avviare contromisure adeguate. Oltre alla propria riorganizzazione e modernizzazione militare, stiamo aumentando l’esportazione di armi e altri progetti approvati pian piano nel quadro della CSTO e della SCO. Credo che anche nel quadro del gruppo dei BRICS avverranno processi analoghi in relazione alla sicurezza regionale, anche perché tutto ciò è stato ufficialmente annunciato all’interno della concezione di partecipazione della Russia nell’organizzazione, sancita dal presidente Putin alcuni giorni fa.

 

 

Sergeij Shoigu è uno dei personaggi più apprezzati in Russia per via della sua longeva attività al Ministero per le Situazioni di Emergenza. Dopo lo scandalo legato alla società Oboronservice, è diventato il nuovo ministro della Difesa. Le sue prime visite sono state in Cina e in Kazakhstan, ed inoltre ha avuto un positivo incontro ufficiale con il Partito Comunista di Zjuganov nello scorso mese di dicembre. Questi possono essere considerati segnali di un cambiamento nell’approccio strategico del governo russo? 

I cambiamenti stanno già avvenendo. La nuova dottrina di politica estera della Russia richiama chiaramente l’idea del multipolarismo. Un grande problema è ancora rappresentato dalla lobby liberale presente nel governo, che lavora per gli interessi dell’oligarchia globale e prova ad introdurre orientamenti atlantisti nel Cremlino. Molti liberali già sono diventati conservatori, perché è per loro più “pratico” ora che tutti capiscono chi è il Signor Putin e che Medvedev era soltanto un “trucco” per gli interlocutori occidentali. Tuttavia, siamo ancora sotto l’attacco dell’egemonismo occidentale che opera nel nostro Paese attraverso i rappresentanti della quinta colonna e della borghesia nazionale (che tradizionalmente è la base per la rivolta contro il cesarismo, per dirla con Antonio Gramsci). La manipolazione dei media è compresa nel programma come strumento di destabilizzazione. I conflitti già descritti nelle repubbliche del Caucaso possono essere innescati da potenze esterne, inoltre. L’Unione Eurasiatica ovviamente è un duro colpo per gli Stati Uniti. I politici e gli strateghi nordamericani sono spaventati anche dalle relazioni sino-russe, che tuttavia si sono già sviluppate e consolidate. Dopo la visita di Xi Jinping a Mosca nuovi accordi sono già stati sottoscritti ed entrambe le parti hanno confermato gli sforzi comuni nel piano di stabilizzazione del mondo. L’incubo di Brzezinski e Kissinger è appena diventato realtà.

 

 
 

 

 

*Leonid Savin è direttore editoriale della rivista russa “Geopolitika” (www.geopolitica.ru), membro del Centro di Studi Conservatori presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Statale di Mosca, collaboratore del portale “Strategic Culture Foundation” (http://www.strategic-culture.org) e direttore amministrativo del Movimento Internazionale Eurasiatico.

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IMPERIALIAM ȘI SUBDEZVOLTARE ROMÂNIA POSTCOMUNISTĂ ȘI LUMPEN-DEMOCRAȚIA

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Lumpen-democrația luminează lumea din periferia sistemului mondial modern numai că,lumina ei este întocmai celei date de un opaiț ce contrastează orbitor cu lumina policandrelor de cristal din centrul metropolitan.
 

 
Potrivit teoriei sistemului mondial, elaborată de sociologul american Immanuel Wallerstein, mondializarea sistemului distributiv de la plata tributului la un mecanism economico-financiar de extragere a plusprodusului în ”piața liberă mondială”reprezintă principalul eveniment al istoriei din ultimii 600 de ani. Începuturile sistemului mondial sunt legate de nașterea și evoluția imperialismului. Istoria devenirii imperialiste cunoaște patru cicluri fiecare durând în medie 150 de ani.Fiecare etapă istorică este urmată de războaie ale declinului care ruinează economia și ridică la rang de lider un nou centru și o nouă metropolă. Cea de-a patra putere imperială prezentă este cea a Statelor Unite care ocupă poziție dominantă la cârma sistemului după 1917.

Sub forma colonialismului, protoimperialismul apare după anul 1450, primele semne de consolidare fiind vizibile odată cu descoperirea Americii în anul 1492. Epoca marilor descoperiri, o expansiune geografică și colonială, s-a datorat capitalului genovez care își face simțită prezența încă de la începutul sec.al XIV-lea în portul Lisabona din Portugalia.Exploratorii lumii noi de peste mări sunt motivați de febra aurului iar conchistadorii comit masacre abominabile în rândul populațiilor aborigene. Colonialismul se definește drept o formă exclusivistă și antagonistă a unei puteri iar imperialismul modern informal este o formă inclusivistă și neantagonistă de expansiune pașnică folosind mecanisme și metode economice de dominație. Colonialismul a fost și o mișcare migraționistă stimulată de către un centru de putere în scopul înlocuirii sau lichidării unor populații indigene, a transferului de bogății și a comerțului cu sclavi dinspre colonie către metropolă. Neoimperialismul informal actual determină valuri de migrații inverse, dinspre periferie spre centru. Relațiile de dependență și dominație din cadrul sistemului mondial fac parte din scenariul imperialismului modern,un neoimperialism atipic care folosește ca strategie mecanisme și pârghii economice și financiare.

Noul imperialism este considerat de sociologul Giovanni Arrighi drept un ”imperiu informal”. Distincția dintre vechiul și noul imperialism constă în aceea că vechiul imperialism era orientat spre un control politic și militar al resurselor de energie și materii prime de peste mări. Aceste resurse indispensabile pentru menținerea și accelerarea procesului de dezvoltare economică au alimentat industria militară de tehnică și armament asigurând supremația metropolei în lupta pentru hegemonie mondială. În imperialismul formal rivalitatea dă naștere la concurență, la o luptă pentru supremație și război. Noul imperialism informal nu mai generează conflicte,statele lumii aflându-se într-o altfel de concurență, cea economică, a liberului schimb din care totdeauna va ieși învingătoare metropola reprezentată de marile monopoluri ale lumii care dețin ponderea capitalului și puterea. O astfel de concurență cu centru a semiperiferiei și periferiei, este una inegală.Chiar în formă schimbată, ceea ce contează în definirea imperialismului de orice fel este, potrivit socialistului George Lichtheim,relația de dominație și supunere. Economicul este o nouă armă atipică eficace în războiul pentru hegemonie asupra lumii. Dezvoltarea ca și subdezvoltarea este hotărâtă de cei care dețin puterea acestei lumi iar destinul omenirii este legat tot de cei care dețin controlul asupra mijloacelor financiare și materiale ale lumii. În trecut ca și în prezent scopul marilor puteri a fost și este dominația,doar metodele se schimbă. Un exemplu ni-l oferă situația României.

La 1 ianuarie 2007, România a aderat la Uniunea Europeană, un eveniment așteptat de majoritatea românilor cu speranță și încredere. Procedurile de preaderare au lăsat impresia că României i se face un mare favor, poate cel mai mare, după sfârșitul dictaturii comuniste. Aderarea a fost îmbrăcată în haine de gală și prezentată drept un panaceu universal menit să redreseze situația economiei aflată,după evenimentele din 1989, într-un rapid proces de degradare.

Dar nu a fost așa.În culisele de putere și în planurile politicii euroatlantice realitatea, necunoscută românilor, era cu totul alta.România trebuia să urmeze pașii care i se impuneau pe motivul sincronizării cu politicile U.E. și a unei compatibilități ca viitoare țară membră. Tranziția spre economia de piață,în fapt o tranziție spre necunoscut, a fost o tactică propagandistică menită să susțină distrugerea economiei.Tranziția, prelungită aberant până astăzi, ține loc unui program de dezvoltare care s-a dovedit a fi o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Europa nu avea nevoie de o țară în care industria și agricultura să funcționeze la parametrii europeni și care să întărească sistemul ei economic ci de o țară săracă, consumatoare, o piață de desfacere pentru țările dezvoltate care să nu producă și să nu exporte nimic. În România de azi este încurajată și plătită cu bani puțini, la limita subzistenței, nemunca. Aderarea ar fi trebuit să fie una a respectării drepturilor tuturor statelor membre indiferent de poziția sau trecutul acestora. Pentru România și Bulgaria regimul politic impus de uniune avea să fie altul, unul discriminatoriu. Cele două țări membre, aflate la periferia sistemului unional, au fost considerate state ”second hand ”, un fel de debara din dos a sistemului unional. În scurt timp, ele au devenit un debușeu al produselor de proastă calitate pe care țările occidentale le refuză, o groapă de gunoi a Uniunii Europene în care sunt depozitate reziduurile de toate felurile, o bază de transfer al capitalului autohton către marile companii transnaționale și o sursă de materii prime,în special fier vechi, rezultat din devastarea și lichidarea industriei comuniste în care a fost înglobată munca poporului român în aproape o jumătate de secol de dictatură. Prin cedări succesive de suveranitate, România a căpătat statutul nedorit de stat colonial, un stat satelit și nu unul cu drepturi depline al Uniunii Europene.

Politica puterii în relația cu Statele Unite și U.E.este una nefastă și executorie,ce amintește de perioada ocupației bolșevice de după 23 august 1944. Comisarii trupelor de ocupație ale Uniunii Sovietice sunt înlocuiți acum cu altfel de comisari, ai Uniunii Europene. Nimic benefic nu mai poate fi întreprins, inițiativa proprie este blocată și toate activitățile, în special cele privind alocarea fondurilor bugetare pentru dezvoltare sunt strict monitorizate. Orice abatere este sancționată drastic.Guvernanții au statut de guvernatori iar puterea nu le aparține decât în mică parte. Clasa politică este una servilă, interesată de propria îmbogățire și are un rol nefast pentru societatea românească. Partidele au o singură orientare, proeuropeană și proamericană. Guvernul execută ordinele venite de la Consiliul Uniunii Europene, FMI și Banca Mondială.Parlamentul este o anexă a legislativului european și dă legi în funcție de politica și interesele UE. Justiția aplică noile legi și coduri de legi impuse iar unde acestea nu sunt actualizate sau în concordanță cu legea comunitară, în actul de justiție intern se aplică cu prioritate dreptul Uniunii Europene. Odată cu subordonarea directă și necondiționată față de centrul de putere decizional de la Bruxelles, România pierde atributul de stat suveran și independent, pe care statul român, chiar și în dictatură, și-l păstrase cu mari sacrificii. Uniunea Europeană joacă rolul malefic al metropolei din teoria sistemului mondial și a dependenței, lansată de sociologii Immanuel Wallerstein, Andre Gunder Frank și Samir Amin, o teorie sociologică americană promovată de Școala de la Binghamton și de Grupulul de la CEPAL. Cei mai mulți dintre sociologii români consacrați, care dețin în prezent funcții în sistemul de putere, consideră, în termeni elevați, că România se află pe un drum bun și că ”tranziția”prelungită este un fapt inerent pentru o țară care, prin schimbarea de regim, păstrează nostalgic încă o ”grea moștenire” a centralismului etatic comunist. Numai că, acum, statul este unul neputincios iar din moștenirea comunistă, după douăzeci și doi de ani de democrație, nu a mai rămas nimic.Totul a fost distrus atât în industrie cât și în agricultură sau a fost vândut pe nimic pe motivul asigurării de la o zi la alta a subzistenței unui popor înfometat. Nimic nu s-a construit în acești ani de liberalism sălbatic asemănători domniei fanariote. Reacția statului nu a fost una de asigurare a protecției sociale prin înființarea de locuri de muncă, cum era firesc, ci de permanente și masive disponibilizări ale forței de muncă active, de înrobire și îndatorare a populației prin cele mai severe taxe și impozite din Europa. Și aceasta, pentru a asigura menținerea și prosperitatea organismului financiar mondial, a Fondului Monetar Internațional și a Băncii Mondiale.Aspectul României ”moderne” este unul dezolant, ca după bombardament. Construcțiile și halele industriale abandonate și devastate în mai toate localitățile țării dau impresia unui cataclism nuclear iar populațiile au părăsit masiv zonele foste industrializate migrând din disperare spre țări ale Europei occidentale. Alți sociologi români consideră că lipsa unui cadru legislativ adecvat a determinat stagnarea și regresul economic și social.

După părerea acestora, starea de anomie în care se găsește societatea românească contemporană reprezintă efectul social al încercării eșuate de a construi o economie de piață cu mentalități și atitudini specifice comunismului. Se apreciează că nimic nu se poate edifica pe un fundament al nisipurilor mișcătoare și că orice s-ar face,rădăcinile arborelui democrat-liberal rămân comuniste și își iau seva din fundamentul sistemului comunist, care tinde să renască din propria cenușă precum pasărea Phoenix. Guvernările marionetă ce se succed la putere par să nu țină cont de o astfel de teorie. Acum, după ce au epuizat tot ceea ce se mai putea vinde, epigonii au dispus scormonirea pământului și a fundului mării în căutare de noi resurse de energie și materii prime dar nu pentru industria românească, în fapt inexistentă.În goana lor după înavuțire, exploatarea resurselor strategice este înstrăinată către mari companii transnaționale care au în vizor în primul rând aurul românesc. Acest pământ mirific continuă să aibă resurse nebănuite dar, conform teoriei fataliste, nu noi românii, locuitorii acestor pământuri, suntem cei care trebuie să beneficiem de aceste daruri ale lui Dumnezeu, ci străinii.”Munții noștri aur poartă, noi cerșim din poartă-n poartă”. În tot acest timp, sociologi români, precum cei la care am făcut referire, transferă principiile teoriei fataliste promovate de Emil Durkheim și Robert Merton în actualitate, evident o actualitate postcomunistă, dând soluții de supraviețuire a indivizilor din spațiul carpato-danubiano-pontic numai dacă adoptă cele trei tipuri de conduite, descrise de Merton: conformismul, ritualismul și retragerea. Altfel spus, trebuie să ne supunem orbește democrației ca în fața unei fatalități, să ne întoarcem la plugul de lemn și să ne ascundem în grote sau să ne retragem spre alte zări de soare pline eliberând locul care așteaptă să fie populat de oameni mai ”dibaci” și cu bani, pentru care acest spațiu geografic este un adevărat rai. Cel mai periculos și mai pronunțat fenomen social care pune în evidență impactul distructiv democrato-liberal traumatizant asupra României este cel al dezrădăcinării populațiilor prin politica de încurajare a migrației.

Depopularea României a atins cote alarmante, nemaiîntâlnite. Există un exod de mari proporții, asemănător plecării în robie care rupe practic structura noologică a sistemului social. Fatalismul ca și anomia sunt caracterizate și determinate de lipsa unor valori sociale comune autentice, de absența unui ideal național, chiar mesianic, de clivajul modernism/tradiționalism și de impunerea forțată a unui mod de existență străin spiritului românesc. În prezent nimic din ceea ce leagă o societate și o armonizează nu este promovat. Tot ceea ce se întreprinde este făcut în scopul dezintegrării sistemului social și disoluției statului național unitar.

Integrarea europeană este pentru România o dezintegrare la nivelul sistemului social și etatic românesc. Dezvoltarea, în fapt inexistentă pe toate planurile, este o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Evoluția(?!), un recul șocant și traumatizant care aruncă România înapoi în istorie în epoca feudală târzie. Disperarea celor rămași în țară și care refuză să plece îi împinge pe aceștia din urmă de la oraș către sat în speranța supraviețuirii prin cultivarea pământului. Lipsa mijloacelor, însă, face ca această ocupație să rămână, la început de mileniu III, una rudimentară în care este folosită munca fizică și animalele de tracțiune. În aceste condiții agricultura românească rămâne una arhaică, de subzistență. Nu împărtășesc în niciun fel teoriile fataliste despre societate și om iar anomia, ca formă a dezordinii și dezintegrării sociale în absența legii, o abordez cu prudență. Starea prezentă a societății românești nu se datorează lipsei unui cadru legislativ ci din contră a unei abundențe de norme haotice și contradictorii edictate nu numai de puterea legislativă îndrituită să facă legile, ci și de guvern, printr-o confuziune aberantă între legislativ și executiv și o încălcare grosolană a separației puterilor în stat. Mai mult, prin acapararea puterii și influența politică exercitată asupra celorlalte puteri în stat, președintele conduce România spre dictatură, în mod paradoxal, o dictatură a unui regim democrat. Puterea alunecă în România spre așa numitul ”prezidențialism”. În aceste condiții este firească starea de repulsie și revoltă a cetățenilor României față de democrație, atâta timp cât ”puterea poporului”este exercitată împotriva poporului de către o structură oligarhică instaurată după 22 decembrie 1989 și divizată în două structuri de partid care alternează la putere, lăsând impresia existenței unui cadru democratic. Mai mult, prin măsurile luate, conducerea de stat este una antinațională favorizând acțiunile șovine, iredentiste și revanșarde care urmăresc dezintegrarea statului național unitar. Nu lipsa legilor este cauza unei inevitabile disoluții a statului ci lipsa voinței politice de a da legiile pe care poporul le așteaptă și care să se concretizeze într-o redresare a economiei, a nivelului de trai și o asanare morală a societății.

Există un aparat suprastatal cu rol de cenzor și care monitorizează întreaga activitate a societății,inclusiv structurile politice de putere democrate din România,care nu este altul decât Uniunea Europeană în strânsă legătură cu Statele Unite.Acestea din urmă își motivează intervenția în treburile interne prin”interesele” pe care le au și le apără în zonă.În aceste condiții este imposibilă o altă politică de urmat decât cea a celor două structuri hegemonice de putere,care își asigură supremația și dominația în Europa și în lume prin forța armată a singurului bloc militar existent care este NATO. Pierderea independenței și suveranității României este în primul rând un rezultat al prăbușirii sistemului comunist în 1989 și al dezintegrării Uniunii Sovietice în 1991.Sfârșitul războiului rece și desființarea Tratatului de la Varșovia la 1 iulie același an,a făcut posibilă hegemonia Statelor Unite la nivel european iar statele foste comuniste și-au pierdut practic independența intrând în sfera de influență americană și fiind obligate să urmeze planul de măsuri ultrasecret semnat de către Mihail Gorbaciov și George Bush la Malta în cadrul summitului bilateral din zilele de 2-4 decembrie 1989.Rusia a pierdul în acești ani cursa pentru supremație în lume și pentru apărare.Lumea a devenit din bipolară unipolară,fapt ce a permis Statelor Unite să hotărască singură asupra destinelor omenirii și să devină practic jandarmul mondial de temut pentru toate statele și națiunile lumii.Acest lucru îi permite să practice pe lângă un imperialism clasic și un imperialism modern,să ocupe politic,economic sau militar,state suverane și independente din Europa, Asia sau Africa. Practic,evenimentele în derulare în plan internațional după 1990,demonstrează cu prisosință că ne aflăm din punct de vedere geopolitic într-o nouă etapă de reconfigurare a hărții politice și administrative a lumii.

Ofensiva militarismului imperialist american se duce concomitent pe mai multe fronturi,urmărind în special ocuparea țărilor și a zonelor bogate în resurse energetice și a celor importante ca poziție strategică pentru continuarea și relansarea de noi ofensive în valuri ce au drept scop înfrângerea oricăror rezistențe politice și militare,indiferent de mărime sau potențial și, în final, asigurarea hegemoniei mondiale definitive. Au fost vizate, în parte ocupate, în special statele exportatoare de petrol precum Iran, Iraq, Siria, Libia care întrețineau sau întrețin încă legături economice cu Rusia și China și de unde acestea din urmă își procură necesarul de țiței pentru susținerea producției industriale.O eventuală ocupare a Iranului,de pildă, ar afecta grav economia Chinei care înregistrază în prezent un curs ascendent și nu pare să fie afectată de criza mondială. Această situație posibil critică este dată de faptul că cea mai mare parte din importurile de petrol ale Chinei provin din Iran,China fiind dependentă de petrolul acestei țări.Prin embargoul asupra exporturilor,prin presiunile politice repetate și amenințările cu agresiunea militară asupra Iranului, Statele Unite urmărește să blocheze accesul Chinei la resurse cu implicații directe asupra dezvoltării economiei și industriei de apărare.Țările ocupate,cum este și cazul României,unde se poate vorbi de o ocupație politică și economică,devin țări ”aliate”și sunt obligate să lupte și să dea tributul lor de sânge în teatrele de război americane pentru slujirea unor interese străine. Spuneam că nu sunt susținătorul teoriilor fataliste dar nici a conspirațiilor de niciun fel însă,războiul este unul în derulare care urmează pașii și etapele unui plan prestabilit și urmărit cu tenacitate.Războiul de agresiune actual nu mai este unul clasic ci asimetric și neconvențional care încalcă normele de drept internațional și nu respectă rezoluții ale Organizației Națiunilor Unite.Acest organism pe care îl consider desuet și caduc din punct de vedere juridic,și-a epuizat rolul pe scena politică internațională cu atât mai mult cu cât este finanțat de Statele Unite și implicit face politica acestei superputeri.

Vă propun în continuare o scurtă analiză sociologică în care România democrată de azi face obiectul cercetării epistemologice în domeniul sociologiei politice. Acest studiu de caz care readuce în actualitate ideea stratificării mondiale și a sistemului distributiv neoimperialist la scară globală este legat de teoria sistemului mondial și a dependenței.Reamintesc că,după 1989,țara noastră cunoaște o situație economică și socială deplorabilă și că se află într-un accelerat proces de degradare a structurilor economice și sociale și a vieții politice.
Neîncrederea în clasa politică și în democrație,în fapt o falsă democrație,se accentuează de la o zi la alta.Un fapt revelator este rezultatul înregistrat la referendumul pentru demiterea Președintelui României din 29 iulie 2012 când 7,4 milioane de români cu drept de vot s-au pronunțat pentru demiterea acestuia. Președintele actual în funcție este principalul pion în relația de subordonare cu Statele Unite,Uniunea Europeană,FMI și Banca Mondială.Relația diplomatică este una de pasivitate servilă și de executare necondiționată a dispozițiilor primite de la reprezentanții acestor mari puteri.Starea de înapoiere în care se găsește țara,un rezultat al politicii aberante a regimului democrat de ”dezvoltare a subdezvoltării” riscă să arunce România centrifugal din periferia sistemului mondial și european în rândul țărilor din lumea a treia sau să se dezintegreze ca stat național unitar,o primă fază constituind-o regionalizarea.Recentele și numeroasele manifestări violente de stradă antiregim din Grecia și Bulgaria, soldate cu demisia guvernului, demonstrează că situația critică din România nu este singulară și nu se datorează unor cauze interne proprii ci este determinată în mod direct de politica la nivelul sistemului mondial actual, care impune și întreține această stare ca mijloc de dezvoltare și bunăstare a centrelor metropolitane prin transferul de capital de la periferie către centru.

Potrivit teoriei lui Immanuel Wallerstein asupra sistemului mondial modern, o tetralogie asupra nașterii și expansiunii lumii moderne publicată în 1974,larg dezbătută și de alți teoreticieni ai globalismului, se constată o stratificare a lumii în centre,semiperiferii și periferii.Acest model de sistem al lumii moderne este viabil datorită unui punct de convergență care este centrul sistemului și care are rolul unui factor sistematizator. Centrul sistemului este locul cu cea mai mare putere.Această teorie comportă permanente adăugiri și reconsiderații,însăși sistemul fiind într-o dinamică permanentă. Fundamental,teoria rămâne însă valabilă și se constituie într-un punct de plecare al cercetării situației prezente în lume.Ea vine,de pildă,în sprijinul demascării inconsistenței statului minimal,o anexă liberală a sistemului mondial modern,care înlocuiește în periferie statul social, negând tocmai atributul care justifică prezența și rațiunea de a fi a statului în societate.Aplicând principiul liberalismului exacerbal a lui ” laissez faire” și ”laissez passer”, statul minimal este un rezultat al abandonului social, un stat neputincios, condamnat să supraviețuiască și să depună mărturie despre vremurile din urmă ale propriei lui dezintegrări. Amputat de pârghiile de suveranitate el va sucomba în cele din urmă la confluența cu doctrina marxistă care trâmbița, ca ultim fapt eschatologic pământean, dispariția statului în urma încheierii misiunii sale istorice și decretarea raiului pământean,în fapt sfârșitul istoriei. Până la atingerea acestui punct final al umanității, statul minimal, ca o lanternă roșie, slujește interesul sistemului mondial modern ca un veritabil ”paznic de noapte”. Dacă la centrul sistemului mondial se practică un ”keynesianism” intervenționist reglator,menit să asigure măsurile necesare echilibrului, dezvoltării și bunului mers al societății prin aportul coordonator direct al statului, în periferie statul este împiedicat să intervină în mecanismul pieței libere care se dezvoltă anarhic datorită prezenței marilor monopoluri transnaționale care dețin ponderea capitalului și controlul. Dirijismul etatic este înlocuit în statele din periferia sistemului de un control sever exercitat de organismele financiare europene și mondiale, Fondul Monetar Internațional și Banca Mondială. Mecanismul autoreglator cunoscut al cererii și ofertei este grav perturbat devenind inoperant. În aceste condiții statul minimal este un stat util centrului sistemului mondial asigurând starea de subdezvoltare a periferiei pe care,paradoxal,o reprezintă.Poziția statului periferic în societate este secundară, neimportantă, mergând până la excluderea acestuia dintr-o astfel de raționalitate.

România, până în 1989, era o țară în curs de dezvoltare, caracterizată ca o “societate multilateral dezvoltată”, cu o industrie proprie, care se găsea la limita superioară a semiperiferiei sistemului mondial modern. Această poziție favorabilă i-a permis să înregistreze constant indici de creștere economică,să reinvestească prin reducerea uneori severă a consumului și să-și asigure independența energetică. În decurs de numai câțiva ani a fost achitată în întregime datoria externă a României, un fapt nemaiîntâlnit dar care s-a constituit astfel într-un precedent periculos pentru sistemul financiar mondial, care își vedea periclitate sursele de îmbogățire și deconspirate mecanismele oculte de pauperizare a populațiilor și statelor lumii ,însăși rațiunea de a fi.România comunistă a făcut un joc politic și economic abil profitând de poziția de intermediar semiperiferic între metropolele centrului și țările subdezvoltate dar bogate în resurse,aflate în periferia sistemului mondial modern.Statul român intermedia înainte de 1989 conflicte politice ce păreau de nesoluționat,în spiritul dreptului legitim internațional și al promovării păcii în lume, construia adevărate punți de legătură între Occident și Orient, între țările lumii arabe sau africane, în Orientul Mijlociu, între Palestina și Israel. Politica externă a României făcea însă notă discordantă cu interesele internaționale ale marilor puteri care urmăreau să obțină beneficii prin promovarea unei politici de dominație și asuprire asupra altor state și nu prin liber schimb și avantaje reciproce.

După executarea lui Nicolae Ceaușescu,legăturile cu țările în curs de dezvoltare și din lumea a treia s-au rupt iar datoriile acestora,ca urmare a investițiilor făcute de țara noastră în contrapartidă, nu au mai fost recunoscute și nici recuperate.În scurt timp, ca urmare a politicii prădalnice a noului regim democrat,care a inițiat o dură ofensivă de distrugere și demolare a tot ceea ce poporul român construise sub regimul comunist, România a pierdut poziția câștigată în sistem și a plonjat brusc și iremediabil din semiperiferie la periferia sistemului. Teoria dependenței și subdezvoltării promovată de André Gunder Frank și cea a ”acumulărilor incapacităților dobândite” pe care le semnalează Samir Amin se verifică și în cazul României.Dacă în centrul sistemului financia mondial,reprezentat de FMI și Banca Mondială și de cele două metropole care asigură controlul politic și economic, Statele Unite și Uniunea Europeană,calitatea sistemului mondial modern este un factor de evoluție și dezvoltare,periferia aceluiași sistem, în care se găsește România,face obiectul impus al periferialității,suburbanității și pauperizării. Sistemul este evolutiv în centrul său metropolitan și devolutiv prin transferul de bunuri și capital într-un singur sens,respectiv de la periferie către centru. Din punct de vedere al ”dezvoltării”periferiei sistemul este involutiv. În plenitudinea lui sistemul mondial modern este sublim pentru metropolitani dar la periferie sublimul lipsește cu desăvârșire, așa după cum ridiculiza sistemul social,cu un umor fin, marele nostru dramaturg, I.L.Caragiale.

Așadar, sistemul mondial actual are un caracter dual: progresiv și pozitiv la centru vs regresiv și negativ la periferie.Sociologul american amintit conchide că efectul de subdezvoltare adus de expansiunea sistemului mondial,în cazul nostru de expansiunea Uniunii Europene prin politica de primire de noi membri,nu este în fapt un beneficiu sau o”dezvoltare durabilă”, cum încearcă să ne inducă în eroare propaganda unională, ci o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Situația economică critică prin care România trece, în special în perioada scursă după aderare, dovedește fără dubiu că ne aflăm în situația unui drenaj de capital către exterior cu destinația precisă a metropolei. Plusprodusul, atât cât se obține, în loc să fie reinvestit în țară este scos afară sub formă de prebendă și transferat în băncile străine sau sunt achitate dobânzi și rate ale împrumuturilor către FMI și Banca Mondială. Valoarea datoriei externe acumulate de România în perioada ”binefacerilor” sistemului democrat se ridică în prezent la 100 de milioane de euro fără posibilități viabile de rambursare ceea ce va permite marilor bancheri ai lumii să ceară recuperarea creanțelor prin vânzarea imobiliară de părți din teritoriu,așa cum s-a întâmplat în Grecia,unde au fost emise pretenții de cedare a unor insule precum Corfu.Iată așadar fața și mecanismul noului imperialism.

Legislația modificată în acest sens este deosebit de permisivă străinilor care pot cumpăra și vinde părți din teritoriu românesc, statul român fiind obligat, în accelași timp, să se supună hotărârilor instanțelor internaționale și europene privind execuția silită în cazuri extreme de insolvabilitate a statului român. Recentele preocupări ale Parlamentului și Guvernului privind noua împărțire teritorial-administrativă pe regiuni va ușura procedura înstrăinării de terenuri și va favoriza, prin transferul de atribuții către centrele regionale,autonomia teritorială și disoluția statului național unitar român.La momentul de față statele cu suveranitate limitată, aflate în periferia sistemului sau în suburbia uniunii,cum este cazul României,sunt văzute doar ca tip de structură organizațională în cadrul sistemului unic. Legile sunt unice și statele membre sunt obligate să se supună legislației comunitare unice. Teoria globalizării nu respinge teoriile regionale, ci chiar le reclamă.Sistemul mondial modern devine compatibil cu felul de organizare și coordonare a regiunilor rezultate din fragmentarea statelor naționale și chiar se poate vorbi de o ușurare a relației centru metropolitan-regiune. În acest sens, sistemul mondial somează regiunile să se organizaze conform teoriei stratificării mondiale sau a sistemului distributiv mondial care, după teoria marxistă, nu este nimic altceva decât ”acumularea mondială a capitalului”. Legea ”deficitului ontologic progresiv”a proceselor metropolitane spre marginile de expansiune dezvăluie o realitate dură și anume că la periferie sistemul se manifestă doar ca suburbialitate,o periferializare condiționată fără de care centrul nu se poate dezvolta și nici menține la nivelul de bunăstare materială și spirituală din prezent. Este de prisos să mai adaug că o astfel de repartiție injustă a rezultatului muncii oneste menține în periferie un nivel de cultură și civilizație mediocre care influențează în mod direct structura și funcționarea societății,educația,știința și morala.

Potrivit lui A.G.Frank și Johns Hopkins,expansiunea sistemului mondial generează un fenomen denumit ”dependență”,o stare economică, politică și socială care ascunde de fapt și întreține dominația centrului sistemului mondial față de periferie.Dependența este un rezultat al principiilor și mecanismelor liberale moderne ce promovează libera circulație a capitalului străin,libera concurență de pe poziții inegale și economia de piață favorabilă transferului plusprodusului de la periferie către centrul sistemului.Pentru înțelegerea mai clară a mecanismului de transfer al capitalului și de pauperizare a statelor din periferie, A.G.Frank introduce două concepte: ”lumpen-dezvoltare”și”lumpen-burghezie”. Termenul de ”lumpen”provine din limba germană, este polisemantic cu sens peiorativ și se traduce prin declasat, decăzut, degradant. Lumpen-burghezia reprezintă o clasă din centrul social al periferiei care își face apariția odată cu schimbarea de regim și care beneficiind de avantaje garantate de centrul metropolitan se constituie în instrumentul principal prin care este asigurată dominația și transferul de capital de la periferie către centru. Vilfredo Pareto prezintă importanța ”subeconomiilor redistributive” în transgresarea și translatarea frontierei sistemului mondial.
Acestea sunt constituite anume pentru a favoriza subordonarea economiilor naționale mecanismelor de funcționare a economiei mondiale. Formele pe care le îmbracă subeconomiile redistributive sunt: „comerțul de speculă, capitalismul prădalnic, comerțul cu monedele, enclavele economice, subeconomiile industriilor pentru export, economiile de plată a datoriilor, economiile de război și militare, economiile pentru produse de lux”. Aceste subeconomii sunt dirijate și protejate în periferia sistemului de către ”lumpen-burghezie”. Oligarhia democrată se identifică cu lumpen-burghezia și este o clasă privilegiată care deține puterea politică și economică în periferie cu sprijinul politic și în interesul puterii metropolitane din centrul sistemului mondial modern.

În România gruparea oligarhică, constituită după lovitura de stat din 22 decembrie 1989 din fosta nomenclatură comunistă și structura superioară a securității statului comunist,iar mai târziu și din prosperi oameni de afaceri și bancheri, este împărțită în grupul celor care dețin puterea politică prin alternare la guvernare și clientela politică, care deține de fapt puterea economică și financiară în statul periferic. Această lumpen-burghezie românească nu este una omnipotentă și nici nu reprezintă organizarea corporatistă a societății românești, ea intermediază numai transferul capitalului autohton și a plusprodusului către marile corporații și monopoluri aflate în centrul sistemului mondial modern. Ea joacă rolul unor adevărate elevatoare de capital dinspre periferie către centru. În acest scop au fost create trusturi și companii transnaționale,un adevărat suprasistem economic redistributiv.Politica economică de dependență și dominație forțată duce la ”lumpen-dezvoltare” adică o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Relația cu metropola generează sărăcie la periferie. Decapitalizarea statelor dominate reprezintă funcția caracteristică a neoimperialismului modern care este, în principal, unul economic favorizat de economia de piață și libera circulație a capitalurilor și nu doar un militarism imperialist. Statul din periferie este unul democrat,un garant al libertăților și drepturilor cetățenești. Dreptul suprem al omului este dreptul la viață,însă statul minimal nu este preocupat de viața cetățenilor săi.În condițiile mizere de sărăcie,impuse periferiei de către metropolă,speranța de viață scade vertiginos iar în centrul sistemului crește. Am considerat necesar ca această formă de organizare politică a societății în periferia sistemului mondial modern,în fapt o politică a subdezvoltării,care mimează democrația autentică din centrul sistemului occidental, să poarte un nume. Acesta nu putea fi altul decât ”lumpen-democrație”, adică o democrație declasată prin falsitate ca și cei care o promovează. Lumpen-democrația luminează lumea din periferia sistemului mondial modern numai că, lumina ei este întocmai celei date de un opaiț ce contrastează orbitor cu lumina policandrelor de cristal din centrul metropolitan. Democrația din metropolă ajunge în periferie total schimbată, distorsionată, schimonosită, unde ia forma unei dictaturi nu a poporului ci în numele poporului și împotriva poporului. Acest fel de democrație se exercită în statul periferic în mod tiranic și absolut fără niciun control din partea poporului care deși deține principala pârghie a democrației,care este votul, nu poate schimba decât guverne trecătoare, prometropolitane și nu regimul democrat.

Toate guvernele care s-au succedat la putere în România postcomunistă, indiferent de orientare sau doctrină politică, au făcut jocul nefast al politicii sistemului mondial și al marii finanțe mondiale. Lumpen-burghezia românească, constituită în forma unei oligarhii politico-economice adoptă orientări și politici care corespund imperativelor metropolei. Mimetismul politic este starea caracteristică periferiei sistemului mondial modern iar democrația se supune legii deficitului ontologic progresiv dinspre centru către periferia sistemului. Lumpen-democrația reprezintă o formă de organizare și conducere politică a societății din periferia sistemului mondial modern, în care puterea este exercitată de o grupare oligarhică cu sprijinul politic al metropolei, în scopul asigurării dominației și transferului capitalului și plusprodusului dinspre periferie către centrul dominant al sistemului mondial.

 

 

 

Referințe bibliografice
1. Immanuel Wallerstein, Sistemul mondial modern, Editura Meridiane, București, 1994
2. André Gunder Frank, Lumpen-bourgeoisie et lumpen-développement, Maspéro, Paris, 1971
3. Ilie Bădescu, Geopolitica noului imperialism, Editura Mica Valahie, București, 2012
4. Ilie Bădescu, Istoria sociologiei, Editura Eminescu, București, 1996

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L’AMERICA COLONIALE: ALCUNI ASPETTI ECONOMICI

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In un’intervista da me rilasciata all’illustre politologo Anaud Imatz per una rivista parigina di storia, alcune mie risposte mi sono sembrate incomplete per quanto riguarda l’aspetto economico dei tre secoli di dominazione spagnola in America. Per tal motivo ho deciso di redigere il seguente testo.

 

 

È noto che Cristoforo Colombo approdò sulle spiagge di Santo Domingo nel 1492 e che per 20 anni lo sfruttamento dell’America e degli americani è stata dura e crudele. È famoso il sermone del 21 dicembre 1511 di frate Antonio de Montesinos nel quale lo stesso accusa le autorità spagnole (“tutti siete nel peccato mortale e in esso vivete e morite a causa della crudeltà e della tirannia che avete usato nei confronti di queste innocenti persone”) e richiama l’attenzione del re e del governo spagnolo sulla situazione di sfruttamento degli indios americani, contraria agli espressi ordini di Isabella la Cattolica e inerenti la protezione della popolazione nativa.

Nei successivi 40 anni, fino alle assemblee di Valladolid nel 1550/51, la Spagna ha fatto lo sforzo più grande mai realizzato un popolo nella storia dell’umanità: scopre, conquista, colonizza e organizza politicamente ed economicamente un territorio di 20 milioni di chilometri quadrati.

Teniamo presenta la data delle assemblee di Valladolid in modo emblematico, perchè rappresentano il culmine di un processo di discussione sui giusti diritti che ha la Spagna sull’America e la condizione degli indios. In verità vennero analizzati i progetti o i modelli da applicare in America. Così Ginés de Sepúlveda sostenne che l’indio non è intrinsecamente negativo ma è la sua cultura a deviarlo. La conquista ottiene un fondamento morale. In contrapposizione Las Casas sostenne che le tradizioni indigene non sono più crudeli di quelle presenti nella Spagna del passato.

Si palesa anche il progetto di Pedro de Gante e delle sue scuole e quello di Vasco de Quiroga e delle sue città ospitali, che considerano l’America e i suoi indios come una sorta di paradiso terrestre. Infine abbiamo il progetto per l’America di Francisco de Vitoria e della sua scuola di Salamanca con teologi del calibro di Domingo Soto e Melchor Cano che cercano un’organizzazione giuridica dell’America e inaugurano il diritto internazionale pubblico.

Quest’ultima è la posizione adottata da Carlo V, che tra l’altro fu l’unico imperatore nel mondo che fece emergere seriamente e con determinazione il tema della giustezza dei suoi titoli di modo che, stando a Barcellona, era sul punto di rinunciare all’America.

Secondo il professore colombiano Luis Corsi Otálora, esperto in storia economica, l’America fu per la Spagna una “sangria economica”. Ma al di là degli investimenti puntualmente calcolati e stabiliti dal professor Otálora, vedremo come i fatti storici non la descrivono in questi termini[1].

La Spagna utilizzò in America il sistema del monopolio commerciale, con il quale si presentò come esclusiva titolare del commercio con l’America, ma non rappresentò mai la dipendenza commerciale dell’America verso la Spagna traducendosi nel gran paradosso economico americano.

Perchè l’America fu, da poco meno che dal principio della conquista e colonizzazione, autarchica. Si limitò a se stessa nella produzione alimentare e industriale.

Durante il regno di Filippo II si ridusse al minimo il potere marittimo spagnolo con il disastro dell’Armata Invincibile nel 1588. Si produce un secondo paradosso. La Spagna, la potenza mondiale dell’epoca, rimase senza marina per difendere le sue colonie e allo stesso tempo si evidenzia l’inizio del potere degli inglesi come “ i conquistatori dei mari”.

Questa perdita di potere marittimo spagnolo generò la crazione del regime dei “galeoni”, grandi navi che molto segretamente partivano, generalmente, da un porto unico (Santo Domingo nell’Atlantico o Manila nel Pacifico) ad un’altro (generalmente, Cádiz).[2]

Fu la struttura che incontrarono le autorità spagnole per difendere il traffico commerciale tra le colonie e le metropoli dalle azioni dei pirati inglesi, olandesi e danesi che infestavano i mari.

Tale riduzione del commercio ispanoamericano a una sola flotta annuale di galeoni ridusse involontariamente la dipendenza dell’economia americana dalla Spagna.

Alla difficoltà del trasporto si unì un’altra causa che fu la massiccia importazione di oro americano che produsse nel mercato spagnolo un incremento smisurato il valore della merce, ma così come l’oro era in poche mani, la fame e la poverertà si generalizzavano nella stessa Spagna.

Tuttavia, gli economisti spagnoli dell’epoca pensarono che l’innalzamento del prezzo delle merci fosse dovuto all’aumento dei prodotti spagnoli per l’America, con la quale limitarono l’esportazione all’indispensabile. Inizia l’America ad essere autosufficiente per soddisfare le necessità del mercato interno grazie alla moltiplicazione delle industrie.

Come ha affermato lo studioso Alfonso López Michelsen, che diventò presidente della Colombia: “La pace, la cultura e il progresso del nostro continente durante i secoli XVI, XVII e XVIII furono il frutto dell’intervento di Stati anti-individualisti in tutte le accezioni del termine[3]

 

 
 

L’imperialismo inglese e l’indipendenza americana.

Dalla metà del XVIII secolo i prodotti americani entrarono in competizione con i prodotti inglesi, ma con la Rivoluzione Industriale (l’impiego della macchina a vapore nella produzione delle merci e nel settore tessile su tutti) fece accrescere la produzione e a costi inferiori, di modo che l’unica necessità era sviluppare un mercato di consumo.

Nel 1783 l’Inghilterra riconosce come Stato indipendente gli Stati Uniti, che fissano tariffe doganali protezioniste per le loro industrie, cosicché, rispetto all’America, all’Inghilterra non resta che l’America Latina come potenziale mercato di consumo in cui collocare i suoi prodotti.

Dall’inizio del XVII secolo iniziò la penetrazione o lo smembramento dell’impero spagnolo in america da un punto di vista esclusivamente militare, ma tali azioni, in generale, furono rifiutate. La disfatta più ampia si ottenne con l’invasione da parte di Cartagena delle Indie (Colombia) nel 1741, quando l’ammiraglio Vernon, con una formidabile armata di 186 imbarcazioni (60 in più dell’Armata Invincibile), 2000 cannoni e 24600 combattenti, fu sconfitto da Blas de Lezo con 6 imbarcazioni e 3600 uomini e il forte di San Felipe. Gli inglesi persero 10000 uomini e 1500 cannoni. Ci furono 7500 feriti. Una ventina di imbarcazioni rimasero inutilizzate e molte furono incendiate a causa della mancanza di personale.

Nel 1805 si ebbe la sconfitta navale franco-spagnola di Trafalgar, che consegnò i mari nelle mani degli inglesi. Nel 1806 e nel 1807 si tentò la conquista militare di Buenos Aires, ma ancora una volta furono sconfitti. Nel 1807 diventò ministro britannico  della guerra Robert Stewart, che affermò: “ci si deve avvicinare come commercianti e non come nemici”.

A causa della guerra di Indipendenza della Spagna contro i francesi, venne firmato nel 1809 il trattato Apodaca-Canning, che fece ottenere alla Spagna l’appoggio militare inglese in cambio di agevolazioni concesse agli inglesi per il loro commercio in America.

Nel giugno del 1809 fu completato il porto di Buenos Aires delle navi inglesi completo di mercati e il vicerè Cisneros e Mariano Moreno (mentore dell’indipendenza argentina) in rappresentanza dei proprietari terrieri, aprirono il porto americano al libero commercio con l’Inghilterra.

Le conseguenze furono la distruzione dell’artigianato e dell’industria locale, il progressivo impoverimento della popolazione, la dichiarazione di un’indipendenza fittizia e l’interminabile guerra civile. In definitiva, il passaggio dal feudalesimo ispanoamericano all’imperialismo inglese.

 



[1] Corsi Otálora, Luis: Bolivar: impacto del desarraigo, Ed. Tercer mundo, Bogotá, 1983. Cfr. anche Independencia hispanoamericana ¿espejismo trágico?, Santiago de Tunxa, 2009

[2] Cfr. José Javier Esparza La gesta española, Ed. Áltera, Barcelona, 2007

[3] Löpez Michelsen, Alfonso: El Estado fuerte, Ed. Populibro, Bogotá, 1966, p. 17

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L’AMERICA LATINA DAVANTI ALLA SFIDA DELL’ENERGIA SOSTENIBILE

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Il 2012 è stato designato “anno dell’energia sostenibile per tutti” dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la quale ha colto l’occasione per richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul tema del rispetto dell’ambiente e dello sviluppo energetico sostenibile[1].

L’obiettivo che la comunità internazionale si è proposta di raggiungere nel corso dei numerosi vertici che si susseguono da circa un ventennio[2] è quello di garantire l’accesso energetico a tutti gli abitanti del pianeta[3]. Sebbene la diffusione dell’energia elettrica su scala mondiale ed il rispetto dei parametri internazionali sanciti nelle diverse Convenzioni internazionali sull’ambiente possano sembrare realtà inconciliabili, l’utilizzo di forme di energia sostenibili può rappresentare un valido strumento per risolvere i problemi legati alla crescente povertà nel mondo, alla crisi finanziaria mondiale ed alla futura mancanza di risorse per il sostentamento dell’intero pianeta[4].

La crisi finanziaria, che sta colpendo in particolare i Paesi occidentali, può costituire un’occasione per un punto di svolta verso un nuovo modo di utilizzare le risorse disponibili a livello globale. Il rapido sviluppo economico di alcuni Stati che si affacciano nello scenario internazionale, quali nuovi protagonisti dell’economia mondiale, può infatti rappresentare per l’Europa e per l’Italia[5] l’opportunità per aprirsi a nuovi mercati.

La crisi economica, che dal 2008 non accenna a diminuire, sta mettendo in difficoltà in particolar modo le economie dei Paesi europei. Trattandosi di una crisi prevalentemente finanziaria, analizzando il bilancio degli Stati occidentali emerge la presenza di uno scompenso nelle cd. attività detenute e un aumento delle passività. Tale situazione appare invece invertita per quanto riguarda i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che stanno accumulando riserve di valute straniere “forti”, come ad esempio i dollari americani, e al contempo registrano un afflusso di capitali dall’estero, con una conseguente crescita di investimenti diretti esteri e una riduzione del proprio indebitamento pubblico[6].

Oltre ai cinque Stati facenti parte dei Brics, tra le zone del mondo maggiormente interessate dal grande sviluppo a livello economico dei nostri giorni, vi sono i Paesi dell’America latina. E’ opportuno ricordare che questi ultimi stanno vivendo un periodo particolarmente favorevole non solo per quanto riguarda l’aspetto economico, ma anche per quanto concerne il consolidamento delle istituzioni democratiche all’interno dei singoli Stati. Grazie all’economia florida, le disuguaglianze dovute alla diversa distribuzione del reddito tra gli abitanti di numerosi Paesi dell’America latina stanno venendo via via attenuandosi a favore di un contesto di maggiore stabilità socio-economica[7]. Tale scenario geopolitico appare in netta contrapposizione con quanto sta avvenendo nei Paesi occidentali nei quali l’economia appare stagnante e dove le disuguaglianze nel reddito appaiono sempre più accentuarsi con la prosecuzione della crisi.

L’area sudamericana rappresenta oggi una delle regioni nelle quali lo sviluppo economico ha raggiunto livelli ragguardevoli e verso la quale si stanno orientando gli investitori dei Paesi occidentali. Il Brasile è senz’altro lo Stato che tra i Paesi dell’America latina ha svolto la funzione di principale attore nel mercato globale. Anche se la produzione non ha registrato un aumento costante[8], le prospettive di crescita economica rimangono comunque notevoli grazie alla domanda interna in continua crescita, a causa dell’aumento del reddito pro capite che ha visto coinvolta gran parte della popolazione brasiliana[9].

Oltre al Brasile, anche il Cile sta muovendo i primi passi nell’economia mondiale, si tratta infatti del primo Stato andino ad essere stato ammesso all’Ocse[10]. Gli interventi legislativi volti ad incentivare la libertà d’impresa e a snellire la burocrazia hanno permesso al Paese di diventare uno dei principali interlocutori sud americani nel contesto mondiale.

Appare opportuno sottolineare come alcuni Paesi dell’area sudamericana, che negli anni passati hanno conosciuto grandi difficoltà di tipo socioeconomico e proprio a causa di ciò sono considerati più vulnerabili agli attacchi speculativi, non hanno avvertito effetti minimamente paragonabili a quelli verificatisi nel continente europeo a causa dell’attuale crisi[11].

Se analizziamo le cause che hanno contribuito allo sviluppo economico dei Paesi sud americani, possiamo affermare che quest’ultimo è stato favorito in gran parte dai progressi che sono stati effettuati in vari settori dell’economia e non da ultimo, in quello energetico. Grazie all’estensione territoriale di alcuni Stati e allo sviluppo delle conoscenze tecnologiche, avvenuto in particolar modo in Messico e Brasile, si è proceduto ad una diversificazione energetica che ha portato all’utilizzo di forme di energia rinnovabili[12].

Secondo i dati registrati dall’agenzia delle Nazioni Unite ECLAC (Economy Commission for Latin America and the Caribbean), grazie alle energie rinnovabili prodotte nell’area sudamericana, si è prodotto l’equivalente di 1.284.164,0 milioni di barili di petrolio all’anno. Il principale produttore di energie rinnovabili è il Brasile, seguito da Messico, Venezuela, Colombia, Argentina e Cile. Tra le fonti di energia rinnovabili, il Brasile, l’Uruguay e l’Argentina hanno investito in particolar modo sul biocarburante. Inoltre, accanto alla produzione di biocombustibili, anche le risorse idriche hanno costituito un valido contributo per la produzione di energia alternativa[13]. In particolare, il Brasile ha sostenuto alcune tra le più innovative iniziative private nel settore grazie a finanziamenti pubblici, i quali hanno permesso di realizzare un progetto complessivo in cui si prevede un aumento di circa 25.000 MW della capacità di fornitura di energia idrica del Paese.

Oltre ai biocombustibili e all’energia idroelettrica, gli Stati sud americani stanno investendo sulla geotermia: alcuni Paesi, grazie alla loro collocazione geografica nella zona conosciuta come “anello di fuoco”, situata nell’Oceano Pacifico e nella quale si trovano la maggior parte dei vulcani del mondo, stanno pensando di sfruttarne l’enorme potenziale per la produzione di energia geotermica.

In conclusione, la produzione di energia alternativa e gli investimenti legati alle infrastrutture messi in atto presso alcuni Stati dell’America latina per rilanciare l’economia, associati alle risorse naturali presenti nel continente sud americano, potrebbero rappresentare un florido mercato per molte delle aziende europee ed italiane impegnate nella produzione di energia, come peraltro sta accadendo con Eni ed Enel[14].

Saper cogliere l’opportunità di investire in Paesi che hanno ancora molto da offrire sul piano energetico grazie alle risorse presenti sul territorio potrebbe significare dare inizio ad una politica economica volta al rispetto dell’ambiente, alla riduzione delle disuguaglianze sociali in aree del mondo nelle quali non vi è accesso all’energia ed al contempo, raggiungere alcuni dei cd. obiettivi del millennio promossi dalle Nazione Unite come ad esempio, garantire la sostenibilità ambientale e sradicare la povertà estrema. Inoltre, gli Stati di tutto il mondo si sono impegnati a perseguire tre obiettivi legati all’ approvvigionamento energetico entro il 2030[15]. In particolare, essi saranno tenuti a favorire l’accesso universale ai moderni servizi energetici e raddoppiare sia la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili, sia il tasso globale di miglioramento dell’efficienza energetica.

Alla luce di quanto esaminato appare chiaro che per uscire dalla crisi gli Stati europei saranno chiamati a scegliere l’innovazione e a trovare nuovi mercati nei quali operare. Solo attraverso una visione del futuro rivolta verso nuove frontiere e basata sulla piena collaborazione di imprese, istituzioni e governi nel rispetto dell’ambiente e dell’uguaglianza sociale sarà possibile raggiungere i risultati che gli Stati si sono impegnati a raggiungere. Gli obiettivi che ci si è proposti di conseguire a livello mondiale saranno realizzabili unicamente attraverso il superamento dei limiti imposti dal nostro sistema economico ed emersi sotto forma della crisi, tuttora irrisolta, che sta mettendo a dura prova gli Stati occidentali dal 2008 sino ad oggi.

 

 



[1]Le campagne promosse dalle Nazioni e da altre organizzazioni internazionali per promuovere l’utilizzo dell’energia sostenibile hanno avuto successo grazie anche alla collaborazione di numerosi Stati. Per avere maggiori informazioni sulle attività delle Nazioni Unite si rimanda al sito web: www.sustainableenergyforall.org/actions-commitments.

[2]Ultimo in ordine di tempo è il meeting sull’ambiente tenutosi dal 20 al 22 giugno 2012 a Rio de Janeiro (Brasile). Si rimanda al sito internet delle Nazioni Unite: www.uncsd2012.org

[3] Si legga in proposito la nota del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 31 luglio 2012, intitolata Sustainable Energy for All: a Global Action Agenda, A/67/175, consultabile al sito internet: www.unric.org/it/component/content/article/14-economic-and-social/27798-anno-internazionale-dellenergia-sostenibile-per-tutti-2012

[4] La dottrina si è occupata ampiamente del tema dello sviluppo sostenibile. In particolare sul tema si ricordano il contributo di Filippo Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, “Riv. giur. Ambiente”, 1998, p. 235 e ss., Mauro Politi, “Tutela dell’ambiente e “sviluppo sostenibile”: profili e prospettive di evoluzione del diritto internazionale alla luce della conferenza di Rio de Janeiro”, in AA.VV., Scritti degli allievi in memoria di Giuseppe Barile, Cedam, Padova, 1995, p. 447 e ss.

[5] Si segnala in proposito l’opera di Alessandro Colombo, Ettore Greco (a cura di), La politica estera dell’Italia, Edizione 2012, Collana Iai/Ispi”, 2012.

[6] Per approfondimenti si rimanda a AA.VV., BRICS: i mattoni del nuovo ordine, in Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici, XXIV, 3-2011 e AA.VV., Paolo Quercia e Paolo Magri (a cura di), I Brics e noi, L’ascesa di Brasile, Cina, Russia e India e le conseguenze per l’occidente, ISPI, 2011.

[7] Illuminanti sono le parole pronunciate dal Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, nel 2010 in merito alla situazione della classe media in America Latina: “A growing and vibrant middle class is a sign of good economic prospects in Latin America. However, Latin Americans in the middle of the income distribution still face serious hurdles in terms of purchasing power, education and job security. These groups still have some way to go to be fully comparable to the middle classes in more advanced economies”.

[8] Vedi ad esempio, il terzo trimestre del 2011.

[9] Per approfondimenti sull’economia brasiliana si rimanda al sito dell’OCSE: www.oecd.org/brazil/. Inoltre, si leggano Annabelle Mourougane, Mauro Pisu, Promoting Infrastructure Development in Brazil, OECD Economics, Department Working Papers, No. 898, 2011, OECD Publishing consultabile alla pagina web: www.oecd-ilibrary.org/economics/promoting-infrastructure-development-in-brazil_5kg3krfnclr4-en e Jens Arnold, Raising Investment in Brazil, OECD, Economics Department Working Papers, No. 900, OECD Publishing, 2011, pubblicato al sito internet: www.oecd-ilibrary.org/economics/raising-investment-in-brazil_5kg3krd7v2d8-en.

[10] Si rimanda al sito internet ufficiale dell’OCSE, nel quale è possibile reperire informazioni sullo stato economico attuale del Cile: www.oecd.org/chile

[11]Un esempio in tal senso è dato dall’Argentina la quale, in contro tendenza rispetto agli altri Stati sud americani, non ha registrato una crescita economica tale da far pensare ad uno sviluppo del Paese stabile e duraturo, ma ha raggiunto e mantenuto nella capitale Buenos Aires una media di crescita economica annua pari all’8%. Si legga inoltre, il rapporto dell’OCSE dal titolo Latin American Economic Outlook 2013
SME Policies for Structural Change
, Economic Commission for Latin America and the Caribbean, OECD Publishing , 11 Jan 2013.

[12] Si legga Manlio F. Coviello, Juan Gollán y Miguel Pérez, Las Alianzas Público-Privadas en Energías Renovables en América Latina y el Caribe, CEPAL, 2012, consultabile in formato PDF al sito internet www.eclac.org/publicaciones/xml/3/46743/Lcw478e.pdf.

[13] Riguardo alla produzione di energia idroelettrica in Cile si legga il report dell’ECLAC, dal titolo: Análisis de la Vulnerabilidad del Sector Hidroeléctrico Frente a Escenarios Futuros de Cambio Climático en Chile, CEPAL, 2012, consultabile in formato PDF al sito intenet: www.eclac.org/publicaciones/xml/0/49060/AnalisisDeLaVulnerabilidad.pdf

[14]Per approfondimenti si rimanda al sito dell’Eni nella parte relativa alla sostenibilità: www.eni.com/it_IT/sostenibilita/sostenibilita.shtml e a quello dell’Enel per le notizie relative agli investimenti in Sud America: www.enel.com/it-IT/media/news/con-enel-cresce-la-capacita-energetica-in-sud-america/p/090027d981a1ac4e

[15]Si veda il sito internet delle Nazioni Unite dedicato agli obiettivi del millennio e consultabile alla pagina web: www.un.org/millenniumgoals/

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DIECI ANNI FA, LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO

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Dieci anni fa, esattamente il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti, insieme con la Gran Bretagna, davano inizio alla Seconda Guerra del Golfo. A nulla valse l’opposizione della Francia, della Russia e della Cina, gli altri tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (un’organizzazione che confermò di non essere, né di poter essere, un autentico “attore geopolitico”, in grado cioè di far valere una propria visione politica, o se si preferisce in grado di far valere il punto di vista della comunità internazionale anche contro la volontà di quella che oggi è la potenza predominante). Peraltro, gli Stati Uniti, consapevoli di poter contare a priori sul sostegno del circo mediatico occidentale, aggirarono ogni ostacolo inventandosi che Saddam possedeva armi di distruzione di massa e accusando il regime iracheno addirittura di complicità nell’attentato dell’11 settembre 2001. Fu quindi facile per gli Stati Uniti sostenere la necessità di una guerra preventiva contro l’Iraq, onde garantire la sicurezza della comunità internazionale, nonostante che già allora fosse evidente sia che Washington stava accusando l’Iraq senza alcuna prova, sia che l’attentato dell’11 settembre aveva fornito l’occasione a Washington di intervenire militarmente in Afghanistan, con il pretesto di distruggere il gruppo terroristico di Al Qaeda, guidato dal saudita Osama Bin Laden.

Ben altro, infatti, era il vero obiettivo degli Stati Uniti, che, come ebbe a rivelare, nel 1998, l’ex direttore della Cia, Robert Gates, avevano cominciato ad appoggiare l’opposizione al governo di Kabul perfino prima dell’intervento sovietico; un’operazione che, secondo Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente Jimmy Carter, aveva avuto «l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana» (1). Né sfuggiva agli statunitensi che l’Afghanistan è da sempre un crocevia fondamentale tra Cina, India, il Medio Oriente e l’Europa. Un “territorio” ancora più importante dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, dato che la fine del bipolarismo offriva agli Stati Uniti la possibilità di raggiungere lo scopo che almeno da un secolo tentavano (e tentano tuttora) di conseguire. Ovverosia l’incontrastata supremazia globale, basata su una dittatura di mercato “non evidente”, benché reale, in quanto celata, più o meno bene, dalla foglia di fico della “democrazia liberale” e “veicolata” dall’american way of living. Di conseguenza, da un lato, era essenziale per gli Stati Uniti liquidare tutto ciò che poteva ostacolare la formazione di una nuova società di mercato in funzione di una globalizzazione contraddistinta dalla “colonizzazione mercantile” di ogni mondo vitale e di ogni ambito sociale. Dall’altro, però gli Usa dovevano ridefinire gli equilibri mondiali in una prospettiva “americanocentrica”, sia mediante una ristrutturazione della Nato, al fine di ancorare definitivamente l’Europa all’Atlantico (un compito reso estremamente meno difficile dal tradimento della sinistra europea e dal fatto che l’oligarchia tecnocratica e “affaristica” del Vecchio continente poté sfruttare la riunificazione della Germania per mutare “in radice” il significato  politico dell’Unione Europea), sia mediante il controllo diretto del “cuore” dell’Eurasia.

Non sorprende allora la decisione di aggredire l’Iraq di Saddam Hussein, tanto più se si considera la relativa facilità con cui gli statunitensi avevano vinto la Prima Guerra del Golfo nel 1991. Una vittoria che pareva dar ragione a quegli analisti che ritenevano che l’aviazione e la superiorità tecnologica consentissero agli Stati Uniti di imporre la propria volontà a qualunque nemico, trascurando l’importanza dei “fattori culturali” (che invece si devono sempre tenere in considerazione, e proprio sotto il profilo politico-militare, come insegna la storia militare) e delle caratteristiche, non solo fisiche ma anche geopolitiche, di un determinato “territorio”. Comunque sia, anche se la Seconda Guerra del Golfo terminò nel giro di tre settimane, gli Stati Uniti, dopo la caduta del regime di Saddam, ancora una volta, come in Corea e soprattutto in Vietnam, furono incapaci di far sì che scopo politico e obiettivo militare fossero convergenti. E con il passare degli anni questa “forbice” continuò ad allargarsi, tanto da indurre Obama ad ordinare un ignominioso ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq.

Nondimeno, l’esercito nordamericano si è lasciato dietro una spaventosa scia di sangue, una catena orrenda di crimini e violenze di ogni specie, che hanno causato centinaia di migliaia di vittime che si sommano alle vittime causate dall’embargo imposto dall’Onu dopo la Prima Guerra del Golfo, e che provocò conseguenze gravissime per la popolazione civile, in particolare bambini e malati privi di medicine. Sarebbe però del tutto errato interpretare il ritiro dell’esercito statunitense dall’Iraq come una rinuncia della potenza capitalistica predominante ai suoi progetti di egemonia mondiale, ché anzi gli Usa sono ancor più decisi ad impedire che si possa dar vita ad un autentico “ordine multipolare” e devono necessariamente controllare il maggior numero di “posizioni dominanti”, sotto l’aspetto geostrategico, in vista della sfida con la Cina. Del resto, non è certo un caso che, da circa due anni, in Siria si combatta una durissima guerra che vede contrapporsi all’esercito della Repubblica araba socialista della Siria – ed al popolo siriano fedele ad Assad – delle bande armate e dei gruppi di islamisti, che comprendono numerosi mercenari e terroristi stranieri, finanziati e supportati dalle “petromonarchie” del Golfo (ma sarebbe più corretto denominarle “petrodittature” del Golfo). Ossia da Paesi che sono tra i principali alleati dello Stato nordamericano, che sembra essersi reso conto che non può fare tutto da solo e che deve cedere delle “quote di potere” ad alcuni gruppi “subdominanti” , al fine di evitare i pericoli derivanti da una “sovraesposizione imperiale”.

In sostanza, siamo in presenza di una nuova strategia che si fonda su un “approccio indiretto” anziché sullo scontro frontale, e che quindi  può rischiare di “giocare la carta” dell’islamismo contro l’Islam (2) (e la stessa eliminazione di Bin Laden si dovrebbe interpretare in questo senso). D’altronde, è noto che in ogni Paese vi sono delle divisioni di carattere etnico, religioso, sociale o ideologico che è possibile sfruttare, per favorire rivoluzioni colorate o per promuovere delle rivolte armate “eterodirette” o comunque guidate “dall’esterno”. Gli esempi purtroppo non mancano, basta pensare alla “primavera araba” in Egitto, alla ribellione dell’oligarchia islamista bengasina contro la Giamahiria di Gheddafi o alla rivolta contro il regime di Assad. Mutatis mutandis, lo scopo è sempre il solito, cioè «cambiare il regime di uno Stato avversario od occupare un territorio straniero, finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati». (3). E lo spiega chiaramente il documento strategico del Pentagono del 30 settembre 2001, secondo cui gli Stati Uniti devono intervenire ogni volta che vi sia «la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi», e in particolare qualora vi sia «la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». (4)

In definitiva, il fallimento politico-militare in Iraq (e pure quello in Afghanistan, dove gli statunitensi devono usare i droni per combattere dei nemici fortemente radicati in un territorio che conoscono perfettamente, anche se possiedono solo “archi e frecce” per opporsi alla gigantesca macchina bellica della Nato) ha convinto Washington a considerare l’occupazione di un territorio solo come l’extrema ratio e a delegare ad altri “attori” la funzione di rappresentare gli interessi degli Usa nelle diverse aree del pianeta. Il che però fa aumentare il rischio di dipendere da personaggi come il “petrodittatore” del Qatar o da loschi figuri come Hashim Thaci, il “boss” dello Stato “mafioso” del Kosovo (5). Ne consegue che facilmente gli eventi possono prendere una direzione imprevista, dal momento che, facendo leva su “quinte colonne” per destabilizzare un Paese o anche per far cadere un regime amico, ma di cui non ci si fida più (anche semplicemente perché considerato non più “utile” o troppo debole e corrotto), è inevitabile che si rischi di perdere il controllo della situazione. Non si deve dimenticare però che gli Stati Uniti hanno una notevole esperienza in questo genere di “operazioni”, sia pure in un continente distante dall’Eurasia. Ci riferiamo naturalmente all’America Latina, il cosiddetto “cortile di casa” degli Usa. Tanto che quando George W. Bush, dopo l’attentato dell’11 settembre, dichiarò  guerra al “terrorismo internazionale”, George Monbiot (editorialista del “Guardian” e docente universitario) ebbe a scrivere che il presidente degli Usa avrebbe dovuto prima di tutto dichiarare guerra proprio agli Stati Uniti, dato che da decenni gli Usa gestivano un campo di addestramento terroristico – denominato, fino al gennaio 2001, “Scuola delle Americhe” – che a partire dal 1946 aveva addestrato oltre 60000 poliziotti e soldati dell’America Latina, tra i quali parecchi “illustri” torturatori, assassini, dittatori e terroristi del continente americano. (6)

D’altra parte, la gigantesca macchina da guerra statunitense (o, se si preferisce, “occidentale”) comprende una miriade di “quinte colonne”, tra cui si devono annoverare non poche Ong e soprattutto i media mainstream. Sono stati infatti questi ultimi ad essere “in prima linea” al fianco dei militari statunitensi in Iraq (facendo apparire, nel migliore dei casi, la guerra d’aggressione degli Usa e le stragi di civili iracheni come una questione su cui era ed è possibile avere punti di vista diversi – sempre che, s’intende, non si osi dubitare della bontà della “missione” degli Usa nel mondo, dato che secondo i media occidentali è indubbio che gli statunitensi spendano centinaia di miliardi dollari ogni anno unicamente allo scopo di difendere la democrazia e i diritti umani in ogni angolo del globo). E sono i media occidentali, che ora sono “in prima linea” contro la Siria di Assad, ad avere svolto un ruolo decisivo anche nell’aggressione contro la Serbia (il bombardamento “democratico” della Nato contro la Serbia, al quale diede il suo contributo pure l’Italia di Massimo D’Alema – uno dei tanti “compagni italiani” convertitisi al servilismo filo-atlantico” – s’iniziò il 24 marzo del 1999, esattamente quattordici anni fa) e nel (fallito) golpe del 2002 in Venezuela. (7) “Legioni” di gazzettieri e intellettuali al servizio dell’oligarchia occidentale, sempre pronti ad usare “due pesi e due misure” e capaci di inventarsi dittatori che massacrano la propria gente ma che non si vergognano – pur di favorire la “reazione”, adesso che Chavez è scomparso – di non ricordarsi che, quando Chavez, nel 1992, con altri ufficiali bolivariani tentò di fare un colpo di Stato, al potere vi era “un tale” Carlos Perez. Vale a dire il politico venezuelano che aveva portato il suo Paese al disastro sociale ed economico – seguendo un “modello neoliberista”, non molto dissimile da quello che oggi viene imposto dalla cosiddetta “troika” (Ue, Bce e Fmi) – e che non aveva esitato a ordinare di sparare contro il proprio popolo (fonti ufficiali parlano di 200 morti, ma probabilmente furono più di 2000), ribellatosi perché stava letteralmente morendo di fame.

Tuttavia, né l’azione dei vari “scagnozzi” degli Usa né l’accanimento dei media occidentali contro l’America Latina di Chavez, di Morales o della Kirchner hanno potuto impedire il diffondersi e il rafforzarsi nel continente americano di una concezione e di una prassi politica decisa a contrastare la prepotenza degli Stati Uniti. Come non hanno potuto aver ragione né della “resistenza” della Siria di Assad né di quella dell’Iran di Ahmadinejad e degli ayatollah. Sotto questo aspetto, l’umiliazione inflitta alle truppe statunitensi in Iraq (e in Afghanistan) “gioca” a vantaggio di chi continua a battersi contro gli Usa e la dittatura di mercato, traendo profitto dalla riluttanza degli Stati Uniti ad impegnarsi in un altro conflitto. Si può dunque affermare che l’aggressione contro l’Iraq, indipendentemente dalle critiche che si possono (e si devono) rivolgere al regime di Saddam Hussein, è diventata, in un certo senso, il simbolo della tracotanza degli Usa e di quella dei gruppi di interesse che gli Usa difendono e rappresentano, nonché della “miseria”, umana e intellettuale, dei loro zelanti servitori, pagati profumatamente per giustificare le ingiustizie peggiori e i delitti più efferati. La tragedia dell’Iraq è diventata insomma il simbolo della barbarie atlantista, della volontà di potenza di uno Stato talmente ebbro di violenza e di perversioni, da ritenere l’intero pianeta una sorta di “oggetto-sé” (per usare un termine tecnico della psicoanalisi). Ma la tragedia dell’Iraq, proprio come quella del Vietnam o quella dell’Afghanistan, ha confermato – al di là di ogni altra considerazione, per quanto corretta possa essere – che un Paese non disposto a farsi colonizzare può sempre “farcela”. E’ una lezione che numerosi Paesi sembrano avere ben appreso, a cominciare dalla Siria, ma che pare invece essere quasi del tutto ignorata in Europa, al punto che non è forse azzardato pensare che anche per questo motivo il Vecchio continente stia precipitando nel baratro di una crisi che, non a caso, non è tanto una mera, ancorché gravissima, crisi economica, quanto piuttosto una crisi (geo)politica, sociale, economica e culturale.

 

 

 

1) “Le Nouvel Observateur”, Parigi, n.1732, 15/1/1999.

2) Al riguardo si veda L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia”, 4/2012.

3) Manlio Dinucci, Sotto il corridoio afghano, “il manifesto”, 18/10/2001.

4) ”Quadrennial Defense Review”, 30/7/2001 (notare la data di pubblicazione).

5) Si veda l’ottimo articolo di William Engdahl, http://www.eurasia-rivista.org/la-bizzarra-strategia-di-washington-sul-kosovo-potrebbe-distruggere-la-nato-giocare-con-la-dinamite-e-la-guerra-nucleare-nei-balcani/15205/.

6) Vedi Massimo Bontempelli e Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia, Editrice C.R. T., Pistoia, 2001, p. 81 e ss .

7) Un documento di notevole valore, a tale proposito, è il video “La Rivoluzione non sarà teletrasmessa” che «mostra nei dettagli tutte le fasi della manipolazione mediatica svolta dalle cinque tv private venezuelane e il ruolo decisivo della massiccia reazione popolare che impedì il progetto oligarchico-statunitense» (http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=6746).

 

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“PER UN CASCO DI BANANE”. LIBERTÁ E REALPOLITIK

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Nel suo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (2007), Luciano Canfora sostiene che la propagazione dei valori universali della libertà e della democrazia non è possibile. Storico dell’antichità e filologo classico, Canfora è uno degli studiosi più autorevoli a livello internazionale nel campo degli studi dell’antichità classica. Tuttavia egli si dedica anche allo studio della storia contemporanea, con una particolare attenzione alla dimensione politica. Il problema principale che si frappone fra i valori e la loro realizzazione è costituito dagli interessi degli stati che si fanno paladini del processo di esportazione. Come spiega chiaramente Canfora, fino a questo momento gli stati che si sono mossi in difesa di altre realtà in balia di conflitti hanno agito solamente quando entravano in gioco fattori politici ed economici che potevano essere utilizzati a loro vantaggio. Fatto ancor più grave, le potenze che scendono in campo a fianco di coloro che vengono fatti oggetto di soprusi si nascondono dietro la bandiera della salvaguardia della libertà per legittimare quelle che sono nella maggior parte dei casi meri atti di conquista. Canfora sostiene quindi una tesi realpolitica nei confronti dell’esportazione della democrazia. Il realismo politico concepisce la politica come una «…lotta che ha come fine il potere e come mezzo la forza»1.

Nonostante sia un “ismo”, non possiamo parlare del realismo politico come una ben precisa ideologia, date le diverse sfaccettature che lo caratterizzano. Inoltre il realismo nasce proprio come critica alle ideologie che, secondo i realisti, non fanno che distogliere l’attenzione dalle necessità primarie che devono governare lo stato e chi ne è a capo. La politica è una lotta fra realtà e apparenza e il realismo si preoccupa di far convergere questi due ambiti diversi per ottenere la sopravvivenza dello stato, dando maggiore importanza però alla dimensione pratica della politica. Questa tesi pone le sue basi nella generale sfiducia nutrita dai realisti nei confronti dell’uomo e del principio di eguaglianza che dovrebbe eliminare ogni distinzione e appianare ogni divergenza. L’uomo è considerato come intrinsecamente dedito alla ricerca del benessere personale anche a  scapito di quello dei suoi simili. Allo stesso modo gli stati devono dedicarsi alla ricerca delle condizioni della loro sopravvivenza senza preoccuparsi eccessivamente di mantenere la pace e la collaborazione a livello internazionale. La natura relativa di tutte le creazioni dell’uomo, anche a livello ideale, costringe in uno stato di relatività anche quelle conquiste che sono da sempre considerate come intoccabili e universali, come la giustizia, la legge e perfino la stessa ragione umana. Le basi della filosofia politica sono così scardinate e cedono il passo ad un approccio alla politica che si basa sull’osservazione scientifica del passato e del presente al fine di elaborare le condizioni che garantiscano la sopravvivenza di una comunità. Nell’analisi storica del realista politico hanno grande spazio anche il caso e i bisogni primari degli esseri umani.

La conseguenza più immediata di questo approccio è la delineazione di uno spazio riservato alle relazioni internazionali dominato dall’utilizzo della guerra come unico strumento per garantire la sicurezza e la pace. Di conseguenza le ragioni addotte per giustificare gli interventi militari, come l’esportazione della libertà, sono in realtà motivazioni di facciata atte a mascherare il proprio desiderio di supremazia. Il realismo politico esiste da sempre, anche se molti ne ignorano le dinamiche o credono che ogni intervento militare sia giustificato sul piano ideologico o addirittura trovi in esso le sue ragioni profonde. Già con le Storie di Tucidide, all’interno delle quali trova un posto di grande rilievo la narrazione quasi integrale della guerra del Peloponneso, si delineano le linee guida del realismo politico, così come sopra elencate. Si deve poi a Niccolò Machiavelli il merito di aver sollevato quel velo di ragioni ideologiche addotte per legittimare un’azione di forza che spesso e volentieri non sono nient’altro che pura e semplice ipocrisia. Machiavelli ci svela senza compromessi il lato “demoniaco”2 del potere, invertendo, in politica, l’importanza gerarchica tra apparire ed essere, a favore del primo. L’arte della dissimulazione e la scaltrezza diventano essenziali, seppur sempre al servizio della stabilità dello Stato. La separazione della politica dalla religione e dalla morale è senz’altro un dato che ci permette di comprendere alcuni meccanismi che governano la politica, i quali, senza una buona dose di cinismo, risulterebbero preclusi alla nostra analisi. Con l’avvento della modernità si è tentato di eliminare, peraltro senza successo, la visione politica imposta dal realismo che, fino a quel momento, aveva dimostrato quasi sempre di poter offrire una valida spiegazione delle dinamiche politiche, come Machiavelli ci illustra nel Principe3. Dal Seicento in poi infatti, anche se la periodizzazione è come sempre molto approssimativa, si è tentato di costruire dottrine politiche che poggiassero sulla razionalità e sull’intelletto, al fine di giungere all’eliminazione dei conflitti interni ed esterni allo stato. L’economia di stampo mercantilista che proprio in quel periodo cominciava a diventare la principale fonte di arricchimento incoraggiava fortemente lo sviluppo di una comunità pacifica e priva di quei conflitti che, anche a livello internazionale, avrebbero danneggiato gravemente il commercio. Proprio in quest’ambito assistiamo alla rinascita delle idee cosmopolite ad opera di Kant e altri pensatori prima e dopo di lui. Sebbene l’approccio realista sia stato a più riprese criticato anche severamente, non possiamo liquidarlo come appartenente ad epoche definitivamente superate, data la sua capacità di adattamento ai diversi contesti e alle diverse epoche storiche. Spesso le ideologie vanno in crisi e per vari motivi vengono abbandonate, mentre il realismo politico trova sempre terreno fertile nel quale mettere radici.

A conferma di questa tesi Canfora ci mostra come la storia spesso e volentieri veda trionfare gli interessi pratici sugli ideali. Esportare la libertà  si apre proprio con un riferimento alla guerra del Peloponneso, combattuta tra Sparta e Atene tra il 431 e il 404 a. C. Dato che Atene aveva da tempo riunito le città alleate in un lega sulla quale esercitava un vero e proprio dominio, gli Spartani, per dare maggior forza sul piano ideologico alla loro causa e provocare la defezione del maggior numero possibile degli alleati di Atene, che poco gradivano il giogo, si presentarono come i restauratori della libertà delle città greche. Quanto poco veritiera fosse questa propaganda ci viene rivelato dal caso della rivolta antiateniese dell’isola di Samo, scoppiata nel 441 a. C. Gli Ateniesi avevano scatenato una repressione violentissima, tanto che si può parlare di una vera e propria guerra, durata quasi due anni. Sparta avrebbe avuto l’opportunità di intervenire ma, giudicando i tempi non ancora maturi per intraprendere un’azione militare, non mosse un dito in difesa degli abitanti di Samo. Ciononostante l’iniziativa degli Spartani di presentarsi come liberatori della Grecia dall’imperialismo di Atene ebbe successo, tantoché le defezioni ricominciarono in massa dopo l’inizio della guerra. Dopo la fine della guerra però fu evidente che era ormai impossibile far coincidere la propaganda con la politica di potenza attuata dagli Spartani. Una situazione paradossale si era già venuta a creare nelle fasi finali della guerra. Infatti gli Spartani erano risultati vincitori grazie al supporto finanziario dell’impero persiano, tradizionale nemico della libertà delle città greche. La libertà della Grecia fu comperata con l’oro persiano. Quando le contraddizioni tra ideali e interessi sono così evidenti, anche il più solido degli imperi è destinato a cadere, così come accadrà a Sparta, che verrà sconfitta non molto tempo dopo la fine della guerra dalla superiorità navale dei persiani, sotto il comando, ironia della sorte, di un generale ateniese. Questa celebre guerra costituisce un efficace paradigma per comprendere come i valori della libertà e, con riferimento al presente, della democrazia, vengano sempre meno quando non coincidono con più stringenti interessi di tipo economico o politico. Da questo punto di vista la storia successiva alla lotta fra Sparta e Atene è un lungo elenco di soprusi compiuti in nome della libertà.

Di questo lungo percorso di mistificazioni un altro momento cardine è rappresentato dalla Rivoluzione francese. La decisione di portare la libertà ai popoli di tutta Europa con le armi si sarebbe tramutata in una guerra di conquista, soprattutto dopo che la Francia rivoluzionaria diventerà l’Impero francese. Anche qui la contraddizione in termini è evidente, tanto che, col passare del tempo, in tutti i paesi “liberati” dalle armi francesi, una vasta parte della popolazione percepirà sempre più la presenza dei “liberatori” come una nuova forma di sottomissione. Anche in questo caso gli ideali hanno ceduto il passo agli interessi della potenza vincitrice. Questo principio sarà applicato in tutto il suo cinismo il 17 aprile 1797, quando Bonaparte, allor generale del Direttorio e vincitore della campagna d’Italia, cederà quella che ormai era diventata la repubblica di Venezia all’Austria per suggellare la pace (trattato di Campoformio)4. La figura di Napoleone, già agli albori di quella che sarebbe diventata la sua rapida ascesa al potere, rappresenta la personificazione dei principi che riassumiamo sotto la definizione di Realpolitik. Egli seppe sfruttare a suo vantaggio la diversità delle situazioni, dimostrando una notevole maestria nel rafforzare la sua persona nel corso delle diverse fasi della rivoluzione. Proprio in nome di questo cinismo realpolitico egli fu il più importante artefice del passaggio dalla Rivoluzione all’Impero. Ed è stato infatti il realismo di Napoleone e di coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa a piegare gli ideali della rivoluzione francese e a trasformarla in ciò che aveva tentato di distruggere5. Finché gli fu possibile continuò a dar credito alla sua immagine di “spada della rivoluzione”, anche a seguito dell’instaurazione dell’Impero. Chi, a giudizio di Canfora, aveva compreso prima del tempo l’inquietante paradosso insito nella guerra di liberazione e le conseguenze a cui esso avrebbe portato, fu Maximilien Robespierre. Ancora non era a capo del comitato di salute pubblica, al momento del voto sull’ingresso in guerra egli si pronunciò contro questo proposito proclamando: «L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici»6. Parole a dir poco profetiche, non solo per quanto riguarda gli esiti della rivoluzione ma anche per la storia successiva, inclusa quella recente.

La storia si sarebbe ripetuta anche per quanto riguarda la “liberazione” dell’Europa dell’Est dal dominio della Germania nazista ad opera dell’armata rossa di Stalin durante la Seconda guerra mondiale. La triste fine degli stati “liberati̕” fu quella di passare dal dominio tedesco a quello sovietico. Un posto d’onore a questa rassegna di aggressioni compiute in nome della libertà è riservato da Canfora al ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere nello scacchiere internazionale dal secondo dopoguerra ad oggi. Proprio con la fine della seconda guerra mondiale si afferma definitivamente il predominio di USA e URSS su gran parte del mondo. Il periodo che seguirà di lì a poco e che si sarebbe concluso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sarà, a ragione, definito guerra fredda. Le esigenze dei singoli stati risultarono spesso sacrificate da coloro che avevano in mano le redini di quello che possiamo definire il “grande gioco”7 della geopolitica all’epoca della guerra fredda. La condotta degli Stati Uniti in ambito internazionale è esemplare nel dimostrare come la diffusione della libertà e della democrazia siano per lo più armi retoriche alle quali fare affidamento per dare maggior forza ad un intervento militare o per delegittimare le operazioni della potenza rivale che si accinge a compiere la stessa operazione. Già nel 1947 il presidente Harry Truman annunciava la sua omonima dottrina, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano operare su scala globale con tutti i mezzi a loro disposizione per evitare la diffusione del comunismo. A questa teoria si aggiunse poi negli anni ’50, sotto la presidenza di Dwight Eisenhower, la teoria del roll back, ossia del “ributtare indietro” il comunismo, elaborata dal segretario di stato John Foster Dulles. Appoggiandosi a quella che possiamo definire una vera e propria fobia del comunismo e di una sua costante minaccia all’Occidente, si pensi alla “caccia alle streghe” del senatore Mac Carthy, gli Stati Uniti, nella ricostruzione di Canfora, si adoperarono per estendere la loro egemonia, in modo diretto o indiretto, sulla quasi totalità del globo, adoperandosi per instaurare governi a loro fedeli e accondiscendenti anche rispetto alla loro politica economica. Un’altra forma di “aiuto” a popolazioni impegnate nella lotta per la libertà era quella di rifornire di armi e di aiuti di altro genere coloro che si ribellavano alla penetrazione comunista, come nel caso dei talebani dell’Afghanistan, oppure che dovevano eliminare una realtà sgradita, come nel caso dell’Iraq di Saddam, armato dagli americani per logorare l’Iran rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini. Ironia della storia: gli alleati del momento nella lotta al comunismo e al fondamentalismo diventeranno i nemici di domani.

Quello che, a giudizio di Canfora, spesso si dimentica, è che coloro i quali si definiscono e vengono definiti paladini della libertà si sono in passato adoperati per instaurare vere e proprie dittature militari, preferite alla democrazie autonome, perché più facili da controllare. Il caso del colpo di stato in Cile ad opera del generale Pinochet contro il governo liberamente eletto di Salvador Allende è uno dei tanti esempi che dimostrano che la democrazia non è sempre stata ritenuta dai governi americani la migliore e più conveniente forma di governo ̒da esportare̕. Un esempio forse ancora più tragico di questo modus operandi è costituito, negli esempi addotti da Canfora, dal rovesciamento del governo legittimo del presidente Arbenz Guzmán in Guatemala ad opera dei mercenari di Castillo Armas, inviati nel 1954 su ordine del presidente Eisenhower. Perché si era arrivati a tanto? La motivazione principale era costituita dal fatto che il Guatemala ostacolava la politica della United Fruit Company, potentissima multinazionale statunitense attiva già da fine Ottocento in America Latina ed impegnata nell’esportazione di frutta. La libertà fu di fatto venduta ”̒per un casco di banane̕”. Dopo la fine dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono, come è noto, diventati una superpotenza solitaria. Privi di un loro pari al quale rendere conto in caso di azioni militari e diplomatiche troppo azzardate e privi della minaccia di una guerra atomica, la politica estera americana ha mutato la forma ma non la sostanza dei suoi interventi. Senza la necessità di operare sotto mentite spoglie, come spesso era accaduto durante la guerra fredda, dove era la CIA a dover intervenire in modo da evitare una crisi diplomatica con l’URSS, gli americani sono stati in grado di impiegare liberamente le loro truppe ovunque se ne fosse sentito il bisogno.

Risulta però inutile la censura o la disapprovazione per la condotta attuale della politica estera statunitense, dato che essa non opera niente di diverso da quello che in tutto il mondo e in tutte le epoche si è sempre fatto, ossia agire secondo i propri interessi. Le operazioni di state-building compiute in Afghanistan e Iraq dagli statunitensi sono solamente la prosecuzione più raffinata di una politica imperialistica da sempre perseguita dagli Stati Uniti e da altre potenze prima di loro. Naturalmente anche ai giorni nostri ogni intervento acquista maggior vigore agli occhi di chi deve supportarlo se ammantato di una serie di ragioni più o meno valide (la salvaguardia dei diritti umani, una possibile minaccia alla sicurezza, ecc.), generalmente accettate dall’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, in particolare, a seguito degli attacchi alle torri gemelle è stata realizzata una campagna mediatica volta a inculcare nella mente di ogni cittadino americano la necessità di combattere il terrorismo, anche con l’uso della forza militare. Il caso degli Stati Uniti è particolarmente interessante, perché dopo la seconda guerra mondiale essi sono stati identificati come i portatori dei valori della libertà e della democrazia. Una buona parte degli americani e della classe dirigente, percepisce il proprio paese come l’unica realtà in grado di diffondere la democrazia in tutto il mondo. Questa idea è derivata in parte dall’assunto che gli Stati Uniti siano l’espressione più compiuta della democrazia liberale, data la loro origine rivoluzionaria. Dall’altra parte, la mentalità di stampo prettamente imperialistico affermatasi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, ha portato nel corso del tempo la maggioranza dell’opinione pubblica a considerare gli interessi dell’America come gli interessi del mondo intero8. Sembra quasi che ci si sia dimenticati, sottolinea Canfora, che le rivoluzioni in senso autoritario scoppiate in America Latina erano state sostenute nella maggioranza dei casi proprio dagli esportatori della democrazia per antonomasia. Le autorità statunitensi hanno ripetutamente sostenuto la necessità di impegnarsi nella risoluzione di conflitti esterni giustificandola come un’azione volta alla diffusione dei valori della democrazia liberale. In questo modo però si è contribuito a imprimere nella mente dell’opinione pubblica l’inscindibilità fra intervento armato ed esportazione della democrazia9. Da un certo punto di vista l’idea stessa di esportare la libertà e la democrazia con le armi è quanto mai un paradosso: le armi sono strumenti usati per imporre con la forza la volontà dei vincitori ai vinti, dai quali difficilmente può nascere un paese veramente libero.

La prospettiva dell’esportazione della democrazia attuata in modo totalmente disinteressato subisce un altro duro colpo se pensiamo che questa ed altre operazioni sono state legittimate attraverso quella che possiamo definire una vera e propria manipolazione dell’opinione pubblica attraverso l’uso massiccio dei mezzi di informazione, responsabili della diffusione di notizie falsificate, come il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. L’allora presidente in carica George W. Bush Jr. aveva ammaliato l’opinione pubblica mondiale delineando l’esistenza di un fantomatico “asse del male” che univa Iraq, Iran e Corea del Nord in un’alleanza simile a quella che univa Germania, Italia e Giappone durante il secondo conflitto mondiale. Quindi cosa è cambiato dai tempi della guerra condotta da Sparta in nome della libertà dei greci? Purtroppo molto poco. Sono cambiati i mezzi propagandistici e gli scopi presunti, ma la sostanza è rimasta invariata.  
                                                                     
Adottando la visione di Canfora arriviamo ad una totale eliminazione del principio di sovranità. Seguendo la visione delle relazioni internazionali e della natura dello stato stesso dettate dalla Realpolitik, la sovranità di uno stato esiste solamente se è salvaguardata dalla forza delle armi. In definitiva se assumiamo il punto di vista di Canfora, del resto ampiamente condiviso in ambiti diversi nell’analisi politica contemporanea, riconosciamo come impossibile la realizzazione pratica dell’idea che è alla base degli interventi umanitari.

Nel lungo braccio di ferro tra idealismo e realismo, che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità, secondo Canfora è quest’ultimo a prevalere. Qualsiasi possibilità di portare la democrazia in modo totalmente disinteressato, risulta pertanto negata. Sembra quasi che Machiavelli abbia vinto una volta di più nel disegnare una politica sgombra da ideali o princìpi, alla mercé del più forte. Risulta chiaro che una politica internazionale modellata sul principio dell’interesse dei singoli stati e sulla forza militare non può che portare allo scontro tra potenze e al fallimento di qualsiasi disegno cosmopolita. Il realismo inoltre, data la sua attenzione pressoché esclusiva alla conservazione dello stato, è poco incline ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di nation-building e di esportazione di istituzioni democratiche in altri paesi, avvicinandosi, anche se solo parzialmente, ad un approccio di stampo conservatore per quanto riguarda la politica estera. Con ciò non vogliamo sostenere l’esistenza di una connessione tra conservatorismo e realismo, ma solo sottolineare che  il realista tende, talvolta, ad avvicinarsi al modus operandi di un conservatore, dato il suo intento primario, ossia la cura e l’integrità dello stato. Proprio il progetto cosmopolita è una delle proposte riprese in epoca illuminista per superare il realismo e cercare invece una collaborazione fra stati basati sulla loro uguaglianza e sui vantaggi a tutti i livelli che possono derivare da una loro coesistenza pacifica. Tuttavia, adottando una visione realpolitica delle relazioni internazionali non si rischia si cadere in uno stato di anarchia totale, dato che i rapporti di forza fra i vari stati portano necessariamente ad una gerarchizzazione degli stati nello scacchiere internazionale. Se diamo credito alla trattazione polemica ma raffinata di Canfora non ci resta quindi che abbandonare ogni velleità idealista e non pensare più a esportare la democrazia, almeno preservando la sostanza, e non soltanto le forme ipocrite, della buona fede e del rispetto dei diritti dei popoli.

 

 

 

 

 

 

1. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p 19.

2. Per una disamina più approfondita del rapporto fra politica e morale cfr. Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1997.  Machiavelli stesso sarà a lungo etichettato come un essere demoniaco, tanto che in Inghilterra lo si conoscerà per lungo tempo come, the old Nick, uno dei nomignoli attribuiti al diavolo.

3. Niccolò Machiavelli, Il principe, Mondadori, Milano, 1994.

4. Avvenimento che turberà profondamente molti intellettuali che fino a quel momento avevano appoggiato senza riserve le conquiste francesi, tra i quali Ugo Foscolo.

5. Riprendiamo qui l’immagine suggestiva che compare nel libro di Jean Jacques Chevallier Le grandi opere del pensiero politico (Il Mulino, Bologna, 1998). L’autore suggerisce che dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d’Ottobre lo Stato, inteso come la macchina statale, anziché soccombere sotto i colpi della rivoluzione si è rafforzato e perfezionato, cfr. p. 419.

6. Luciano Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano, 2007, p.20.

7. Mi servo di un’espressione di Peter Hopkirk, che è anche il titolo di un suo celeberrimo libro. Sebbene Hopkirk parlasse di grande gioco della politica riferendosi all’espansione coloniale dell’Ottocento e in particolare agli scontri tra russi e inglesi per il controllo dell’Afghanistan penso che l’espressione sia ancora efficace per descrivere le dinamiche che sono alla base della politica internazionale.

8. Cfr. intervista a Christopher J. Coyne e Tamara Cofman Wittes, originariamente apparsa sul “Cato Policy Report” del gennaio/febbraio 2008.

9.Cfr. Eric Hobsbawn, The dangers of exporting democracy, originariamente apparso su “The Guardian” del 22 gennaio 2005.

10. Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003.

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GUINEA BISSAU: DA NARCOSTATO A STATO FALLITO?

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La primavera del 2012 è stato un periodo molto convulso per l’Africa Occidentale: poche settimane dopo il colpo di Stato in Mali, vi è stato un importante sconvolgimento politico in Guinea Bissau. Il Paese, che da lunghi anni vive una situazione di instabilità, ha visto emergere in modo brutale le posizioni dell’élite militare. Infatti nel Paese si stava cercando di mettere in pratica delle politiche volte a ridimensionare il ruolo storico dei vertici dell’esercito che, per lungo tempo, hanno avuto voce in capitolo nelle scelte politiche della Guinea Bissau. Nel momento in cui queste nuove politiche stavano mettendo a repentaglio lo status quo, si è scatenata la reazione violenta dell’esercito che ha preso in mano le sorti del paese proprio nel momento in cui si stavano tenendo le elezioni presidenziali, in seguito alla morte prematura del Presidente Malam Bacai. Il Paese oggi rischia di essere un nuovo esempio di Stato fallito, contraddistinto dalla mancanza di un potere politico capace di affrontare i problemi che fin dall’indipendenza pregiudicano il benessere dei suoi cittadini1. La corruzione ed il traffico di stupefacenti determinano una situazione di sottosviluppo economico e sociale che fanno sì che il Paese sia uno dei più poveri al mondo.

Fin dal momento della sua indipendenza, l’ex colonia portoghese ha subito il ruolo dominante dei militari senza poter limitare in alcun modo il loro peso nelle scelte, non solo politiche, ma anche economiche2. Nel 1999, le Nazioni Unite decisero di dar vita alla missione UNOGBIS, per affrontare tre ordini di problemi. In primis doveva essere risolta la crisi politica che perdurava ormai da un lungo periodo e che aveva portato ad una cronica incapacità nella risposta alle richieste della popolazione; in secondo luogo le condizione di vita precarie della popolazione, che nel 1999 superava di poco il milione di individui; infine, le difficoltà incontrate dai governi nel tentativo di regolamentare l’economia del paese. La mancanza di uno sviluppo economico era anche dovuta alla mancanza, o quasi, di una classe imprenditoriale che potesse sfruttare le risorse umane e naturali di cui è dotato il territorio3. Per queste ed altre ragioni, gli obiettivi della missione delle Nazioni Unite riguardavano la possibilità di garantire una pace stabile e duratura. Le Nazioni Unite volevano far sì che questo percorso andasse avanti a tappe forzate e che si concludesse con lo svolgimento delle elezioni presidenziali. Questa missione fu messa in piedi anche perché vi era il rischio che l’instabilità politica potesse espandersi nei paesi confinanti, tra i quali Guinea-Conakry e Senegal. L’Africa Occidentale rappresenta da sempre un’area strategica, non solo per la presenza  di risorse naturali, ma anche perché fornisce basi strategiche al controllo di un territorio densamente popolato. Alla scadenza del primo mandato della missione UNOGBIS fu presentata una relazione che esponeva i risultati ottenuti, tra i quali le elezioni presidenziali tenute proprio nel 1999, e sottolineava la necessità di una profonda riforma delle forze armate.

Nella primavera del 2012, più precisamente nel mese di aprile, Carlos Gomez Junior si apprestava a diventare il nuovo presidente dopo aver vinto nettamente il primo turno delle elezioni sfiorando il 49% dei voti e staccando nettamente il secondo candidato, Kumba Yala, fermatosi al 23%. Benché la vittoria fu netta, non avendo raggiunto il 50% più uno dei voti, non poté evitare il ballottaggio e quindi dover continuare una dura campagna elettorale. Nonostante gli osservatori internazionali non abbiano riscontrato irregolarità nelle fasi del voto, quasi tutti i candidati alle elezioni hanno manifestato il loro dissenso parlando di veri e propri brogli. Proprio per questo motivo Kumba Yala aveva manifestato l’intenzione di voler boicottare il secondo turno delle elezioni chiedendo ai suoi sostenitori di non presentarsi alle urne, tale scelta è stata motivata dall’idea che erano stati messi in essere dei brogli volti a favorire l’elezione dell’allora Primo Ministro Gomez Junior. Nella notte del 12 aprile (il secondo turno delle elezioni si sarebbe dovuto tenere il 29 dello stesso mese) un commando militare ha occupato la capitale Bissau ed ha arrestato il Presidente ad interim Pereira e anche lo stesso Gomez, prendendo in mano il potere. Nelle ore immediatamente successive al golpe si pensava che l’intervento dei militari potesse essere una risposta all’accusa di brogli e quindi un tentativo volto ad evitare un crescendo di violenza per le strade di Bissau. Effettivamente la motivazione non fu questa, infatti i golpisti non sovvertirono il normale processo democratico in seguito alle accuse di brogli da parte degli oppositori di Gomez, ma bensì perché accusavano quest’ultimo di aver sancito segretamente un accordo con un Paese straniero, cioè con l’Angola. Accordo che, a detta dei golpisti, pregiudicavano la sovranità nazionale a favore dei militari angolani già presenti nel paese da diverso tempo poiché facenti parte della MISSANG, una missione angolana volta a fornire supporto alle forze di sicurezza della Guinea Bissau. L’esercito non aveva mai accettato la presenza di militari stranieri all’interno dei confini del Paese e l’ormai scontata elezione di Gomez Junior avrebbe potuto consolidare la presenza straniera, nonostante il governo dell’Angola avesse chiarito in più occasioni la volontà di voler interrompere questa missione, proprio perché fortemente osteggiata da alcuni partiti politici4.

La missione del governo angolano nasceva proprio come risposta a quella necessità di rivedere il ruolo dell’esercito all’interno della sfera politica guineana più volte sottolineata non solo dalle Nazioni Unite ma anche dalle organizzazioni regionali africane. Tra queste organizzazioni bisogna sicuramente citare l’ECOWAS l’organizzazione economica dell’Africa Occidentale, che sta avendo un ruolo importante nella soluzione della crisi in Mali, e anche la Comunità dei Paesi lusofoni (CPLP)5.  Proprio quest’ultima organizzazione, di cui fanno parte le ex colonie portoghesi ed il Portogallo stesso, si era preposta l’obiettivo di fornire sostegno alla Guinea Bissau per cercare di operare una ristrutturazione dell’esercito6. I dati riguardanti la corruzione ci consegnano una realtà che non può essere migliorata solo attraverso un ridimensionamento di quello che è il ruolo dell’esercito, bensì appare evidente che il Paese necessita di tutta una serie di riforme che modifichino profondamente l’assetto istituzionale7. Una situazione caratterizzata da alti tassi di corruzione, soprattutto nelle forze di polizia, dovuto principalmente al fatto che, oggi, la Guinea Bissau rappresenta un vero e proprio snodo commerciale della droga tra America Latina ed Europa. Gran parte degli stupefacenti prodotti nelle regioni andine prima di giungere nel mercato europeo (principalmente Spagna, Regno Unito ed Italia) passano proprio per la Guinea Bissau. I narcotrafficanti internazionali prediligono quest’area proprio per la mancanza di forze di controllo che in qualche modo possano ostacolino la loro azione e per la, già citata, diffusa corruzione. La pratica della corruzione è solamente una concausa poiché le forze di polizia guineane non dispongono dei mezzi e delle risorse che possano permetterli di contrastare efficacemente questi traffici illeciti8.

Il traffico internazionale di droga in Africa Occidentale perdura ormai da decenni e non riguarda solamente l’ex colonia portoghese, le rotte passano anche per la Guinea, ex colonia francese, e per il golfo del Benin. Le rotte scelte dai narcotrafficanti si adeguano in base al cambiamento degli equilibri e proprio per questo motivo il recente colpo di Stato in Guinea Bissau ed in Mali hanno fatto si che questi due territori siano tra quelli più allettanti. Le merci che passano per questa regione non sono solamente stupefacenti ma anche armi e uomini, soprattutto nella fascia saheliana. La morfologia del territorio, caratterizzato dalla presenza di insenature, piccole isole e numerose baie, rende tutt’altro che agevole il lavoro delle forze preposte al controllo doganale e alla lotta al contrabbando. Proprio a livello doganale che si inserisce la cattiva pratica della corruzione che rende inefficace lo sforzo dei governi in questa difficile lotta, dato il fatto che i contrabbandieri, grazie agli introiti della vendita delle droghe, dispongono di mezzi e tecnologie superiori rispetto alle forze preposte al controllo. Per questo ci si riferisce alla Guinea Bissau come un vero e proprio narcostato, cioè un Paese dove l’economia è influenzata pesantemente dal traffico di droga e dove il potere politico poco può nella lotta contro questi traffici illeciti. Tutto ciò comporta importanti conseguenze sia sul piano economico ma anche su quello sociale poiché l’economia illegale può arrivare a superare quella legale. Per questi motivi il PIL pro capite della Guinea Bissau è tra i più bassi al mondo, secondo i dati del’FMI si piazza 167esimo posto senza superare i 1200 dollari per cittadino. Dati che contrastano con le potenzialità di cui è dotato il Paese, non solo perché è ormai nota la presenza di giacimenti di gas e petrolio al largo delle sue coste, ma proprio per l’estensione delle coste che oltre a rappresentare una risorsa per poter sviluppare l’industria ittica fungono anche da approdo per quei Paese che non hanno uno sbocco sul mare. Proprio per queste potenzialità la Cina ha rinforzato i rapporti con la Guinea Bissau e, più in generale, con i Paesi membri della CPLP, riducendo i dazi doganali sia per le importazione che per le esportazioni. L’interesse cinese da un lato può rappresentare una potenzialità, ad esempio nella costruzione di infrastrutture, potrebbe contribuire ad aumentare i tassi di corruzione se non vengono portare avanti delle politiche volte a ridurre questa pratica9.

A un anno dal colpo di Stato, la Guinea Bissau vive una situazione di forte incertezza e di ancor più profonda instabilità politica. L’ECOWAS, insieme all’Unione Africana, sta cercando di delineare un percorso che porti alle elezioni ma che, nelle varie tappe di avvicinamento, possa rinforzare le fragili istituzioni statale così da evitare che proprio la chiamata alle urne diventi occasione di scontro tra l’élite militare ed i partiti, come già avvenuto in passato10. Questa situazione determina un forte peggioramento della situazione economica dato che non arrivano investimenti dall’estero, ritenuti troppo rischiosi soprattutto alla luce della crisi economica, e dato che l’opinione pubblica e la comunità internazionale concentra le sue attenzione nella crisi in Mali. Proprio la contemporanea congiuntura politica nel Sahel tende a diminuire la possibilità da parte delle Nazioni Unite, ma anche dell’Unione Europea, di poter fornire un sostegno valido ad aiutare la stabilizzazione nel Paese. Per questo motivo quello che avverrà nei prossimi mesi potrebbe essere un buon ambiente di prova per le organizzazioni regionali interessate, come l’ECOWAS e anche la CPLP, che potrebbero trovare una giusta armonia di interessi capace di portare allo svolgimento delle elezioni. Nel momento in cui ci sarà la chiamata alle urne, sarà necessario ed importante la presenza di osservatori esterni da parte delle più importanti organizzazioni governative in modo tale da mettere al riparo dagli attacchi di brogli il partito che dovesse ottenere la maggioranza dei voti. Una volta raggiunto tale obiettivo potrebbero giungere nel Paese degli investimenti esteri capaci di essere uno stimolo per l’economia e, anche grazie al sostegno delle ONG, si potrebbero studiare dei piani che possano sostenere la nascita di una classe imprenditoriale locale11. Imprenditori che hanno bisogno di essere formati e puntare su diversi settori come, ad esempio, sull’agricoltura, cercando di operare una diversificazione della produzione che, in passato, è stata legata alla produzione solamente degli anacardi. La scelta della monocoltura, cioè coltivare principalmente un solo prodotto, determina dei grossi rischi poiché nel momento in cui la domanda di quel bene dovesse calare ed il prezzo dello stesso si riducesse in modo repentino questo potrebbe determinare grosse perdite economiche. Inoltre per poter sviluppare la produzione agricola è necessario dotarsi di un know-how e di un certo livello di tecnologia che limiti i rischi legati ai periodi di siccità.

 

 

 

 

 

 

1.Patrick Chabal, A History of Postcolonial Lusophone Africa, Hurst&Co., Londra 2002

2. David Stephen, Guinea Bissau coup: military plays politics to defend own power, African arguments, 23 aprile 2012

3. Carlo Lopes, Etnia, Stato e rapporti di potere in Guinea-Bissau, GVC, Lisbona 1982

4. Patricia Ferreira, State-Society relations in Angola, FRIDE, Lisbona 2009

5. A.O. Enabulele, Reflections on the ECOWAS Community Court Protocol and the Constitutions of Member States, “International Community Law Review”,  n.12/2010 p.115

6.Birgit Embalo, Civil–military relations and political order in Guinea-Bissau, “Journal of Modern African Studies”, n. 2/2012, pp. 253-281

7. M.P. Temudo, From the margins of the State to the presidential palace: the Balanta case in Guinea Bissau, “African Review”, n.2/2009

8. Demas R.R., Moment of truth: development in sub-saharan Africa and critical alterations needed in application of the foreign corrupt practices act and other anti-corruption initiatives, “American University International Law Review”, 26/2011, p.340

9. Patricia Gomes, Cina e Stati Uniti in Guinea Bissau: tra cooperazione e politica dell’assistenza, Guinea Conacry: dall’isolamento internazionale all’interesse delle grandi potenze, Meridione Sud e Nord nel Mondo, “Meridione” 2008 n.3/2012, p.86

10. Barry Munslow, The 1980 Coup in Guinea Bissau, “Review of African Political Economy” n.21/1981, pp.109-113

11. Aizenman, J., N. Marion, Policy Uncertainty, Persistence and Growth, “Review of International Economics” n. 1/1993, pp. 145–163

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INTERVENTO A “LA NOTTE DI RADIO1”

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Il 22 marzo scorso è andato in onda all’interno del programma radiofonico “La notte di Radio 1” (nell’occasione interamente dedicato a Cipro, in virtù delle recenti vicende che hanno sconvolto la vita socio-economica dell’Isola) un intervento di Federico Capnist, collaboratore del sito di “Eurasia” e autore di un articolo relativo alla “questione Cipriota”. L’intervento – pur nella sua brevità – ha riguardato sia la perdurante occupazione britannica ed i suoi effetti negativi sulla vita nell’Isola, sia la forte presenza russa, oggi diventata anche fisica al di là di quella economico-finanziaria. L’intervista è disponibile, a partire dal minuto ’39, al seguente collegamento: Cipro

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“RADIKAL ANDERS”

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Fabio Falchi, contributor of the review “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” has been interviewed by Manuel Ochsenreiter about the political movement “5 stars”, which has won 22.55% of the votes in the last Italian general elections. Here the English translation of the interview, which has been published in the last issue of the German magazine “Zuerst!” (4/2013) under the title “Radikal anders”.

 

 

Mr. Falchi, the German social democrat candidate for the chancellors position, Peer Steinbrück, called Silvio Berlusconi and Beppe Grillo “clowns”. Let´s talk about Grillo – is he really a “clown”? 

Beppe Grillo, is a comedian and blogger involved in politics since 2009. In a few years he has built up a new movement, “MoVimento 5 Stelle” ,from nothing, exploiting in an intelligent way the potential of Internet (the candidates of “MoVimento 5 Stelle” were chosen by party members through an online primary), but also conquering the squares, which traditionally belonged to the political left (on 22 February 2013, a large crowd of people attended the last meeting of Beppe Grillo in Piazza San Giovanni, in Rome). “MoVimento 5 Stelle” is composed of simple citizens joined together by hatred for the corruption and poor governance of the traditional parties. So, at the general election, last February, the civic “MoVimento 5 Stelle” won 25.55% of the vote for the Chamber of Deputies (and 23.79% of the vote for the Senate). Now it is the first party (even if it is not the first coalition) in the Chamber of Deputies. Apart from any other consideration, it is evident that Grillo is a clever politician, not a “clown”, and there is nothing to laugh about the success of “MoVimento 5 Stelle”.

 

 

German mainstream media sees in Beppe Grillo a “danger for the EU”, because he refuses the European currency. Is that right?

We do not know exactly what Grillo and “MoVimento 5 Stelle” think about “european currency” but we know that they think that european currency is not the solution of the “Eu problem” but it is “part” of this problem. We know that the danger of “Eu” is “Eu”, because “Eu” cannot or does not want to combat the dominance of financial markets. It seems that Grillo wants a referendum on the European currency, but a referendun cannot abolish an international treaty. Of course, it is important that Grillo clarifies as soon as possible his ideas about this problem, that, in the first place, is a (geo)political problem, not a mere economic problem – and we must remember that many european countries, members of “Eu”, have not European currency; in any case, there are “technical solution”, such as two euros (“northern euro” and “southern euro”, on the basis of a solidarity pact), or back to the “European snake”, or a real political and monetary “Eu” changing the role of the European Central Bank (that seems longa manus of financial markets in Europe) ad so on. The question is that “this Eu” cannot survive, Grillo or not Grillo. And many observers think that “Italy ship”, rebus sic stantibus, is expected to arrive in Piraeus! We must take into account the failure of “austerity” to understand the “phenomenon Grillo”.

 

 

What can you say about the MoVimento 5 Stelle? Is it a movement of the political right or left? Is it a real opposition party? 

“MoVimento 5 Stelle” is neither moviment of political rigth nor left. Moreover, now political right and political left are two sides of the same coin.There are differences, but these differences are not very important. But, even if it is not fascist, or better neo-fascist moviment, it is true that Grillo has not not specific ideological roots and many observers consider “MoVimento 5 Stelle” as a demagogue and “populist” movement. Nevertheless, Grillo and his many supporters protest against financial speculation, the installation of Nato military bases and Italian military missions abroad. And Grillo had the courage to criticize Israel and defend the reasons of Iran. So, only if these political positions are the basis for the policy of the “MoVimento 5 Stelle” , this new moviment will be a real opposition party.

 

 

Will Grillo have influence on politics in Italy in future? Do you rate that positive or negative – and why?

“MoVimento 5 Stelle” is likely to deflate quickly, if it does not “grow” from political point of view. Criticizing the ruling class is different from being a ruling class. As you know, there are also many “doubts” about Gianroberto Casaleggio, co-founder of “MoVimento 5 Stelle”, of which he is called “guru”. In the next few weeks or in the next few months these doubts will disappear. However, considering the Italian situation and that all other comparable parties are blackmailed by the financial markets it is positive this “caos”. And we know that financial markets “speak English”. It is no coincidence tha United States want an economic Nato to strengthen relationship between the United States and Europe. Indeed, this would be the death of Europe. But we cannot prevent it with the actual (Italian and European, with few execeptions) ruling class. In this perspective, in my opinion, “MoVimento 5 Stelle” is  not so much important. But “if” a new political movement should get out from this “caos”, a political force able to counter financial markets and the aberrant power politics of United States, then we could say that the success of “MoVimento 5 Stelle” is “not negative”. From a realistic point of view it is unlikely that “MoVimento 5 Stelle” can be such a political force (that seems very far from “Eurasian weltanschauung” and Grillo unfortunately does not seem to be an “Italian Chavez”) . But, it is not impossible that “something” hinders “euro-atlanticst mincer”. In effect, also in other european countries are growing so called “populist” (but not neo-fascist) movements. Also they have not a clear political theory (yet), but they seem to place at the center of the political debate people’s problems and that it is absurd that a State depends on the financial markets. Therefore, we should be “pragmatic” about all these movements. In this case, it is fair to say, without being vulgar, that the end could justify the means.

 

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I CONFLITTI NEL CAUCASO E LA STABILITÀ DELLA RUSSIA. SABATO 6 APRILE A TRIESTE

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Il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (www.cese-m.eu) organizza sabato 6 aprile alle ore 17:30 presso la Libreria Internazionale La Fenice in via Battisti 6 (Galleria Fenice) aTrieste il convegno “I conflitti nel Caucaso e la stabilità della Russia”.

Lorenzo Salimbeni, Presidente del CeSE-M, introdurrà l’incontro analizzando i separatismi presenti nella regione del Caucaso, a partire dalla Cecenia, spesso eterodiretti e collusi con le reti del terrorismo internazionale jihadista, vero e proprio fattore di destabilizzazione utilizzato a proprio uso e consumo dai competitori internazionali di Mosca in questo ed altri scenari.

L’analisi passerà quindi al cosiddetto “Estero vicino” della Russia, in particolare alle ex repubbliche sovietiche caucasiche, con Mauro Murgia (sociologo e Presidente dell’Associazione Italia-Abkhazia), il quale, partendo dall’aggressione georgiana nei confronti dell’Abkhazia nell’estate 2008, ne descriverà gli antefatti, ma anche e soprattutto l’attuale stato dei colloqui e dei tentativi di mediazione. A tal proposito, verrà presentata la pubblicazione “Abkhazia”, che, ripercorrendo la storia e le vicende del piccolo Stato, fornisce anche preziose indicazioni per investitori economici ed operatori internazionali.

Filippo Pederzini, collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (www.eurasia-rivista.org) relazionerà altresì sulla vicenda del Nagorno Karabagh, enclave armena in Azerbaijan, nonché tipico esempio di quei cosiddetti “conflitti congelati” che costellano lo scacchiere dell’ex URSS: da questo caso esemplare l’intervento spazierà sulla manipolazione dell’informazione finalizzata alla diffusione di un sentimento russofobico funzionale ai progetti delle potenze occidentaliste.  

 

  Caucaso_Russia
 

http://www.cese-m.eu/cesem/2013/03/convegno-i-conflitti-nel-caucaso-e-la-stabilita-della-russia-sabato-6-aprile-a-trieste/  

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