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Channel: socialismo di mercato – Pagina 73 – eurasia-rivista.org
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“NEL CUORE DI HEZBOLLAH”, RECENSIONE

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Alì Mansour e Emanuele Bossi, Nel cuore di Hezbollah. Analisi della composizione, dell’attività e degli assetti geostrategici in cui opera il “Partito di Dio”, Anteo Edizioni, Cavriago (RE) 2012

 

Demonizzato dall’Occidente ed idolatrato dai suoi seguaci, sulla lista nera dell’entità sionista e fulcro dell’asse della resistenza mondiale anti-imperialista: questo e altro si sente dire su Hezbollah, sicché giunge quanto mai opportuna quest’opera patrocinata dal Centro Studi Eurasia Mediterraneao, elaborata da un’affiatata coppia di autori e con prefazione di Leonid Savin. Emanuele Bossi, dottore di ricerca in geostrategia, ha saputo contestualizzare Hezbollah nello scacchiere vicino-orientale, nonché cogliere ulteriori sviluppi internazionali legati al “partito di Dio”, laddove Alì Mansour, libanese di nascita e triestino d’adozione ma sempre attento osservatore della scena politica del suo paese natale, ha dato un prezioso apporto nell’identificare le fonti in Libano e nel fornire una chiave di lettura fuori dai consueti schemi interpretativi cui in Italia siamo sovente assuefatti.

Il libro s’apre con la storia di questo partito sciita nato da una frattura all’interno di Hamal: scopriamo così le sue origini risalenti al 1982, radicate nella guerra civile che dissanguò il Libano ed in cui cominciò ad operare come forza di resistenza nei confronti delle ingerenze israeliane, instaurando fin da principio un solido legame con la Repubblica islamica dell’Iran, in cui aveva trionfato nel 1979 la rivoluzione khomeynista. Il modello iraniano ricevette le adeguate correzioni per essere applicato allo scenario multiconfessionale del Libano, ma da un punto di vista dottrinario e di rifornimenti logistici, Teheran ha sempre costituito un punto di riferimento. Pur praticando una durissima selezione di militanti e dirigenti, Hezbollah è oggi un partito radicato sul territorio, capillarmente diffuso, anche per merito di sostanziose opere di assistenza sociale ed educativa, senza omettere una robusta struttura economica e finanziaria che ha fatto bella mostra di sé nella quotidianità, ma soprattutto nel corso della ricostruzione di quelle porzioni del Libano così violentemente colpite da T’sahal durante l’aggressione dell’estate 2006. Destreggiandosi nelle complesse normative elettorali libanesi e riuscendo sempre ad offrire all’opinione pubblica risultati concreti ed in linea con le proprie promesse elettorali, Hezbollah è oggi un partito credibile, rappresentato nei consessi elettivi e partecipe della compagine governativa, capace soprattutto di proporsi come interlocutore affidabile presso altri gruppi religiosi (maroniti in primis): stiamo parlando di un partito che vuole essere patriottico e proporsi per il bene di tutti i libanesi, non di un soggetto separatista o settario. Ciò non toglie che la fede sciita ed i modelli etici e religiosi che ne conseguano siano profondamente radicati in tutti i militanti, i quali hanno come figura carismatica Hassan Nasrallah, esponente del clero che ha dimostrato di saper guidare in maniera coraggiosa e seria il partito, non disdegnando un utilizzo intelligente e preciso delle moderne tecnologie e dei media.

Il legame con l’Iran è impresso nel DNA di Hezbollah, ma altrettanto saldi sono i legami con la Siria baathista e, fino a poco tempo fa, pure con il movimento sunnita palestinese di Hamas: come viene accennato nell’appendice dedicata alla cosiddetta “Primavera araba”, il partito di Dio ha seguito con diffidenza i recenti fermenti che hanno squassato il bacino del Mediterraneo (eccezion fatta per il sommovimento libico, per effetto di una storia dai contorni poco chiari inerente la scomparsa dell’Imam Musa al-Sadr) ed ha più volte ribadito la propria solidarietà nei confronti del legittimo governo siriano, al contrario di Hamas. La questione israeliana e il furto della terra che hanno patito i palestinesi a partire dal 1948 rimane comunque una vicenda sulla quale Nasrallah e i suoi non transigono, non solamente per solidarietà nei confronti di quelle migliaia di palestinesi che vivono in condizioni penose nei campi profughi del Libano meridionale, ma per quel profondo senso di giustizia che informa gli sciiti.

Ricco di interviste raccolte sul campo in prima persona e rivolte a personaggi della scena politica e culturale libanese, il volume raggiunge un ritmo incalzante e quasi appassionante nella parte dedicata all’attività militare di Hezbollah. Al pari di altri gruppi politici libanesi, anche il Partito di Dio possiede una sua milizia, che però dimostra un grado di efficienza, addestramento, tenacia ed equipaggiamento per certi versi superiore all’esercito nazionale libanese, peraltro protagonista di episodi di corruzione e di infiltramento, mentre la struttura impermeabile ed ermetica di Hezbollah garantisce ulteriori margini di successo alle operazioni belliche. Caso più eclatante è stata la sconfitta accusata dalle forze armate israeliane nell’estate 2006: la roboante operazione “giusta punizione” ha mancato tutti i suoi obiettivi dichiarati (in primis annientare Hezbollah nelle sue roccaforti del Libano meridionale), ha messo in evidenza la preparazione bellica degli uomini di Nasrallah, i quali hanno dimostrato di possedere pure micidiali missili antinave e sono stati in grado di mettere fuori combattimento numerosi carri armati pesanti del tipo Merkava, fiore all’occhiello dell’esercito di Tel Aviv. Perciò si è trattato anche di un danno d’immagine ed economico inflitto all’aggressivo paese confinante, nella misura in cui numerosi ordinativi di questo costoso ed ipertecnologico strumento di guerra sono state disdette a fronte di così misere prestazioni operative. Nonostante una tale capacità bellica, ancorché menomata dalla perdita del comandante militare Imad Mughnieh, assassinato a Damasco, Hezbollah è, però, un partito che intende ricorrere alla forza esclusivamente per difendere sé stesso e la sua Patria, non intende abusarne in chiave offensiva. L’arsenale missilistico di cui Hezbollah dispone potrebbe costituire un efficace deterrente nei confronti dei progetti espansionistici israeliani verso il fiume Litani, anche se non è da escludere che i “falchi” sionisti possano scatenare nuove offensive (soprattutto nell’ambito di un attacco indirizzato contro l’Iran ed i suoi alleati) ed allora gli scenari apocalittici che gli autori tratteggiano a conclusione della loro approfondita ed argomentata analisi, sarebbero tutt’altro che fantascientifici.
 



CHI SEMINA DISCORDIA TRA CINA E INDIA?

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In data 7 ottobre 2012, il “Times of India” ha pubblicato un articolo in cui si invitava l’India a “seppellire i fantasmi” del 1962, l’anno della guerra con la Cina, e a perseguire una convivenza pacifica con questo Paese. Non molto tempo fa Ratan Tata, Presidente del Tata Group, uno dei maggiori gruppi industriali indiani, aveva rilasciato una dichiarazione in cui spiegava che la grande potenza economica cinese non rappresenta una reale preoccupazione per l’India, che, anzi, dovrebbe stabilire un’alleanza con la stessa potenza asiatica: “Preferirei usare la Cina come un forte alleato e stabilire con essa una relazione di reciproco sostegno. Credo che bisognerebbe sviluppare un rapporto di questo genere”.

Il primo ministro indiano Manmohan Singh, il ministro degli esteri e altri alti funzionari hanno ripetutamente dichiarato che l’India non ha intenzione di prender parte ad alcuna strategia volta al contenimento della Cina, ma di migliorare le relazioni diplomatiche sia con la Cina sia con gli Stati Uniti. La posizione razionale tenuta dal Governo indiano serve a garantire gli interessi dei popoli indiano e cinese ed è in linea con l’attuale situazione diplomatica che accomuna i due paesi: anche se tra i due Paesi ci sono alcuni problemi storici e dispute minori e benché l’India, in quanto grande potenza, abbia incrementato i propri armamenti (scelta questa dettata dalle sue esigenze diplomatiche), è pur vero che Cina e India hanno più interessi in comune che divergenze.

Negli Stati Uniti, invece, il “più libero e democratico” panorama delle fonti di informazione non è interessato a veicolare questo tipo di interpretazione delle relazioni Cina – India: quello che a loro interessa è permeare il discorso di quella mentalità che regnava durante il periodo della Guerra Fredda, al fine di seminare incomprensioni e discordia tra Cina e India per portarle ad uno scontro diretto.

Ai loro occhi tutto è diretto contro la Cina: dagli addestramenti militari congiunti tra India, USA e Giappone ai progetti riguardanti lo sviluppo di  missili avanzati indiani, aventi come scopo ultimo quello di dissuadere il Governo cinese. All’inizio di quest’anno India e Russia hanno condotto esercitazioni congiunte per le truppe di fanteria nella regione del Lago Baikal; riportando la notizia, alcune fonti statunitensi le hanno presentate come dirette, in una certa misura, contro la Cina. In precedenza, però, Cina e India, avevano spesso eseguito esercitazioni militari congiunte: quale sarebbe stato il loro bersaglio?

Alcune fonti statunitensi hanno fornito deliberatamente un’interpretazione sbagliata della cooperazione senza vinti né vincitori che unisce la Cina e i Paesi dell’Asia del Sud, presentandola come un evidente piano cinese per la costruzione di quello che è stato chiamato “un filo di perle”, ossia una cooperazione tra i Paesi confinanti con l’India, rivolta all’assedio della penisola indiana. Questa interpretazione fuorviante avrebbe dovuto indurre il Governo indiano ad avviare la promozione e la costituzione di forze anticinesi. Alla luce di quanto detto entrambi i Paesi dovrebbero fare molta attenzione al modo in cui viene presentato questo tema.

 
 
 
FONTE: http://english.peopledaily.com.cn/90883/7986595.html
 

Traduzione di Andrea Turi

 

 

“L’AQUILA DELLA STEPPA”, RECENSIONE

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Cos’è il Kazakistan? Domanda molto banale ma al quale l’italiano medio, al più, risponderà “un’ex repubblica sovietica”.

A colmare questa grave lacuna ha però provveduto il giornalista Andrea Fais con il nuovo volume “L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakistan” da poco uscito per i tipi delle Edizioni all’Insegna del Veltro (pagg.162, euro 18,00).

Se fino a venti anni fa questo lembo di terra del vasto continente euroasiatico non era altro che una delle repubbliche che componevano l’impero sovietico, oggi il Kazakistan è uno dei paesi che più hanno compiuto passi da gigante e che insieme alla Russia ela Bielorussiasta sviluppando l’Unione euroasiatica per cercare non solo di rafforzare la collaborazione e politica tra queste tre nazioni ma anche come valida alternativa alla fallimentare Ue estendendola un domani anche ad altre nazioni.

Con il crollo dell’Urss il Kazakistan ha saputo avviare delle politiche particolari che combinando insieme statalismo e ponderata apertura ai mercati internazionali hanno permesso all’economia locale di riuscire a diventare molto più dinamica e guidare la rinascita collettiva.

In questo saggio il giovane ricercatore perugino ha ricostruito il passato del paese focalizzando poi l’attenzione sul presente che potrebbe e dovrebbe garantire un futuro radioso a questa nazione posta all’incrocio tra il continente europeo e quello asiatico, in una posizione quanto mai cruciale e delicata per poter gestire i traffici commerciali tra questi due mondi; con la classe dirigente locale che ben conscia di ciò si sta preparando a sfruttare al meglio questa situazione.

Particolarmente interessante e degna di nota appare la parte riguardante alla dottrina militare kazaka che negli ultimi venti anni è mutata ben quattro volte e di cui l’autore fornisce validi esempi e spiegazioni.

Per meglio comprendere il ruolo del Kazakistan ed il pensiero geopolitico del Paese l’autore ha deciso di inserire nel volume alcuni discorsi scelti del presidente kazako Nursultan Nazarbaev.

Ad impreziosire ulteriormente il volume la prefazione realizzata da Aleksandr Dugin, professore ordinario presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università statale Lomonosov di Mosca.

 

FONTE: http://www.ilfarosulmondo.it/wp/?p=2328

 

LA GUERRA CIVILE SIRIANA, MOTTO DI POPOLO O COMPLOTTO INTERNAZIONALE? ALCUNI ELEMENTI DI RIFLESSIONE

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La guerra civile che in questi mesi sta riguardando e insanguinando la Siria seppur inquadrata nel contesto della primavera araba è una questione geopolitica assolutamente a se stante.  Ovvero mentre nel caso degli altri paesi arabi le rivolte hanno avuto ripercussioni quasi soltanto all’interno dei rispettivi confini nazionali, ed una volta spenti i focolai della rivolta tutto è presto tornato ad una parvenza di normalità anche istituzionale,  nel caso della Siria gli esiti del conflitto porteranno conseguenze a più ampio raggio, tanto da suggerire che sia stato il governo di Bashar Assad e non il cambiamento democratico il vero obiettivo delle ormai tanto discusse manovre occulte di destabilizzazione del Medio Oriente.  Mentre nel caso del nord Africa secondo alcuni rumours provenienti dall’opinione pubblica araba non si tratterebbe d’altro che di un mescolamento delle carte stanche e usurate impersonate dai vecchi leaders per potersi appoggiare a nuove figure di governo e approfittare di un caos nazionale bellicoso e anti democratico al punto da poter giustificare un intervento della NATO, nel caso della Siria un simile intervento delle potenze atlantiste scatenerebbe una terribile e forse insostenibile guerra regionale essendo che il paese è considerato un baluardo strategico e inviolabile in primis dal’Iran e secondariamente dalla Russia, in quanto facente parte, contrariamente ai paesi nord africani, di un sistema di alleanze difensive che ne fanno non una pedina isolata ma il tassello inviolabile di un blocco unico.

In questo contesto o per meglio dire con questa chiave di lettura leggeremo quanto qui di seguito.

Le forze in gioco,  pronte a difendere la Siria e a intervenire per difendersi l’un l’altra (questo preoccupa non poco israeliani e anglo americani) sono principalmente rappresentate dall’ormai arcinota triade del blocco sciita composta da alawiti e forze governative siriane, Hezbollah libanese (nato formalmente nel 1982 da una scissione di Amal, altro partito sciita) e Repubblica Islamica dell’Iran. Tutte e tre diverse tra loro considerando che Hezbollah è soltanto uno dei principali partiti del paese (seppur oggi al governo in Libano), gli alawiti sono il gruppo religioso sciita politicamente egemonico, che ha dato alla Siria il suo presidente e alti funzionari governativi e vertici delle efficientissime forze armate (pressoché una rarità nel mondo arabo), ma rappresenta una netta minoranza religiosa nel paese e soltanto nel caso dell’Iran si può parlare di un sistema sciita che si incardini nelle istituzioni ma che rappresenti al contempo anche la maggioranza religiosa e quindi politica della nazione.

Quest’ultimo è l’unico a risultare davvero inattaccabile (si veda anche lo scarso esito dei moti sovversivi del movimento verde) e ciò per diversi motivi tra i quali: la sua sopraccitata coesione interna, lo sviluppo notevole delle sue forze armate (l’Iran è probabilmente l’unico tra i paesi islamici in grado di mettere in campo forze di terra di mare e d’aria davvero in grado di avere un notevole impatto operativo) e della sua intelligence, il controllo che il governo può esercitare su media e propagandistici flussi di informazione (tentativi di demagogici depistaggi compresi), la sua autonomia energetica, commerciale e di risorse che limita gli effetti del’embargo ad una questione di semplice disturbo, il paese è autosufficiente sia perché ha facilmente adattato e riconvertito le sue rotte commerciali sia perché ha incentivato e potenziato transazioni con altri parteners economici non aderenti all’embargo (l’Italia stessa ad esempio continua a non rinunciare al petrolio iraniano seppur giunga con maggiori difficoltà).

Questo cosa centra con la Siria ci possiamo domandare; semplice: gli alleati dell’Iran potranno sempre contare su un bacino di assistenza e rifornimenti di ogni genere pressoché inesauribile, per altro agevolati negli scambi dalla contiguità territoriale dei loro confini. Per tanto fin che Russia e Cina continueranno a mettere il loro veto a missioni di sedicente intervento umanitario militare da parte della NATO e dell’ONU l’unico modo di influire sulle vicende interne di questi paesi sarà l’arma della guerra civile e del cosiddetto soft power per poter sostituire il governo Assad con uno più vicino alle potenze atlantiste (sempre che uno dei tre attori non commetta l’errore folle di attaccare per primo una delle potenze alleate della NATO). USA e Gran Bretagna hanno dalla loro molti alleati anche nel medio Oriente ma indebolire il blocco sciita è per loro vitale.

Rovesciare un uomo forte come Assad non è cosa da poco, egli gode ancora di un ampio consenso in patria e tra i suoi alleati internazionali (sostegno comunque dovuto visto che con un eventuale ingresso degli americani in Siria Hezbollah si sentirebbe isolato e l’Iran accerchiato) e soprattutto per ora le autorità siriane non contemplano l’ipotesi di altri candidati alla guida del paese. Nonostante le non confermabili notizie di brutalità sui ribelli, di importanti defezioni e tradimenti di alcuni alti esponenti delle forze armate l’esercito siriano non retrocede. USA e Israele hanno un medesimo obiettivo ma tempistiche e pretesti diversi per attuarlo; gli americani cercano di giocare parsimoniosamente la carta umanitaria e del diritto di autodeterminazione dei popoli, Israele quella della minaccia di attacco e di crisi regionale causata ovviamente dai suoi nemici. Da Israele l’Iran si aspetta invece un attacco repentino ed improvviso poiché Tel Aviv ha già dimostrato di essere innervosita e preoccupata da un sempre crescente incremento della potenza militare di Hezbollah e dell’Iran, alla quale vorrebbe porre fine in modo definitivo con una guerra diretta. USA e Israele possono contare come appunto detto su alleati importanti tra i paesi arabi tra i quali principalmente Arabia Saudita e Turchia (quest’ultima già parte della NATO). Esistono infatti due guerre interne al mondo islamico, due “fitna”. La prima e probabilmente più lacerante, tanto antica quanto nota, di carattere religioso è quella tra sciiti e sunniti, un vero e proprio perno incuneato nel mondo islamico che è stato fin troppo facile utilizzare come leva per spaccarne la resistenza. L’altra invece tutta inserita nel contesto meramente politico-egemonico è quella per la conquista del ruolo di leader del mondo islamico o come viene oggi definita la “lotta per il nuovo califfato”. I pretendenti a questa curiosa quanto irrealizzabile competizione sono la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran. Per quanto concerne la situazione siriana il più interessante da prendere in analisi è senz’altro la Turchia. Damasco sede del primo califfato, Istanbul dell’ultimo, Siria e Turchia si stanno sfidando a colpi di nevrili provocazioni e dimostrazioni di forza. La Turchia sa di non poter al contrario dell’Iran combattere da sola questa guerra egemonica ed ha per tanto bisogno di alleati esterni.

Inoltre la Siria in caso di aggressione da parte turca ha più volte fatto sapere di poter estemporaneamente scaricare sul complesso di dighe della Turchia meridionale una quantità devastante di missili, tale da sommergere l’intera area e lasciare il paese quasi privo di approvvigionamenti idrici e idroelettrici; per questo motivo Ankara è più propensa ad appoggiare eventuali aggressioni atlantiste o le rivolte interne alla Siria stessa. La questione delle migliaia di profughi per esempio è un’arma che la Turchia sta dimostrando di voler usare. In generale la strategia della tensione sui confini è già di per se un’azione belligerante (si pensi ai casi oramai sempre più frequenti di esplosioni di congegni militari vari) ma purtroppo anche i profughi, la loro sofferenza e il loro disagio possono essere facilmente strumentalizzati. Intanto bisogna ricordare che nel proverbiale balletto delle cifre relativamente a quante persone effettivamente abbiano preso parte da una parte o dall’altra al conflitto, quante siano le vittime e cosa stia realmente accadendo in zone dove la stampa fa difficoltà enormi ad essere presente la massa di migranti terrorizzati è un dato oggettivo e facilmente documentabile e arbitrariamente commentabile. Le migliaia di persone in movimento possono offrire il pretesto per un intervento risolutore in quanto è effettivo il rischio di destabilizzazione di una regione sotto il profilo politico dei rapporti tra minoranze e maggioranze religiose soprattutto la dove i rapporti si possono invertire, nonché sotto il profilo demografico e sanitario (ricorderemo il caso di settembre nero, dei campi profughi di Shabra e Shatila a Beirut e dei kurdi iracheni). Va purtroppo inoltre ricordato che queste masse possono sia essere utilizzate come scudi umani, ovvero come elemento di deterrenza, in caso di improvvisi scontri a fuoco sia come utile bacino di scontenti pronti ad imbracciare il fucile per rivolgersi dopo aver subito la dovuta propaganda contro la causa della loro disperazione. I confini siriani sono però anche strategici in entrata. E’ infatti ormai fatto acclarato che una cospicua parte dei miliziani ribelli non sono di origine siriana ma arabi appartenenti alla dottrina fondamentalista sunnita dei salafiti, provenienti dai paesi del Golfo Persico. Essi penetrano clandestinamente insieme al flusso di armamenti a loro destinati dal confine turco, nord libanese (dove Hezbollah tradizionalmente è poco presente e quindi non può vigilare sul flusso di nemici del loro alleato) e dalla Giordania, paese che ha sempre mantenuto un profilo geopolitico defilato ma che in realtà offre supporto alle forze atlantiche in particolare alla Gran Bretagna (a dimostrazione di ciò, se ce ne fosse ulteriore bisogno, si può ricordare uno di quei fatti di per se poco notevoli ma di grande valore simbolico ovvero che l’attuale Re di Giordania, Abdallah II, si è formato militarmente in una accademia militare inglese).

Infine concludendo, si osservi l’inconsueta mappatura dei siti maggiormente interessati dai fenomeni di rivolta. Quando un paese è in lotta contro un regime dispotico, gli eventi sovversivi armati di norma si verificano con la logica delle macchie di leopardo, con rapidi ed improvvisi atti guerriglia partigiana, a volte semplici atti di sabotaggio, disseminati in tutto il paese, come disseminate in tutto il paese dovrebbero essere le manifestazioni di piazza e atti di disobbedienza. E’ invece dubbio il concentrarsi chirurgico in alcune zone specifiche della nazione, quasi il tentativo non fosse quello di protestare contro un regime o indebolirlo fino a farlo cedere ma fiaccarlo, delegittimarlo, colpendolo nelle sue città nevralgiche, come a voler invece preparare il terreno per una invasione, per una guerra. E’ spiegabile anche in questo modo il concentrarsi delle rivolte sia nella capitale sia nella città più grande e prospera, Aleppo o nel porto del paese, Latakia. Si ha l’impressione che si vogliano riscrivere le coordinate del vecchio accordo Sykes-Picot dove il ruolo di Lawrence questa volta lo giocherebbero i veri o presunti ribelli. Mettere le mani sul Medio Oriente in questa epoca però non significa più organizzare o illudere a proprio vantaggio bande di beduini e cammellieri sperduti ma scatenare un evento bellico di proporzioni globali.

 

Emanuele Bossi è Dottore di ricerca in Geostrategia, ricercatore del Centro Studi Eurasia Mediterraneo e coautore del libro Nel cuore di Hezbollah (Anteo, 2012)


DANTE E L’INDIA

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Con la sua “dottrina che s’asconde – sotto il velame delli versi strani” e con la sua certezza di essere solo il copista di Amore, Dante non fu un “letterato” più di quanto non lo siano stati un rshi vedico o un mantrakrt, ma fu un veggente, un enunciatore della verità (satyavâdin).


(Ananda K. Coomaraswamy)

 

Quando sulla montagna del Purgatorio Dante e Virgilio vengono invitati dall’angelo della castità ad entrare nelle fiamme, perché altrimenti non potrebbero proseguire la salita, è il tramonto del 12 aprile. Il sole occupa la medesima posizione in cui si trova quando invia i suoi primi raggi a Gerusalemme, mentre il fiume Ebro scorre sotto la costellazione della Bilancia, che è alta nel cielo, e le acque del Gange sono infuocate dal sole pomeridiano. “Sì come quando i primi raggi vibra – là dove il suo fattor lo sangue sparse, – cadendo Ibero sotto l’alta Libra, – e l’onde in Gange da nona riarse, – sì stava il sole” (Purg. XXVII, 1-5). Dante indica l’ora del giorno mediante il riferimento a quattro punti geografici fondamentali: Gerusalemme, l’Ebro, il Gange, il Purgatorio. Secondo la geografia dantesca, infatti, la terra abitata dai vivi corrisponde alla superficie dell’emisfero boreale ed ha al proprio centro Gerusalemme, la quale, trovandosi agli antipodi del Purgatorio, è equidistante dall’estremo occidente, segnato dall’Ebro, e dall’estremo oriente, rappresentato dal Gange. Perciò, quando il sole sorge sul Purgatorio, all’orizzonte di Gerusalemme il giorno tramonta sull’Ebro e la notte scende sul Gange; al mattino del 10 aprile, mentre i due poeti erano ancora alle falde della montagna, il sole era già arrivato all’orizzonte di Gerusalemme e la notte, girando opposta al sole, usciva dal Gange nella costellazione della Bilancia (costellazione nella quale esso non si trova più dopo l’equinozio d’autunno, quando la notte diventa più lunga del dì). Con le parole di Dante: “Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto – lo cui meridian cerchio coverchia – Ierusalèm col suo più alto punto; – e la notte, che opposita a lui cerchia – uscia di Gange fuor con le Bilance, – che le caggion di man quando soverchia” (Purg. II, 1-6).

Che il Gange sia il vero oriente del mondo, Dante lo ribadisce nell’XI del Paradiso: la “fertile costa” di Assisi, l’Oriente da cui sorse la luce solare di San Francesco, è equiparata al Gange, dal quale, nell’equinozio di primavera, il sole, più luminoso che mai, nasce rispetto al meridiano di Gerusalemme.

L’altro grande fiume dell’India, l’Indo, viene assunto nella Commedia come simbolo dei luoghi orientali non toccati dalla predicazione cristiana. Nel cielo di Giove l’Aquila, figurazione dell’eterna idea della giustizia, espone a Dante il dubbio che egli nutre circa il dogma cristiano della giustificazione per la fede: se “un uom nasce alla riva – dell’Indo, e quivi non è chi ragioni – di Cristo né chi legga né chi scriva” (Par. XIX, 70-72) e quindi, senza sua colpa, “muore non battezzato e sanza fede” (Par. XIX, 76), perché mai Dio, che è somma giustizia, lo condanna per l’eternità?

Gli Indiani, ai confini orientali del mondo, non sono stati raggiunti dalla buona novella; però furono anch’essi testimoni dell’eclisse che si verificò alla morte di Gesù ed interessò tutti i popoli della terra: “all’Ispani e all’Indi, – come a’ Giudei, tale eclissi rispose” (Par. XXIX, 101-102).

Tra le fonti medioevali relative a quell’estrema e sconosciuta regione vi era il De situ Indiae et itinerum in ea vastitate, ritenuto una lettera di Alessandro Magno ad Aristotele (1). Da una citazione dell’epistola contenuta nei Meteora di Alberto Magno ( I, 4, 8 ) Dante apprende di un episodio di cui Alessandro sarebbe stato protagonista in India e lo utilizza per costruire una similitudine: “Quali Alessandro in quelle parti calde – d’India vide sopra il suo stuolo – fiamme cadere infino a terra salde, – per ch’ei provide a scalpitar lo suolo – con le sue schiere, acciò che lo vapore – mei si stingueva mentre ch’era solo: – tale scendeva l’etternale ardore” (Inf. XIV, 31-37). Insomma, le falde di fuoco che nel terzo girone del settimo cerchio tormentano i violenti contro Dio (bestemmiatori, usurai, sodomiti) ricordano a Dante le fiamme che Alessandro vide piovere sul suo esercito nelle regioni calde dell’India: erano fiamme che restavano accese finché cadevano a terra, per cui il Macedone ordinò ai soldati di calpestare bene il terreno, affinché il fuoco si spegnesse meglio finché era isolato.

La caratterizzazione dell’India come regione particolarmente calda ritorna in Purg. XXVI, 21-22: “ché tutti questi n’hanno maggior sete – che d’acqua fredda Indo o Etiopo”. Le anime purganti dei lussuriosi notano che Dante è vivo e ardono dal desiderio di avere da lui una spiegazione più di quanto ardano per la sete gl’Indiani o gli Etiopi.

Un’altra meraviglia dell’India di cui Dante è al corrente, è che laggiù crescono alberi altissimi: la notizia gli proviene verosimilmente da Virgilio, secondo il quale in quell’estrema parte del mondo, nelle vicinanze dell’Oceano, vi sono alberi tanto alti, che nessuna freccia potrebbe raggiungerne la cima (2). Ma l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male si eleva ancora più in alto, sicché costituirebbe oggetto di meraviglia per gl’Indiani: “La coma sua, che tanto si dilata – più quanto più è sù, fora da l’Indi – ne’ boschi per altezza ammirata” (Purg. XXXII, 40-42).

Ma nel Purgatorio ci sono due altri alberi (Purg. XXII-XXIII e in Purg. XXIV) che ci rimandano all’India: sono quelli che si trovano presso la cima della montagna, al di sotto della pianura del Paradiso Terrestre. Il primo albero “è l’immagine riflessa e rovesciata dell’Albero della Vita, di cui le anime del Purgatorio (cosmico) hanno fame e sete, ma di cui non possono aver parte e su cui non possono neppure salire” (3), mentre il secondo costituisce una “immagine rovesciata dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male” (4). Così il grande erudito anglo-indiano Ananda K. Coomaraswamy, il quale esamina il simbolo dell’Albero Rovesciato sulla base delle descrizioni che vengono fornite dai testi indiani, e non solo da quelli, poiché “l’idea di un albero diritto e di uno rovesciato ha una diffusione nel tempo e nello spazio che va da Platone a Dante e dalla Siberia all’India e alla Melanesia” (5). Vi sono però alcuni elementi che accomunano la descrizione dantesca a quella indiana in particolare: ad esempio, sul primo dei due alberi rovesciati “cadea de l’alta roccia un liquor chiaro – e si spandeva per le foglie suso” (Purg. XXII, 137-138), così come “gocciolante di soma” (soma-savanah) è il Fico del Brahmaloka, descritto in Chândogya-upanishad, VIII, 5, 3-4.

Infine, bisogna prendere in considerazione anche Purg. VII, 74, un verso letto e interpretato in diversi modi, nel quale però sarebbe presente, secondo alcuni studiosi (Scartazzini, Sapegno, Mattalia), il sintagma “indico legno”. Si tratterebbe della lychnis Indica, una pietra preziosa citata da Plinio (“Quidam enim eam dixerunt esse carbunculum remissiorem”); per via del suo fulgore, essa è stata evocata nella descrizione della valletta dei principi, i cui colori vividi e smaglianti ricordano lo splendore delle miniature e delle gemme preziose.

 

 

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Tra le numerose analogie che Coomaraswamy riscontra tra la Commedia e le Scritture sacre dell’India, alcune ci sembrano particolarmente degne di nota. Il tema della “paternità solare”, enunciato ad esempio in Shatapatha Brâhmana I, 7, 6, 11, è presente anche in Par. XXII, 116; il simbolismo dell’incesto di Prajâpati, sposo e figlio di Vâc (Pancavimsha Brâhmana VII, 6; XX, 14) è identico a quello che si connette alla definizione di Maria come “Vergine madre, figlia del tuo figlio” (Par. XXXIII, 1);  i “tre mondi” (sâttvika, râjasika e tâmasika) in cui secondo il pensiero indù si differenzia la manifestazione universale trovano riscontro nella tripartizione cosmica descritta in Par. XXIX, 32-36; all’imposizione della corona e della mitra, che ha luogo nel rituale indù della “vivificazione del re”, assistiamo anche in Purg. XXVII, 142; ecc. ecc.

Già altri studiosi dell’opera di Dante avevano fatto riferimento all’India. Dante Gabriele Rossetti (1828-1880), basandosi sull’assunto che “le scuole segrete son modellate, presso a poco, sopra un solo sistema” (6) e “spesso impiegano vocaboli d’idiomi stranieri per dare un lampo di quegli arcani che non osano apertamente spiegare” (7), aveva addirittura creduto di rintracciare la sillaba sacra OM in due versi di Dante: “Chi nel viso de li uomini legge ‘omo’” (Purg. XXIII, 32) e “O om che pregio di saver portate” (Rime, Savete giudicar vostra ragione, 2).  Arturo Graf (1848-1913) aveva notato che la Commedia e la tradizione indiana attribuiscono ai luoghi della beatitudine caratteristiche simili: se nella “divina foresta spessa e viva” (Purg. XXVIII, 2) regna “un’aura dolce, sanza mutamento” (Purg. XXVIII, 7), il monte Meru non conosce “né le tenebre, né le nubi, né intemperie di nessuna sorta” (8). Angelo De Gubernatis (1840-1913), oltre ad avere rintracciato un prototipo indiano della figura di Lucifero (9), aveva identificato la montagna del Purgatorio col Picco di Adamo dell’isola di Taprobane (vale a dire Ceylon), che il mappamondo di Marino Sanudo collocava nel 1320 all’estremo limite orientale della terra: “Posto che non sia più alcun dubbio che Dante collocasse il Purgatorio in una isola, creduta deserta, agli antipodi di Gerusalemme, non mi pare ora che occorra molta fatica a discoprire che una tale isola, secondo la mente di Dante, doveva essere la terra sacra di Seilan” (10). De Gubernatis aveva anche ipotizzato che vi fosse il “paesaggio indiano” (11) all’origine della raffigurazione dantesca del carro trionfale tirato dal grifone (Purg. XXIX, 106-120). Meno sicuro nell’indicare l’ubicazione della montagna del Purgatorio era stato Miguel Asìn Palacios: “Cual fusese esta montaña, ya no es tan fàcil de precisar, porque las opiniones se dividen: bien se la supone en Siria, bien en Persia, bien en Caldea, bien en la India, pero esta ultima situaciòn ha sido la predominante” (12). Giovanni Pascoli (1855-1912), al quale la Commedia procurava “la vertigine dei libri dell’antica India” (13), aveva abbozzato un parallelo tra il principe Siddharta e l’Alighieri, Buddha dell’Europa: “Così il nostro Shakya, come lo Shakya indiano, così l’eremita come l’esule, a distanza di venti secoli, cominciano dalla profonda considerazione dell’umana miseria. Io vedo l’uno estatico a’ piedi del fico, ashvattha ficus religiosa; l’altro errante nell’ombra della selva. E dalla miseria si elevano, l’uno per svanire nel Nirvana, e l’altro per profondare nel Miro Gurge. E tutti e due dalla miseria escono ispirati a predicare a tutti la pace e l’amore: la felicità” (14). René Guénon (1886-1951) aveva paragonato “l’Imperatore, come lo concepisce Dante, (…) al Chakravartî o monarca universale degli Indù, la cui funzione essenziale è di fare regnare la pace, sarvabhaumika, vale a dire stendentesi su tutta la terra” (15).

Tra gli studi recenti, ci limiteremo qui a segnalare un saggio di Nuccio D’Anna sul De vulgari eloquentia, nel quale, per far comprendere il senso e il fondamento dell’ermeneutica linguistica di Dante, viene richiamato l’analogo procedimento indiano del nirukta, esemplificato dal brano di un testo sanscrito relativo a tale argomento (16). Nella Prefazione del saggio, d’altronde, l’autore avverte che una migliore conoscenza dei testi orientali concernenti il simbolismo linguistico – e a titolo esemplificativo egli cita, tra gli altri, anche i “Tantra indù” (17) – ci farebbe comprendere che la struttura simbolica dell’opera di Dante è straordinariamente vicina a quella delle altre culture tradizionali dell’Eurasia.

 

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Quando Dante scrive la Commedia, a Delhi regna una dinastia afghana d’origine turca (18), quella dei Khalgî, inaugurata da Gialâl ud-dîn Fîrûz (1290-1296). Alla morte di quest’ultimo, ‘Alâ’ ud-Dîn Khalgî Muhammad Shâh (1296-1316) riconquista il Gujarât e nel 1303 si impadronisce di Chittoor nel Rajasthan. Sotto la guida di ‘Alâ’ ud-Dîn il Sultanato di Delhi sottomette quasi tutti i regni indù del sud e dell’ovest e si trasforma in un impero subcontinentale, raggiungendo così il culmine della potenza politica, dello splendore culturale e della prosperità economica. Alla morte di ‘Alâ’ ud-Dîn, il trono viene usurpato da Khusraw Khân, un cortigiano apostata dell’Islam, che getta il regno nell’anarchia, finché nel 1320 la situazione viene salvata da Ghâzî Malik Tughluq, il quale instaura un governo esemplare ma destinato a durare pochi anni (1320-1325). Tra il 1253 e il 1325, in un arco di tempo che coincide con quello della vita di Dante, operò nel Sultanato di Delhi Amîr Khusraw Dihlawî, un famoso poeta formatosi alla scuola del grande shaykh Nizâm al-Dîn Awliyâ’ (m. 1325), importante figura della Cishtiyya, l’ordine iniziatico fondato da Mu‘în ud-dîn Hasan Cishtî (1142-1236).

Di tutto ciò, Dante seppe poco o nulla. Ma neanche in India si ebbe notizia di Dante fino al secolo XIX, quando la diffusione della lingua inglese favorì negli studiosi indiani il contatto con le letterature europee. “E poi, per mera coincidenza, l’uomo che in veste di esperto consigliò alla East India Company, nel suo famoso documento sull’istruzione in India nel 1834, non solo l’uso della lingua inglese come mezzo di espressione negli uffici, nei tribunali e nelle scuole, ma anche l’insegnamento della scienza, della filosofia, della medicina, e dell’economia politica europee, e cioè Lord Macaulay, era un appassionato ammiratore della poesia di Dante, e quindi è molto improbabile che non solo il suo saggio sul poeta (in Criticism on the principal Italian writers, 1824) ma anche il suo celebre confronto fra Dante e Milton (pubbl. nell’agosto 1825 nella “Edimburg Review”), fossero sfuggiti agli studiosi indiani di letteratura inglese, e che questo stesso saggio non costituisse una delle prime letture critiche, se non proprio la prima lettura, su Dante per un principiante di letteratura italiana, e non solo per un principiante” (19).

Così vi furono poeti e prosatori che intrapresero lo studio dell’italiano al fine di poter leggere Dante nell’originale. Tra questi va citato innanzitutto il massimo poeta bengalese dell’Ottocento, Michael Madhûsudan Datta (1824-1873), autore del primo poema epico in lingua bengalese, Meghanath-Badh (1861-’62), nel quale l’influenza di Dante si rivela “soprattutto nella concezione dell’Inferno e nell’attuazione di questa concezione in termini descrittivi, geografici e topografici” (20). Alla Commedia si ispira anche un poema filosofico di Hemachandra Vanyopadhyaya (1838-1903), Chhayamayi (1880), dove i peccatori vengono assegnati alle varie zone dell’inferno a seconda dei loro peccati. Lo stesso Hemachandra, d’altronde, riconobbe esplicitamente il proprio debito nei confronti di Dante. Rabindranath Tagore (1861-1941) già all’età di sedici anni pubblicò un articolo su Dante (e uno su Petrarca). Shri Aurobindo (1872-1950) studiò ininterrottamente la Commedia e ai suoi giovani discepoli che componevano poesie (in bengalese e in inglese) propose i modelli di Dante, Milton e Goethe. Suo fratello Manmohan Ghose (1867-1924), studioso delle letterature europee, aveva avuto tra i propri compagni di studi Laurence Binyon (1869-1943), traduttore inglese di Dante. La poetessa Toru Dutt (1856-1877) scrisse un commento critico sulla traduzione della Commedia eseguita da Antonio Deschamps. Un’altra poetessa che deve essere menzionata per l’interesse nutrito nei confronti di Dante è Sarojini Naidu (1879-1949), “l’usignolo dell’India”; fu la prima donna a presiedere il Congresso Nazionale Indiano e a governare, dopo l’indipendenza, lo stato dell’Uttar Pradesh.  Dinesh Chandra Datta tradusse la Bhagavad Gita in terzine dantesche e scrisse un sonetto A Dante (21). Terminiamo questa breve rassegna citando Muhammad Iqbal (1873-1938), il massimo poeta contemporaneo dell’India musulmana, autore tra l’altro di un Jâvêd-nâma in lingua persiana che si inserisce nella tradizione dei poemi sull’Ascensione notturna del Profeta Muhammad e ricorda simultaneamente il viaggio celeste di Dante. Iqbal “fu influenzato soprattutto dalle tre grandi ‘Divine Commedie’ dell’Occidente, quella dantesca (che conosceva in traduzioni inglesi, quella miltoniana e quella goethiana” (22). Nel 1932, lo stesso anno in cui veniva pubblicato a Lahore il Jâvêd-nâma di Iqbal, sempre a Lahore usciva su “The Muslim Revival” un articolo di un non meglio precisato Inayat Ullah sulle ricerche effettuate dagli studiosi europei circa le fonti orientali della Divina Commedia (23).

Termineremo con una curiosità. Non sappiamo di traduzioni di Dante in sanscrito; risulta invece che un brano dell’Inferno (l’episodio del Conte Ugolino nei canti XXXII-XXXIII) venne tradotto in sanscrito da un italiano: l’accademico d’Italia Arturo Farinelli (1867-1948).

 

 

 

  1. Versione italiana integrale in G. Tardiola (a cura di), Le meraviglie dell’India, Roma 1991.
  2. Aut quos Oceano propior gerit India lucos, – extremi sinus orbis, ubi aëra vincere summum – arboris haud ullae iactu potere sagittae?” (Georg. II, 122-124).
  3. A. K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, Milano 1987, p. 340.
  4. A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 341.
  5. A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 333. Per una più ampia rassegna delle descrizioni indiane dell’Albero del Mondo, cfr. A. Zucco, Il significato originario di un’antica parabola (Mahâbh., XI, 5, 6, 7) e la sua diffusione letterario e artistica in Oriente e Occidente, Istituto di Glottologia, Università degli Studi di Genova, 1971.
  6. G. Rossetti, Il mistero dell’amor platonico del Medio Evo, Arché, Milano 1982, vol. I, p. 78).
  7. Ibidem.
  8. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Arnaldo Forni, Bologna 1980, vol. I, p. 23).
  9. A. de Gubernatis, Le type indien de Lucifer chez Dante, in Actes du Xe Congrès des Orientalistes. Questo scritto, che non ci è stato possibile rintracciare, viene citato da R. Guénon (L’esoterismo di Dante, Atanòr, Roma 1971, p. 47 n.) assieme a un altro articolo del medesimo autore: Dante e l’India, “Giornale della Società asiatica italiana”, vol. III, 1889, pp. 3-19. Parlando (in L’esoterismo di Dante, cit., pp. 46-47) di coloro che “arrivano fino a supporre che Dante abbia potuto subire direttamente l’influenza indiana”, Guénon riferisce inoltre di un “estremamente superficiale” Essai sur la philosophie de Dante (Faculté des Lettres, Paris 1838), il cui autore, Antoine Frédéric Ozanam, scorge nella Commedia un’influenza indiana, oltre che islamica.
  10. A. de Gubernatis, Dante e l’India, cit., p. 10.
  11. A. de Gubernatis, Dante e l’India, cit., p. 15.
  12. M. Asìn Palacios, La escatologìa musulmana en la Divina Comedia, Hiperiòn, Madrid 1984, p. 195.
  13. G. Pascoli, Prefazione alla Prolusione al Paradiso, in Prose, vol. II Scritti danteschi Sezione II, Mondadori 1957, p. 1578.
  14. Ibidem.
  15. R. Guénon, op. cit., p. 62.
  16. N. D’Anna, La Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in Dante, I libri del Graal, Roma 2001, pp. 43-44.
  17. N. D’Anna, op. cit., p. 10.
  18. Sotto la voce India dell’Enciclopedia dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971, vol. III, p. 420, Adolfo Cecilia, scrive invece che “Ai tempi di D. la regione (…) era praticamente tutta sotto il dominio degli Arabi” (sic).
  19. Ghan Shyam Singh, Fortuna di Dante in India, in Enciclopedia dantesca, cit., p. 421 s. v. India.
  20. Ghan Shyam Singh, ibidem.
  21. Trad. it. in Ghan Shyam Singh, cit., p. 423.
  22. A. Bausani, in: M. Iqbal, Il poema celeste, Leonardo da Vinci, Bari 1965, p. 34.  Su Iqbal cfr. C. Mutti, Avium voces, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1998, pp. 53-59.
  23. G. Galbiati, Dante e gli Arabi, in AA. VV., Studi su Dante, Hoepli, Milano 1939, p. 195.

L’EQUILIBRISMO DI DANIEL ORTEGA

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Managua, 6 novembre 2011. Una folla di gente in festa si riversa per le strade della capitale con striscioni neri e rossi – i colori simboleggianti la Rivoluzione Sandinista del 1979 – per salutare il secondo mandato consecutivo di Daniel Ortega alla presidenza del Nicaragua, il terzo della sua carriera di guerrigliero prestato definitivamente alla politica (1). Il risultato uscito dalle urne (62% di voti, con un’affluenza attorno al 80%), insieme alla maggioranza assoluta dei deputati all’interno dell’assemblea nazionale, assicurano al nuovo eletto altri cinque anni di piena stabilità governativa.

Il grande successo ottenuto dall’esponente del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) non è stato esente da polemiche, la cui eco si è propagata oltre i confini nazionali. L’accusa di frode elettorale, con cui l’opposizione ha cercato di invalidare l’esito delle consultazioni, non ha trovato un effettivo riscontro da parte degli osservatori internazionali. Infatti, pur segnalando alcune criticità nel processo elettivo e indicando alcuni miglioramenti da apportare alla legge elettorale, il risultato è stato sostanzialmente confermato (2).

Se si prescinde per un momento dalle denunce di brogli elettorali (3) e dall’immagine di “nuovo Somoza” che spesso le principali testate giornalistiche e riviste di studi di settore internazionali utilizzano per descriverlo, ciò che emerge dalla figura di Ortega oggi è un principio di equilibrio del tutto nuovo. Una sorta di cambio di direzione che segna uno spartiacque dal suo passato di guerrigliero e rivoluzionario in prima linea.

 

 

Equilibrismo all’interno dei confini 

Osservato dalla lente macroeconomica, nel corso del suo recente sviluppo il Nicaragua ha ottenuto dei buoni risultati in termini di crescita del PIL. Con una media annua attestata intorno al 4%, la rilevanza del dato è pressoché scontata, considerata soprattutto la scarsità di alcuni importanti indicatori geopolitici come la disponibilità di risorse naturali e il numero della popolazione.

L’immediato entusiasmo di questa descrizione è però subito ridimensionato dalla visione più profonda di un Paese che subisce ancora il peso della Storia. L’essere stato pedina fondamentale in uno scacchiere oggetto della politica d’influenza statunitense, nonché teatro di uno degli ultimi scontri bipolari, si è riflesso in una dittatura di 40 anni a cui sono seguiti un violento conflitto di guerriglia rivoluzionaria e una lotta controrivoluzionaria. Gli esiti di tali processi sono visibili oggi in un sistema infrastrutturale ed energetico carenti, in una struttura istituzionale e democratica ancora debole, ma soprattutto in una popolazione caratterizzata da un alto tasso di povertà.

La svolta nel cammino verso la risoluzione di queste problematiche è stata intrapresa con la rielezione di Daniel Ortega a fine 2006. I risultati dei suoi primi cinque anni di governo sono incoraggianti e presagiscono un ulteriore quinquennio segnato su questo solco. Ma al di là del fine economico prefissato, ciò che è interessante rilevare riguarda il mezzo utilizzato per raggiungerlo.

Se si analizzano alcuni dei provvedimenti attuati dal governo è possibile scorgere quel principio di equilibrio, già accennato all’inizio del discorso, dal quale emerge una capacità di bilanciamento tra due forze contrapposte. In altre parole, discostandosi in maniera preponderante dalla prima esperienza governativa sandinista Ortega è stato in grado di fornire al Paese una stabilità basata su di un compromesso tra Socialismo del XXI secolo – ispirato dal suo esponente di spicco Hugo Chávez – e un’ortodossia economica di libero mercato.

Uno dei nodi essenziali del nuovo equilibrismo del presidente è l’approccio verso l’élite imprenditoriale nicaraguense. Col suo arrivo è venuta a formarsi un’alleanza tra il gruppo di capitalisti del paese e i ministri del governo sudamericano, fondata su relazioni stabili e su di un clima di dialogo politico aperto. In pochi anni, Ortega è riuscito ad avere il plauso e la fiducia futura dell’intera classe, anche grazie a una legislazione mirata “pro business”; a degli interventi per il miglioramento del sistema infrastrutturale, necessari per attrarre investimenti stranieri; all’aumento del salario minimo e il suo successivo agganciamento alla produttività, fonte di un costo del lavoro tra i più competitivi sul mercato globale. In tal senso vanno lette le dichiarazioni di José Adan Aguerri, presidente del Consiglio Superiore dell’Impresa Privata, il quale ha affermato che “la buona performance economica della nazione è il risultato di un dialogo politico aperto. Sappiamo che saremo ascoltati e non abbiamo paura per un cambio imprevisto delle regole del gioco”(4). Così, durante l’ultima campagna elettorale i leader imprenditoriali si sono detti favorevoli alla continuità e alla stabilità politica fornita dal presidente sandinista, rifiutandosi di appoggiare e di finanziare i candidati a lui opposti e decretando il successo nella sua successiva rielezione.

Rafforzato il lato più liberale, per mantenere il compromesso interno Ortega si è rivolto all’aspetto più sociale della sua politica, con un programma teso alla riduzione della povertà. Attraverso dei sussidi finanziari e una riduzione delle imposte è stato possibile garantire una protezione sanitaria e un’istruzione pubblica per tutti i cittadini. Sempre mediante finanziamenti pubblici, sono state abbassate le tariffe dei trasporti interni, delle forniture elettriche e sono state consegnate alle famiglie delle zone rurali galline, mucche e altri animali da allevamento, con lo scopo di irrobustire il mercato agricolo locale – mediante anche l’erogazione di prestiti a bassi tassi d’interesse. L’ambizioso piano Hambre Zero(5), rimandante all’omonimo intervento brasiliano, è riuscito nell’intento di ridurre drasticamente la percentuale di popolazione che viveva al di sotto della soglia di povertà. Questo soprattutto nella zona caraibica, dove si registrava ancora fino a poco tempo fa un alto tasso di mortalità per fame e malnutrizione.

In linea generale, quanto descritto finora fornisce una visione più chiara del nuovo corso orteguista. Ovviamente, i due aspetti citati rappresentano solo una parte di tale processo interno, ma si configurano come i più emblematici. Essi evidenziano il tentativo di equilibrare le diverse voci della realtà nicaraguense, alla ricerca di un compromesso fondamentale allo sviluppo del Paese. Soprattutto -  lo si vedrà meglio nell’analisi che segue – dimostrano una svolta ideologica in seno al FSLN, la quale non ha mancato di sollevare critiche e malumori nei più “ortodossi” del pensiero sandinista.

 

 

Equilibrismo all’esterno dei confini

Se sul piano interno sono facilmente rintracciabili dei tentativi finalizzati al mantenimento dell’equilibrio tra forze contrapposte, sul piano esterno l’azione governativa di Ortega assume un’esplicita rilevanza in questo senso. Per riflettere sulla questione, il punto di partenza risiede nelle misure prese durante il vertice G8 del 2005.

Nell’incontro dei ministri delle finanze degli Stati partecipanti – tradizionalmente precedente il summit – è stata stilata una lista di Paesi per i quali era previsto l’annullamento del debito estero (in particolare quello detenuto da FMI e BM) e tra cui figurava anche il Nicaragua. L’allora presidente Bolaños ha salutato la notizia come un importante risultato diplomatico della sua amministrazione, ma in sostanza il provvedimento si è tradotto in uno strumento insufficiente (6).

Tale concessione non è stata a “costo zero”. L’azzeramento è dipeso  infatti dall’adesione a vincoli maggiori con le due Istituzioni e riguardati l’attuazione di una serie di aggiustamenti strutturali interni, volti al perseguimento di una politica economica liberista e di maggiore apertura al commercio internazionale. Così, letto da questa angolatura, risulta più chiaro il reiterato appoggio di Ortega alle cosiddette “free-zones” – delle vere e proprie oasi di libero commercio, in cui la produzione e gli investimenti stranieri (principalmente statunitensi e cinesi) sono agevolati da un regime fiscale praticamente inesistente e caratterizzate dalla mancanza di obblighi per il reinvestimento degli utili nel Paese.

Altro elemento utile a chiarire quanto l’azione internazionale orteguista si configuri nel senso di un’ortodossia di libero mercato è l’implementazione del trattato DR-CAFTA, tra Stati Uniti e alcuni Paesi centroamericani. Il provvedimento prevede un accordo di libero scambio, sulla scorta del ben più noto NAFTA, con cui vengono ridotte le tariffe doganali (di circa l’80%) per le esportazioni statunitensi verso i paesi firmatari, ma che non esige un’altrettanta riduzione per le importazioni da quei Paesi. Si tratta del solito accordo asimmetrico con cui Washington – sin dall’inizio della sua politica espansiva di inizio ‘900 – garantisce la propria penetrazione commerciale e la tutela del proprio interesse nazionale nei territori del Centro e del Sud America. Del resto, se si considera che il Nicaragua dipende ancora in larga misura dagli aiuti internazionali, tale accordo rappresenta in sostanza un passo obbligato. Infatti, come beneficiario sia del programma Millenium Challenge Account (MCA) – il cui promotore sono appunto gli Stati Uniti – che del programma Heavily Indebted Poor Countries – attuato da FMI e dalla Banca Mondiale – il Paese riceve grosse somme di denaro, necessarie al finanziamento del suo sviluppo e del piano “Zero Fame”.

Se da un lato, quindi, il carattere atlantista della politica orteguista è ben evidente, dall’altro esistono altri aspetti che lo mettono in forte discussione. Facendo emergere quella sfumatura di equilibrismo che lo caratterizza, spesso il presidente nicaraguense alterna alla realtà di tali misure una retorica anti-imperialista che rimanda al suo passato e alla tradizione sandinista tout court.

A tal proposito, è interessante osservare la posizione mantenute dal governo di Managua durante le negoziazioni dell’Accordo di Adesione (AdA) tra Unione Europea e Centro America, svoltesi nell’aprile del 2009. La delegazione nicaraguense, su richiesta di Ortega, ha abbandonato la trattativa a causa della mancata approvazione di una richiesta di finanziamento, necessario alla diminuzione dell’asimmetria presente tra le due regioni. Successivamente, lo stesso presidente ha dichiarato che “L’Europa, come gli Stati Uniti, sono avvantaggiati nei nostri confronti e vogliono imporre le loro regole, le loro condizioni, mentre continuano a godere di misure di protezione anche se parlano di libero mercato. Il libero mercato è una bugia perché i paesi sviluppati proteggono i loro produttori, le loro industrie, i loro banchieri, mentre a noi proibiscono di proteggere i nostri produttori. Per noi è vietato parlare di sussidio”(7). Queste parole, oltre a ricordare il recente intervento della presidentessa Kirchner all’ONU, sottolineano una tendenza di affrancamento dalla forza egemonica nordamericana, già presente in buona parte dei Paesi del sub-continente. Allo stesso tempo, mettono in luce l’ulteriore tentativo di Ortega di bilanciarsi tra posizioni che, in apparenza, sembrano essere inconciliabili.

Dove il principio di equilibrio assume tratti ancora più evidenti è nella relazione che lega il Nicaragua a due Stati al di fuori del paradigma atlantista: il Venezuela di Hugo Chávez e la Russia di Vladimir Putin. In merito al primo, mediante l’accordo ALBA il flusso di petrodollari confluito in questi anni nelle casse statali nicaraguesi ha permesso il sostentamento delle politiche interne del presidente, nonché la creazione di una élite economica sandinista (i cosiddetti “ALBAgarchs”) impegnata nel re-investimento di tali entrate in progetti necessari allo sviluppo del Paese, in settori quali il turismo, l’agricoltura e le energie rinnovabili.

Per quanto riguarda il secondo, va notato che già in passato il Nicaragua rientrava nell’orbita di influenza dell’URSS grazie al suo appoggio strategico – insieme a Cuba – alla guerriglia rivoluzionaria. Ciononostante, di recente la “relazione speciale” è stata rinvigorita con la vittoria di un appalto da parte Yota, azienda statale russa di telecomunicazioni, per la fornitura della tecnologia necessaria alla creazione e all’implementazione della rete fissa telefonica nicaraguense. Ma tale relazione non si esaurisce nel solo aspetto commerciale: il 4 ottobre di quest’anno il Ministro degli Interni nicaraguense ha annunciato che il suo Paese acquisterà delle automobili blindate “Tigr”, insieme a munizioni e armi per la polizia speciale, confermando anche l’interesse per uno scambio di esperienza con i servizi segreti russi(8). Il sigillo diplomatico, a conferma della crescente e continuata intesa internazionale, è stato posto da Ortega con il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza delle due repubbliche filo-russe dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud, succeduto all’ultimo scontro bellico tra Russia e Georgia del 2008.

In linea generale, il discorso fatto finora aiuta a inquadrare in una visione più chiara l’equilibrismo recentemente sperimentato dal governo sandinista, tanto ad un livello interno che esterno. Con un approccio del tutto differente rispetto agli anni immediatamente successivi alla vittoria rivoluzionaria, Ortega ha dato prova di un dinamismo del tutto nuovo. Alternandosi tra una corrente anti-imperialista e una di stampo più atlantista e liberista, ha ottenuto quella stabilità e quella legittimazione internazionale necessarie al Paese, in un modo più efficace rispetto ai governi conservatori che lo hanno preceduto. Naturalmente, i gravi problemi che deve affrontare ancora oggi il Nicaragua sono ben lontani dall’essere risolti, ma è possibile affermare che il sentiero intrapreso ha già dato i suoi visibili frutti.

Infine, data la sua rilevanza, vale la pena menzionare uno scenario che apre a possibili ed importanti cambiamenti futuri. Rispolverando un progetto passato – proposto agli inizi del XX secolo come alternativa alla costruzione del Canale di Panama – nel giugno di quest’anno il presidente nicaraguense ha sottoposto al parlamento un progetto per la creazione di un canale interoceanico. In un precedente intervento(9), è già stata sottolineata l’importanza globale di un condotto interoceanico: se tale idea fosse effettivamente realizzata, gli equilibri geopolitici che interessano la zona dell’istmo subirebbero dei mutamenti non di poco conto, garantendo al Nicaragua una risorsa di potenza fondamentale. Recentemente, Cina e Russia hanno confermato la loro disponibilità per l’erogazione di un finanziamento necessario all’avvio del mega-progetto da 30 miliardi di dollari, ma rimane da capire se Ortega deciderà di riconfermare la sua capacità equilibrista.

 

 

*Massimo Aggius Vella è laureando magistrale in Scienze Politiche e di Governo, presso l’Università degli Studi di Milano.

 

 

(1) Il primo governo Ortega si installò pochi anni dopo la rivoluzione, dal 1985 al 1990.

(2)Il comunicato ufficiale dell’OSA è consultabile al seguente indirizzo, http://www.oas.org/es/centro_noticias/comunicado_prensa.asp?sCodigo=C-958/11

(3) Già nel 2008, alcune irregolarità nel corso delle elezioni amministrative erano costate ad Ortega una pioggia di critiche sia da attori interni che da ben più importanti attori esterni.

(4) Le dichiarazioni insieme a una visione più approfondita della questione sono consultabili nell’articolo di F. Feinberg “Daniel Ortega and Nicaragua’s soft Authoritarianism”, pubblicato sulla rivista Foreign Affairs. http://www.foreignaffairs.com/features/letters-from/daniel-ortega-and-nicaraguas-soft-authoritarianism

(5) Maggiori dettagli riguardo al piano sono visionabili all’indirizzo http://www.aporrea.org/movil/internacionales/n92803.html

(6) Per una descrizione della questione più approfondita e per capire meglio perché il provvedimento si è rilevato insufficiente si rimanda all’articolo di Giorgio Trucchi, consultabile al sito http://www.unimondo.org/Guide/Economia/Debito-estero/Nicaragua-debito-alto-anche-dopo-il-taglio-del-G8-56675

(7) Per avere un’idea più approfondita della questione, si consiglia la lettura dell’articolo di Giorgio Trucchi e consultabile all’indirizzo http://www.itanica.org/modules.php?name=News&file=article&sid=718

(8)Per una visione più approfondita, si rimanda alla lettura dei seguenti articoli: http://neteffect.foreignpolicy.com/posts/2009/10/01/the_rise_of_telecom_diplomacy e http://italian.ruvr.ru/2012_10_04/90232211/

(9) M. Aggius Vella, “Il canale di Panama: un’arteria mondiale”, pubblicato per la versione on-line di Eurasia – rivista di studi geopolitici, consultabile all’indirizzo http://www.eurasia-rivista.org/il-canale-di-panama-unarteria-mondiale/16732/

 

CINA: NUOVA DIRIGENZA, NUOVA ERA

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Nella splendida cornice della sua residenza diplomatica di Via Bruxelles, l’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia ha tenuto giovedì 15 novembre un ricevimento per illustrare ad alcuni ospiti e giornalisti i risultati del Congresso del Partito Comunista conclusosi a Pechino poche ore prima.

Con alle spalle una scenografia che indicava le parole d’ordine della serata (“2012: New leadership, new age”), S.E. Ding Wei Ambasciatore della Cina in Italia ha ricordato che la lotta alla corruzione sarà uno dei temi principali nell’agenda politica cinese per i prossimi 5 anni.

Mentre scorrevano le immagini con la presentazione dei 7 membri del Comitato Permanente dell’Ufficio Politico del Partito Comunista Cinese, S.E. Ding Wei ha sottolineato quelle che ritiene essere tre linee fondamentali nella strategia di Pechino: a) Apertura al mondo, integrazione globale e trasparenza; b) Politica estera basata sulla Pace e sull’Indipendenza del proprio Paese; c) Intensificazione dei rapporti con l’Italia e l’Europa, sottolineando come il  nuovo Segretario del Partito Comunista Cinese e futuro Presidente Xi Jinping sia già stato in visita a Roma durante le celebrazioni dell’unificazione italiana nel 2011.

Durante il ricevimento Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, ha potuto incontrare il capo Ufficio Stampa dell’Ambasciata dr. Li Xiaoyong, l’addetto militare, navale ed aeronautico Col. Sup. Ye Feng e lo stesso Ambasciatore S.E. Ding Wei, ai quali ha presentato l’ultimo numero della rivista.

 
Stefano Vernole con S.E. Ding Wei Ambasciatore della Cina
                                   Stefano Vernole con S.E. Ding Wei Ambasciatore della Cina

 


Stefano Vernole con il capo Ufficio Stampa dell’Ambasciata dr. Li Xiaoyong

 

Durante i colloqui Vernole ha auspicato un rafforzamento della collaborazione, già avviata, per nuove iniziative culturali volte a spiegare l’importanza del ruolo della Cina nel mondo multipolare e nella costruzione del polo geopolitico eurasiatico.

In particolare il Col. Sup. Ye Feng ha voluto sottolineare il cambiamento rivoluzionario intrapreso dalla Cina negli ultimi anni: una fase di passaggio necessaria per assicurare ai propri cittadini maggiore benessere e prosperità e per generare un clima di maggiore fiducia e conoscenza con gli interlocutori esteri.

МИРЧА ЭЛИАДЕ И ЕДИНСТВО ЕВРАЗИИ

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Я никогда не говорю о Европе или Азии, но о Евразии. Нет такого события, которое бы имело место в Китае или Индии и не влияло на нас, или наоборот. И так было всегда.

Джузеппе Тульчи. “La Stampa”, 20 octombrie 1983.

Марсель Мосс, этнолог и антрополог, принадлежащий социологической школе, признавал, что «от Кореи до Великобритании существует единая история, история евразийского континента». 

Франсуа Тюаль “Une entreprise de rйsistance”, предисловие к Pierre Biarnйs, Pour l’Empire du mond»e, Ellipses. Edition marketing, Paris 2003, p. 7. 

Я открыл то, что здесь, в Европе, корни находятся глубже, чем я думал. И эти корни, не отрицают фундаментального единства не только Европы, но и целого мира, протянувшегося от Португалии до Китая и от Скандинавии до Цейлона. 

Мирча Элиаде , «L’йpreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 70.

 

Румыния – перекресток Евразии

Тот, кто знает определение данное румынам Эженом  Ионеску (“le Roumain est un animal nationaliste /румын – это националистическое животное), может показаться парадоксальным то, что Мирча Элиаде, который был настоящим националистом и вдобавок «пером Архангела»(1), в точности подтвердил концепцию Тучи и Мосса о единстве Евразии, содействовав ее развитию своей научной деятельностью.

И все же, Элиаде был твердо уверен в существовании этого единства, как следует и из того факта, что в разгар холодной войны он открыто отвергал узкое представление о Европе, которое хотели ему навязать защитники «западной цивилизации».

Он, на самом деле, с сарказмом высмеивал западнические представления, замечая «Есть еще на западе люди, для которых Европа заканчивается на Рейне, или самое большее в Вене. Их география глубоко сентиментальна: он  приезжают в Вену в свадебное путешествие, дальше начинается чужая земля, возможно чарующая, но неясная: эти пуристы хотели бы поскрести русского и найти того, известного татарина, о котором слышали в школе. Когда они  бросают свой взгляд на Балканы, то видят гигантское  смешенье аборигенов, которое продолжается вплоть до Малайзии»(2).

Элиаде, как румын не был западным человеком с рождения, но принадлежал нации, которая зародилась на географическом перекрестке, в регионе, игравшем ключевую роль в переселениях народов, так что соплеменники Элиаде часто проявляли определенную склонность к синтезу и культурному посредничеству(3).

Как он сам говорил, «мы (румыны) осознаем, что находимся между Западом и Востоком. Вы знаете, что румынская культура  является определенным «мостом» меду Западом и Византией, между Западом и славянским миром, восточным и средиземноморскими мирами. Говоря по правде, я осознал это недавно. Я почувствовал себя потомком и наследником культуры интересной потому, что находится она между двумя мирами: западным, чисто европейским и восточным. Я принадлежал обеим этим вселенным.

Западной, посредством языка, латинского по происхождению и духовному римскому наследию, обычаям. Но я принадлежал и культуре, на которую с неолитических времен влиял Восток. Это действительно для румына, но я уверен, что точно также себя ощущают и болгары и сербо-хорваты, в целом, все Балканы, Юго-Восточная Европа и часть России»(4).

В любом случае, еще в румынский период своей деятельности  Мирча Элиаде мог «понимать те национальные традиции, которые делают Румынии, латинскую цивилизацию со славянскими и турецкими влияниями, мостом между балканской Европой и турецкой Евразией»(5). И из изучения румынского фольклора, корни которого теряются «в мире спиритуальных ценностей, который предшествовал возникновению великих цивилизаций Древнего Ближнего Востока и Средиземноморья»(6), и который включен в более широкий территориальный контекст, он пришел к убеждению в том, что юго-восточная Европа «составляет настоящий фундаментальный мост стратифицированных связей между европейским Средиземноморьем и Дальним Востоком»(7). На самом деле, во впечатляющем румынском этнографическом наследии, Элиаде нашел элементы, которые отсылают к мистическим темам и ритуалам, существующим в различных местах евразийского континента. Подвергнув компаративному анализу одну из самых известных румынских баллад – балладу о мастере Маноле, Мирча Элиаде пролил свет на целую серию аналогов, которые встречаются на обширном пространстве между Англией и Японией. Тематика жертвы, которая пронизывает балладу, характерна не только для Европы: «Мотив строительства, свершение которого требует человеческой жертвы, встречается в Скандинавии и у финнов и эстонцев, у русских и украинцев, в Германии, Франции, Англии, Испании(8)». Территория, которая охвачена этой темой, включает в себя и Китай, Сиам, Японию, Пенджаб. «На Востоке были собраны многочисленные свидетельства такого рода. Нет такого значительного места, который не имел бы, в реальности или легенде своей жертвы, живьем замурованной в фундамент»(9).

Некоторые характерные персонажи румынского фольклора ведут нас к очень древним евразийским фигурам. Таким является, например, случай демоницы Русалии или Йелеле, которые в румынской народной традиции описываются то как добрые, то как злые существа, из-за своей двойственности отнесенные Элиаде к типу «великих евро и афро-азиатских богинь(10)», «жестокие ритуалы которых встречаются повсюду в Азии и Евразии»(11). Наконец, через изучение традиций Европы и Азии, Элиаде, смог понять глубинное единство целого континента. «Постигая глубокое единство, которое существует между коренной культурой Индии, культурой Балкан и крестьянской культурой Восточной Европы я чувствовал себя как дома. Изучая определенные техники и мифы, я чувствовал себя в своей тарелке, как в Европе, так и в Азии. У меня никогда не было ощущения, что я сталкиваюсь с экзотической реальностью. Исследуя народные традиции Индии, я увидел, как проявляются структуры народных европейских традиций».(12)

Дакия, в частности, пишет Элиаде, «была в полной мере страной контактов. С доисторических времен и до начала эпохи модерна не прекращались влияния, шедшие с Востока и из зоны Эгейского моря. С другой стороны, в формирование народа и гето-дакской цивилизации играли очень важную роль иранский (скифский) и еще больше кельтский элемент. Вследствие этих влияний фрако-киммерийский субстрат принял специфическую культурную форму, отличавшуюся от культур балканских фракийцев. Наконец, римская колонизация привнесла массивный латинский пласт с долей эллинизма, так как римская цивилизация находилась в синкретисткой стадии»(13). Но позже, в период, который соответствует последнему этапу Средневековья, « были созданы румынские княжества вследствие великих нашествий Чингисхана и его преемников».(14)

Рассматривая фракийский мир целиком, Элиаде показывает важные аналогии, которые связывают его с одной стороны с германским миром, а с другой с Анатолией, Месопотамией, Кавказом, Ираном, Индией: к символизму узлов, например, относятся «определенные ритуалы, о которых сохранились сведения, как в германской среде, так и в фрако-фригийских и кавказских религиях».(15)

Небесное божество евразийских народов

На евразийском континенте и не только на нем Элиаде открыл «квазиуниверсальность веры в небесное божественное существо», сотворившее вселенную и гарантирующее земное плодородие (благодаря дождям, которые оно дает)»(16). Различные народы континента представляли его себе как имеющего человеческий образ Бога, который после того как установил моральные законы, поддерживает справедливость и наказывает тех, кто творит зло.

В «Трактате по истории религий» Элиаде приводит несколько примеров этого уранического божества, начиная с религий народов Арктики, Сибири и Центральной Азии. Творец земли и людей, гарант вселенского порядка, регулирования космических циклов и равновесия в человеческом обществе, небесный Бог, которому поклонялись уральские и алтайские народы предстает рачительный и главным хозяином мира «В общем, можно сказать, что верховное небесное божество у тюрко-монголов и угров сохранило гораздо лучше, чем у остальных народов, первобытные характеристики. Он не знает иерогамии и не трансформируется в бога бури и грома. Ему по-настоящему поклоняются, хоть и не изображают».(17)

Имя, которое дали ему тюрки и монголы «Тэнгри» (Небо, Бог), с одной стороны напоминает шумерское «дингир» («светлый», бог»), но с другой стороны  отсылает к китайскому «Тьен» («небо», «бог неба»), также развивает и тесную связь между  представлениями прототюрков и индоевропейцев. «Несомненно, – пишет Элиаде, что: 1) Небесное божество относится к самым древним прототюркским слоям, 2) Сходства с небесным протоиндоевропейским божеством достаточно очевидны и 3) В общем, структура религиозности индоевропейцев ближе всего к религии прототюрков, чем религия любого другого палеоазиатского или средиземноморского народа»(18). В любом случае уранический смысл тюрко-монгольского Тэнгри и китайскогоТьен выражают и санскритское имя Варуна и греческое Уран. Также уранической является и концепция божественного, которая была характерна для древнего Ирана, тот факт, чтоАхурамазда – это «фигура, соответствующая Варуне»(19). В том, что касается греков, «Уран исчез из культа на заре истории и был заменен Зевсом, имя которого ясно демонстрирует его небесную суть».(20) Но фигура греческого Зевса соотносится с латинским Юпитером, небесная натура которого открывается в том, «что как все небесные боги, Юпитер наказывает молнией»(21). И ему поклонялись на вершинах гор, то есть в местах, наиболее близких небу.

Частичными формами небесного Зевса являются Таранис (у кельтов) Перкунас (у балтов) и Перун (у протославян). В свою очередь, в германских землях ураническим фигурами являются Один (Вотан) и Тор (Донар). И здесь Элиаде настаивает на  сходствах, которые связывают германский мир с сибирским и центральноазиатским. «Богатой на подробности, даже если они и являются спорными, которые Элиаде исследует как крупный специалист, является область аналогий между магическими практиками центральноазиатских шаманов и североевропейских магов, которые по собственному желанию могли превращаться в волков, чтобы изгонять, в качестве «псов Господних» злых духов и вести борьбу с колдунами и ведьмами». (22)

Элиаде отмечает, что имперская идея китайцев и монголов напрямую связаны с ураническим монотеизмом. «В письме, которое хан Мунке, с Вильгельмом де Рубрукусом отправил королю Франции,- пишет Элиаде, – встречается самая наивысшая оценка предназначения монгольского народа: «Это приказ предвечного Господа: на небе есть только один вечный бог, а на земле будет существовать один господин – Чингисхан, сын Бога!». На печати Чингисхана было написано: «Один Бог на небе, а Хан – на земле. Печать владыки мира» (23)

 
 

1. Cfr. C. Mutti, Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1989 şi C. Mutti, Le penne dell’Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, SEB, Milano 1994.

2. “Il existe encore de trиs honnкtes occidentaux pour qui l’Europe s’arrкte au Rhin ou tout au plus а Vienne. Leur gйographie est essentiellement sentimentale : ils sont allйs jusqu’а Vienne pendant leur voyage de noces. Plus loin, c’est un monde йtrange, attachant peut-кtre, mais incertain : ces puristes sont tentйs de dйcouvrir sous la peau du Russe le fameux Tatar dont on leur a parlй а l’йcole ; quant aux Balkaniques c’est avec eux que commence l’inextricable ocйan ethnique des natives qui se prolonge jusqu’en Malaisie” (M. Eliade, L’Europe et les rideaux, “Comprendre”, 3, 1951, p. 115).

3. cfr. C. Mutti, Eliade, Vвlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guйnon tra i Romeni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, pp. 16-20.

4. M. Eliade, L’йpreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 26-27 şi 116.

5. Anna Masala, Eliade e la civiltа turca preislamica, оn: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identitа storica, Jaca Book, Milano 1998, p. 188.

6. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, p. 7.

7. Roberto Scagno, Mircea Eliade: un Ulisse romeno tra Oriente e Occidente, оn: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade, cit., p. 21

8. M. Eliade, Struttura e funzione dei miti, оn Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, p. 74-75.

9. M. Eliade, Commenti alla Leggenda di Mastro Manole, оn I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 31-32.

10. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, Jaca Book, Milano 1989, p. 23.

11. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., p. 24.

12. M. Eliade, L’йpreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, cit., p. 74.

13. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 142.

14. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 25.

15. M. Eliade, Immagini e simboli, Jaca Book, Milano 1987, p. 95.

16. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972, p. 42.

17. M. Eliade, Religione dei Turco-Mongoli, extras din “Le civiltа dell’Oriente”, vol. III, Gherardo Casini Editore, Roma 1958, p. 854.

18. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 72 notă.

19. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 81.

20. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 87.

21. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 89.

22. Giovanni Battista Bronzini, Le credenze popolari nell’ottica eliadiana, оn: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade, cit., p. 160.

23. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 70.

 
http://rossia3.ru/ideolog/nashi/unitateaeurasie


PERCHE’ UNA NUOVA GUERRA CONTRO GAZA?

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Ancora una volta Israele ha attaccato Gaza e i media internazionali trasmettono immagini di distruzione. Tuttavia la desolazione che ci provoca l’orrore quotidiano di questa nuova guerra non deve impedirci di analizzarne e comprenderne gli obiettivi. Thierry Meyssan risponde a questa domanda.

 
 
Il 14 novembre 2012, le forze israeliane hanno lanciato l’operazione “Colonna di nubi” contro le strutture militari e amministrative di Hamas nella Striscia di Gaza. Il primo giorno hanno ucciso Ahmed Jaabari, numero due del ramo armato dell’organizzazione palestinese. Ed hanno anche distrutto i lanciarazzi sotterranei per i missili superficie-superficie Fajr-5. “Colonna di Nubi” si è rapidamente ingrandita, con l’aviazione israeliana che moltiplica i bombardamenti. Lo Stato maggiore generale israeliano ha richiamato 30.000 riservisti, arrivando rapidamente a 75.000 uomini, col rischio di distruggere l’economia. In questo modo, Israele ha la capacità di invadere Gaza con truppe terrestri. Questa situazione richiede ulteriori spiegazioni.

 
 
 
Perché proprio adesso?
 
Tel Aviv prende il comando, mentre il potere a Washington è parzialmente vacante. Si attendono la nomina dei nuovi segretari di Stato e della Difesa. Forse, saranno l’ambasciatrice Susan Rice e il senatore John Kerry. Tuttavia, un’aspra lotta, attraverso i media, cerca di screditare la signora Rice. In ogni caso, i segretari di Stato e della Difesa uscenti sono indeboliti ed i loro successori non sono stati ancora nominati. Nello stesso identico modo, Tel Aviv aveva preso una simile iniziativa, l’”Operazione Piombo Fuso”, durante il periodo di transizione tra i presidenti Bush jr e Obama. Alcuni commentatori citano anche l’imminenza delle elezioni israeliane e suggeriscono che Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman cercano di migliorare la loro immagine di falchi intransigenti. Ciò è improbabile. In realtà, hanno lanciato l’attacco senza conoscerne in anticipo i risultati. Tuttavia, nel 2008-2009, il fallimento di “Piombo fuso” fu fatale per il governo di Ehud Olmert.

 

Per quale scopo?

Tradizionalmente le forze armate israeliane adeguano i loro obiettivi militari alle opportunità che si presentano. Come minimo si tratta d’indebolire la resistenza palestinese, distruggendo le infrastrutture e l’amministrazione della Striscia di Gaza, come hanno sempre fatto più o meno regolarmente. Tuttavia, l’indebolimento di Hamas va automaticamente a vantaggio di Fatah in Cisgiordania, che non mancherà di ripresentare la sua richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese da parte delle Nazioni Unite. Al massimo la “Colonna di nubi” potrà aprire la porta a un vecchio piano sionista: la proclamazione della Giordania a stato palestinese, il trasferimento della popolazione di Gaza (cfr. anche della West Bank) in Giordania e l’annessione dei territori svuotati. In questo caso, i militari non dovrebbero colpire indiscriminatamente i leader di Hamas, ma solo coloro che si oppongono all’ex leader politico dell’organizzazione, Khaled Meshaal. Quest’ultimo diventerà il primo presidente di uno stato palestinese in Giordania.
 
 
 
I disordini in Giordania sono collegati?

La guerra alla Siria ha soffocato l’economia giordana. Il regno si è rapidamente indebitato. Il governo ha annunciato, il 13 novembre (cioè alla vigilia dell’avvio di “Colonna di nubi”) l’aumento dei prezzi dell’energia, dall’11% per il trasporto pubblico al 53% per il gas nazionale. Questa notizia ha alimentato le proteste che imperversano nello stato fin dall’inizio dell’anno. Immediatamente, circa la metà degli insegnanti della scuola pubblica, 120 mila, è scesa in sciopero. Venerdì 16, più di 10000 persone hanno marciato nel centro di Amman, gridando: “La libertà viene da Dio”, “Abdallah il tuo tempo è finito!”, “Il popolo vuole la caduta del regime”. Il corteo ha lasciato la moschea Husseini ed era inquadrato dai Fratelli musulmani. I Fratelli musulmani, che hanno concluso un accordo con il Dipartimento di Stato degli USA e il Consiglio di cooperazione del Golfo Persico, sono già al potere in Marocco, Tunisia, Libia, Egitto e Gaza. Inoltre, controllano la nuova Coalizione nazionale siriana. Aspirano a governare con o senza il re di Giordania Abdullah II. Il più famoso dei Fratelli musulmani in Giordania è Khaled Meshal, ex capo dell’ala politica di Hamas. Meshaal ha vissuto in esilio dal 2001-2012 a Damasco, sotto la protezione dello Stato siriano. Nel febbraio del 2012 ha improvvisamente accusato il governo di Bashar al-Assad di reprimere il suo popolo ed ha scelto di trasferirsi in Qatar, dove l’emiro Hamad al-Thani è stato particolarmente generoso con lui.
 
 
 
I disordini in Siria sono collegati?

A giugno, un accordo di pace è stato firmato a Ginevra dalle grandi potenze. Tuttavia, è stato subito sabotato da una fazione degli Stati Uniti che ha organizzato le fughe di notizie sul coinvolgimento occidentale nell’evento, costringendo il mediatore Kofi Annan a dimettersi. Questa stessa fazione poi, per due volte ha cercato di finirla militarmente organizzando due massicci attentati a Damasco, il 18 luglio e il 26 settembre. Alla luce di questi fallimenti, l’amministrazione Obama è tornata all’accordo iniziale che si è impegnata ad attuare dopo le elezioni presidenziali e il cambiamento del governo. L’accordo prevede il dispiegamento di una forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, composta prevalentemente da contingenti dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Questa forza avrebbe il compito di separare i belligeranti e di arrestare i jihadisti stranieri introdottisi in Siria. Lasciando la Russia reinstallarsi in Medio Oriente, Washington spera di alleviare l’onere della sicurezza d’Israele. La Russia farebbe in modo che lo stato sionista non sia più attaccato e che non attacchi nessuno. La ritirata militare degli Stati Uniti dal Medio Oriente potrebbe quindi continuare, e Washington recupererebbe la flessibilità perduta a causa del suo  permanente confronto con Tel Aviv. In questa prospettiva, i sostenitori dell’espansionismo israeliano devono agire a Gaza ed eventualmente in Giordania, prima della missione russa.
 
 
 
Quali sono i risultati preliminari della guerra in corso?

La guerra testa la difesa aerea di Israele. Lo stato sionista ha investito centinaia di milioni di dollari nella creazione di “Iron Dome”, un sistema in grado di intercettare tutti i razzi e missili lanciati da Gaza e dal sud del Libano. Questo dispositivo è diventato inutilizzabile quando Hezbollah ha inviato un drone su Dimona o quando ha testato i missili superficie-superficie Fajr-5. Durante i primi tre giorni della “Colonna di nubi”, Hamas e la Jihad islamica hanno risposto al bombardamento israeliano con salve di razzi e missili. L’”Iron Dome” avrebbe intercettato 210 colpi su poco più di 800. Tuttavia, questa statistica non significa molto: il dispositivo sembra in grado di intercettare solo i primitivi razzi Qassam, e di essere inadeguato verso tutte le armi un po’ più sofisticate.
 
 
Thierry Meyssan

 

LA CINA NON TENDERÀ MAI ALL’EGEMONIA NÉ SI BATTERÀ PER L’ESPANSIONE

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La Cina, nella sua veste di seconda principale economia al mondo e di attore di primo piano nello scenario internazionale, riuscirà a rompere il modello più volte ripetuto nella Storia di grande potenza portata giocoforza ad aspirare all’egemonia globale e ad evitare in tal modo di cadere nella cosiddetta trappola di Tucidide? Con domande di questo tenore nella mente, 1700 giornalisti stranieri provenienti da 100 Nazioni diverse sono affluiti a Pechino per la copertura del 18mo Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese e per cercare di comprendere quale direzione prenderà il Paese nel prossimo decennio.

La Cina non tenderà mai all’egemonia né si lascerà coinvolgere in una contesa per l’espansione su scala internazionale. Il rapporto finale del 18esimo Congresso Nazionale del PCC ha mandato una volta di più al mondo un chiaro messaggio per cui la Cina seguirà senza tentennamenti un percorso verso uno sviluppo pacifico, e perciò non vi è alcuna ragione per cui temere l’ascesa cinese. Nel documento si leggono parole nuove o espressione di rilevanza centrale quali “l’umanità nel suo insieme”, la condivisione degli interessi comuni di tutto il genere umano, l’avvio di una politica strategica basata sul principio del vantaggio comune, una politica estera indipendente e pacifica, “promuovere la democratizzazione delle relazioni internazionali” e infine “diventare una superpotenza responsabile”: tutti quanti concetti che rilflettono la ferma determinazione cinese a favorire pacificazione e sviluppo su scala mondiale.

Chi darà da mangiare alla Cina? La Cina cercherà l’egemonia? Sono diverse le teorie sul “pericolo cinese” che si sono succedute da quando il “leone dormiente” si è risvegliato. Contemporaneamente sempre più persone hanno cominciato a discutere invece dei contributi e delle opportunità che la Cina può fornire.

Sin dall’avvio della politica di riforma e di apertura verso l’esterno la Cina è stata in grado di costruire un miracolo economico con mezzi del tutto pacifici e ha inoltre mantenuto un complessivo equilibrio nel processo di trasformazione interno alla sua società che ha influito fortemente sul benessere non solo cinese ma anche di tutti gli altri popoli del mondo. Proprio come ha fatto notare lo studioso britannico Barry Buzan, i 30 anni appena trascorsi sono lì a dimostrare come una ascesa pacifica da parte della Cina non solo sia assolutamente praticabile, ma apra in generale anche un percorso nuovo per l’ascesa delle superpotenze.

Il filosofo britannico Bertrand Russell scrisse negli anni ’30 del ‘900 che il mondo moderno aveva impellente necessità di scoprire i principi dell’etica tradizionale cinese, primo tra tutti l’affabilità. Il mondo sarebbe stato pregno di felicità e di buoni auspici se tali principi etici fossero stati rivalutati. Dall’applicazione pratica del principio tradizionale di “pace da coltivare” fino alle proposte di una strategia diplomatica atta a edificare un equilibrio pacifico su scala mondiale, la Cina ha mostrato di essere non solo il motore principale dello sviluppo economico a livello globale, ma è stata anche capace di introdurre nel mondo il concetto di “armonia senza uniformità”.

La sfida per lo sviluppo pacifico non coincide assolutamente con uno sviluppo libero da principi etici, e a sua volta esso non deve sacrificare né ledere gli interessi strategici della Cina. La Cina persevererà nella salvaguardia della propria sovranità nazionale, della sua sicurezza e dei suoi legittimi obiettivi senza mai cedere nei confronti di alcuna pressione proveniente dall’esterno. Il Paese non è fonte di alcuna instabilità e a sua volta non ne teme alcuna rivolta nei suoi confronti. La Cina non esiterà a rispondere duramente in caso di ogni provocazione esterna al fine di preservare l’equilibrio e la giustizia nelle relazioni internazionali e per favorire pace e sviluppo nel mondo.

In una fase storica di instabilità come quella attuale che il mondo sta attraversando, la Cina ha garantito l’apporto di energia positiva e fiducia all’interno di uno scenario di per sé anarchico e caotico, nel pieno rispetto del proprio solenne impegno per uno sviluppo pacifico.

 

Fonte: Il Quotidiano del Popolo


 
Traduzione di Alessandro Iacobellis

INTERVISTA AL PRESIDENTE SIRIANO BASHAR AL-ASSAD

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Russia Today, 9 Novembre 2012

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Signor Presidente, grazie di averci concesso questa intervista.

 

BASHAR AL-ASSAD: Benvenuti a Damasco.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Un anno fa, molti erano convinti che non si sarebbe arrivati fino a questo punto. Noi, però, stiamo registrando questa intervista nel Palazzo presidenziale che è stato restaurato di recente. Chi è oggi esattamente il Suo nemico?

 

BASHAR AL-ASSAD: I miei nemici sono il terrorismo e l’instabilità in Siria. È questo il vero pericolo in Siria. Non è la gente, non sono le persone. Il vero problema non è se vado o se resto, il problema è la sicurezza del Paese. Questo è il nemico che abbiamo combattuto.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Io sono stata qui in questi due ultimi giorni e ho avuto la possibilità di parlare con qualche persona di Damasco. Alcuni ritengono che il fatto che Lei parta o meno, adesso, non è più veramente importante. Cosa ne pensa?

 

BASHAR AL-ASSAD: Penso che la partenza di un Presidente sia una decisione che spetta al popolo e non una scelta personale. Il solo modo per conoscerla è passare attraverso l’esito delle urne. Dunque, questa questione non ha niente a che fare con quello che si desidera, ma ha a che fare con quello che diranno le urne. E le urne, solo le urne, diranno a qualunque Presidente se debba andare o restare. Molto semplicemente.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: D’ora in avanti il bersaglio non è più Lei, ma la Siria. 

 

BASHAR AL-ASSAD: Non ero io il bersaglio, non ero io il problema. Ad ogni modo, Lei lo sa bene, l’Occidente crea dei nemici. In precedenza per differenti ragioni è stato il comunismo, poi è diventato l’Islam, poi Saddam Hussein. Adesso si vorrebbe creare un nuovo nemico: dicono che Bashar Al-Assad è il problema e che deve andarsene. È per questo motivo che noi dobbiamo concentrarci sul problema reale senza perder tempo ad ascoltare quel che dicono.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Ma, personalmente, pensa ancora di essere il solo uomo capace di tenere insieme la Siria e mettere fine a quella che il mondo chiama “guerra civile”?

 

BASHAR AL-ASSAD: Si può affrontare la questione da differenti punti di vista. Primo, la Costituzione, dalla quale traggo la mia autorità. Stando a questa autorità e a quanto dice la Costituzione, io devo essere capace di risolvere il problema. Ma ponete l’attenzione sul fatto che nessun altro siriano può essere Presidente. O meglio, qualunque siriano potrebbe esserlo e molti sono eleggibili per questa carica, ma non si può legare per sempre il Paese ad una sola persona.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Ma Lei si batte per il Suo Paese. Ritiene di essere l’uomo che può mettere fine al conflitto e riportare la pace?

 

BASHAR AL-ASSAD: Io devo essere l’uomo che può farlo e spero di farlo. Ciò non è collegato al potere del Presidente, ma concerne tutta la società. Bisogna essere precisi: il Presidente non può fare niente senza le istituzioni e il sostegno del popolo. Non si tratta della battaglia del Presidente, ma della battaglia dei Siriani. Attualmente, ciascun siriano sta difendendo il suo Paese.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Effettivamente, siccome molti civili stanno morendo anche in combattimento, se Lei vincerà la guerra, dopo tutto quel che è successo, come si riconcilierà con il Suo popolo?

 

BASHAR AL-ASSAD: Il problema non è tra me e il popolo, non ho dei problemi con il popolo, ma il problema è che gli Stati Uniti sono contro di me, l’Occidente è contro di me, molti Paesi arabi e la Turchia sono contro di me. Il popolo siriano è contro di me allo stesso modo? Allora perché io sono ancora al mio posto?

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Non è quindi contro di Lei? 

 

BASHAR AL-ASSAD: Se il mondo intero, o diciamo la maggior parte del mondo compreso il vostro popolo, è contro qualcuno, questo qualcuno sarebbe un supereroe!?! Sarebbe solo un uomo. Ciò non ha logica. Non si tratta di riconciliazione col popolo, né tra Siriani e Siriani. Non c’è guerra civile in Siria. Il problema è il terrorismo e il loro finanziamento proveniente dall’esterno del Paese per destabilizzare la Siria. Ecco la nostra guerra.

 

Bashar Al-Assad mentre parla con Sophie Shevardnadze di Russia Today
 

SOPHIE SHEVARNADZE: Lei non crede alla guerra civile,  anche se io so che, a parte il terrorismo che tutto il mondo riconosce, ci sono molti conflitti didee. Per esempio, tutti abbiamo sentito parlare della madre di due figli:  uno che si batteva per le forze governative e l’altro per le forze ribelli. Non è un guerra civile?

 

BASHAR AL-ASSAD: Ci sono delle divisioni, ma questo non vuol dire “guerra civile”. È del tutto diverso. Una guerra civile nasce da problemi etnici e settari. Si possono avere talvolta delle tensioni etniche o settarie, ma ciò non significa che esista un problema. Dunque, se ci sono delle tensioni nella stessa famiglia, in una grande tribù, o nella stessa città, non si tratta necessariamente di una guerra civile, ma di una cosa differente e normale. Ce lo dobbiamo aspettare.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Quando Le ho fatto la domanda circa la conciliazione con il Suo popolo intendevo proprio questo. La ho sentita ripetere in molte occasioni che la sola cosa che Le importa sono il pensiero e i sentimenti che i Siriani nutrono nei Suoi confronti. Non hae paura che alla fine, visto il danno patito dal Paese, il popolo non avrà più voglia di ricercare la verità e semplicemente La accuserà di tutto quello che ha sofferto?

 

BASHAR AL-ASSAD: Questione ipotetica, poiché quello che il popolo pensa è giusto. Noi dobbiamo, quindi, domandargli che cosa pensi, ma non ho questa informazione in questo momento. Ma, ancora una volta, non ho paura di quello che pensano di me; io ho paura per le sorti del mio Paese, abbiamo bisogno di concentrarsi su questo.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Nel corso degli anni si sono rincorse storie a proposito della potenza militare della Siria, dei servizi segreti importanti, ma adesso noi vediamo che le forze governative non sono capaci di battere il nemico come ci si attendeva. Assistiamo ad attacchi terroristici al centro di Damasco praticamente tutti i giorni. Era tutta una leggenda?

 

BASHAR AL-ASSAD: In circostanze normali, ci concentreremmo sul nemico esterno e, anche se esiste un nemico interno rappresentato dal terrorismo, la società aiuta almeno a non incubare al suo interno dei terroristi. Ma in questo caso assistiamo ad un nuovo tipo di guerra: il terrorismo per procura. Sia di Siriani che vivono in Siria, sia di stranieri che vengono dall’esterno. Noi dobbiamo adattarci a questo tipo di guerra, non è facile e ci vuole tempo. Non possiamo dire che sia come combattere una guerra normale. No, è molto più difficile.

In secondo luogo, il sostegno offerto ai terroristi in tutti i campi (armi, soldi, sostegno politico) è senza precedenti. Dobbiamo aspettarci una guerra dura e difficile. Non si può pretendere che un piccolo Paese come la Siria possa battere in qualche giorno o qualche settimana tutti quei paesi che combattono per procura: da una parte abbiamo un capo con una forza armata cui ordina di andare dritto, a sinistra, a destra, e questa obbedisce. Dall’altra, frange di terroristi non unificati e senza strategia che combattono contro di noi.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Quindi, come si combatte concretamente?

 

BASHAR AL-ASSAD: Il problema è che questi terroristi si battono all’interno delle città dove si trovano i civili. Quando si combatte contro terroristi di questo genere, è inevitabile un minimo di danni alle infrastrutture ed ai civili. Ma si deve pur combattere, non si può solo lasciare che i terroristi uccidano e distruggano tutto. In questo risiede la difficoltà di questa tipolo di guerra.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: L’economia e le infrastrutture militari soffrono, è come se la Siria stia andando piuttosto presto verso la rovina ed il tempo è contro di voi. A Suo avviso, quanto tempo ci vorrà per vincere il nemico?

 

BASHAR AL-ASSAD: Non si può rispondere a questa domanda, visto che nessuno può dire quando la guerra avrà fine, a meno che non si sappia quando smetteranno di inviare dei combattenti dal mondo intero, soprattutto dal Medio Oriente e dal mondo islamico, e quando decideranno di smetterla di inviare armi a questi terroristi. Quando cesseranno queste attività, allora potremo dare una risposta alla domanda. Le potrei dire che entro poche settimane tutto sarà risolto, non è questo il problema. Ma finché si dispone di un approvvigionamento continuo di uomini, armi, logistica e tutto il resto, sarà una guerra a lungo termine.

 

Bashar Al-Assad mentre parla con Sophie Shevardnadze di Russia Today
 

SOPHIE SHEVARNADZE: Allo stesso tempo ci sono 4000 km di frontiera poco controllati. Il nemico può in ogni momento attraversare la frontiera verso la Giordania o la Turchia per riarmarsi, ottenere assistenza medica e tornare a battersi contro di voi.

 

BASHAR AL-ASSAD: Esattamente, nessun paese al mondo può sigillare le proprie frontiere. Spesso si usa questa espressione, ma è impropria. Gli stessi Stati Uniti non possono sigillare la loro frontiera con il Messico, per esempio. La stessa cosa accade con la Russia, che è un grande Paese. Quindi, nessun Paese può sigillare le proprie frontiere: si può avere una buona situazione alle frontiere se si hanno buone relazioni con i vicini, cosa che attualmente non abbiamo, almeno non con la Turchia. La Turchia appoggia il contrabbando di armi e di terroristi più di ogni altro Paese.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Posso farle una domanda? Sono stata in Turchia di recente e la gente là ha paura di una guerra tra Siria e Turchia. Pensa che una guerra contro la Turchia possa essere uno scenario realistico?

 

BASHAR AL-ASSAD: Razionalmente riteniamo di no, per due motivi: una guerra richiede un sostegno pubblico e la maggioranza dei Turchi non ha bisogno di questa guerra. Penso che nessun politico dotato di buon senso possa andare contro la volontà del proprio popolo; la stessa cosa vale per la Siria. Il conflitto non è tra i popoli siriano e turco, ma tra il nostro governo ed il loro, a causa della loro condotta politica. Io non vedo, dunque, nessuna guerra all’orizzonte tra Siria e Turchia.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Quando ha parlato l’ultima volta con Erdogan?

 

BASHAR AL-ASSAD: Nel maggio del 2011, dopo che aveva vinto le elezioni.

 

SOPHIE SHEVARNADZE:  Dunque gli ha fatto le felicitazioni?

 

BASHAR AL-ASSAD: Si, è stata l’ultima volta.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Chi ha bombardato la Turchia? I ribelli o il governo?

 

BASHAR AL-ASSAD: Per avere una risposta e sapere chi ha bombardato, c’è bisogno di un comitato congiunto tra i due eserciti, visto che alle frontiere molti terroristi hanno i mortai e possono benissimo essere stati loro. Bisognerebbe fare un’inchiesta sulla bomba, sul luogo, ma ciò non ha avuto seguito. Abbiamo chiesto al governo turco di costituire questo comitato, ma loro hanno rifiutato e quindi non possiamo avere una risposta. Ma quando si hanno i terroristi alle frontiere non si può escludere il fatto che siano stati loro, dal momento che l’esercito siriano non ha mai ricevuto l’ordine di bombardare il territorio turco. E’ un obiettivo che non ha alcun interesse per quel che ci riguarda, non c’è nessuna ostilità verso il popolo turco. Noi li consideriamo come dei fratelli, perché dunque fare una cosa del genere? A meno che ciò non sia avvenuto per errore ed è per questo che c’è bisogno di un un’inchiesta.

 

Bashar Al-Assad mentre parla con Sophie Shevardnadze di Russia Today
 

SOPHIE SHEVARNADZE: Ammette che possa essere accaduto per errore? Per errore delle forze governative?

 

BASHAR AL-ASSAD: Potrebbe. Si tratta di una possibilità, ci sono errori in tutte le guerre. Per esempio, in Afghanistan, chi uccide un soldato che combatte con lui parla sempre di “fuoco amico”. Ciò significa che può accadere in tutte le guerre. Finora però non si può dire che sia questo il caso.

 

SOPHIE SHEVARNADZE:  Per quale motivo la Turchia, che Lei dice essere una “Nazione amica”, è diventata la roccaforte dell’opposizione?

 

BASHAR AL-ASSAD: Non la Turchia. Solo il governo Erdogan, per essere precisi. Il popolo turco vuole avere un buon rapporto con il popolo siriano. Una delle ragioni è questa: Erdogan pensa che, se i Fratelli Musulmani prendono il potere nella regione, soprattutto in Siria, ciò potrà garantire il suo futuro politico. L’altro motivo: personalmente ritengo che egli pensi di essere il nuovo sultano ottomano e di poter controllare la regione così come è avvenuto ai tempi dell’Impero Ottomano, sotto un nuovo “ombrello” che è l’islamismo e non l’Impero Ottomano; non per diventare il califfo, anche se in cuor suo Erdogan pensa di esserlo. Queste le due ragioni principali per cui egli ha cambiato la sua politica da “zero problemi” a “zero amici”.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Ma non c’è solo l Occidente che si oppone a voi, avete molti nemici anche nel mondo arabo. Due anni fa, se qualcuno nel mondo arabo vi sentiva nominare, avrebbe stretto più forte i legami,  mentre adesso alla prima occasione vi tradiscono. Come mai avete tanti nemici nel mondo arabo?

 

BASHAR AL-HASSAD: Non sono dei nemici: la maggior parte dei governi arabi in cuor loro sostengono la Siria, ma non osano dichiararlo apertamente.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Per quale motivo?

 

BASHAR AL-HASSAD: La pressione dell’Occidente e talvolta i petrodollari del mondo arabo.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Chi vi sostiene nel mondo arabo?

 

BASHAR AL-HASSAD: Molti paesi sostengono la Siria, ma non lo dicono esplicitamente. In primis l’Iraq, che ha giocato un ruolo molto attivo nel sostegno alla Siria durante la crisi, perché è un Paese vicino e perché in Iraq sanno che se c’è la guerra in Siria potrebbe esserci in futuro la guerra anche nei Paesi vicini, compreso l’Iraq. Altri Paesi tengono una buona posizione verso la Siria, come l’Algeria e l’Oman. Anche altri Paesi hanno posizioni positive, ma senza essere attivi nel conflitto.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Perché Arabia Saudita e Qatar sono così categorici sulle vostre dimissioni e in che modo un Medio Oriente instabile potrà entrare nella loro agenda?

 

BASHAR AL-ASSAD: Molto francamente, non posso rispondere a loro nome, solo loro possono rispondere a questa domanda. Ma quello che posso dire è che il problema tra la Siria e gli altri Paesi, siano del mondo arabo, nella regione o in Occidente, è che noi continuiamo a dire “no” quando pensiamo di dover dire di “no”. Questo è il problema. E certi Paesi pensano di poter controllare la Siria attraverso degli ordini, dei soldi o dei petrodollari. Questo è impossibile in Siria. Se vogliono giocare un ruolo non ci sono problemi. Che se lo meritino oppure no, possono giocare un ruolo. Ma non a scapito dei nostri interessi.

 

Bashar Al-Assad mentre parla con Sophie Shevardnadze di Russia Today
 

SOPHIE SHEVARNADZE: Ma l’obiettivo è quello di controllare la Siria? O di esportare la loro versione dell’Islam in Siria?

 

BACHAR AL-ASSAD: Si può dire che talvolta è la politica di un governo. Alle volte ci sono delle istituzioni o delle persone che promuovono questa linea politica, ma non la dichiarano linea politica ufficiale. Loro non ci hanno chiesto di promuovere, diciamo, i loro atteggiamenti estremisti verso le istituzioni. In realtà, però, succede così, sia attraverso il sostegno indiretto del loro governo, sia attraverso la creazione di istituzioni e di personale. Ciò fa parte del problema. Quando parlo come governo, dovrei menzionare la politica annunciata. La linea politica ufficiale è come qualsiasi altra politica, si tratta di interessi, di giocare un ruolo e non possiamo ignorare quello che lei ha detto.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: L’Iran, che è un alleato molto vicino, è ugualmente esposto a delle sanzioni economiche e fa fronte allo stesso modo ad una minaccia di invasione militare. Se vi troverete a confrontarvi con la possibilità di tagliare i vostri legami con l’Iran in cambio della pace nel vostro Paese, lo farete?

 

BACHAR AL-ASSAD: Abbiamo avuto buone relazioni con l’Iran dal 1979 fino ad ora e sono sempre migliori ogni giorno che passa. Ma allo stesso tempo noi andiamo verso la pace, noi abbiamo un processo verso la pace e delle negoziazioni per la pace. L’Iran non è un fattore che gioca contro la pace. C’è della disinformazione: si sta cercando di promuovere in Occidente il fatto che se abbiamo bisogno della pace non abbiamo bisogno di buone relazioni con l’Iran. Tra le due cose non ci sono relazioni. L’Iran ha sostenuto la nostra causa, la causa dei territori occupati e noi dobbiamo sostenere la loro. Semplice. L’Iran per la regione è un Paese molto importante. Se ricerchiamo la stabilità, dobbiamo avere dei buoni rapporti con l’Iran. Non possiamo parlare di stabilità se non riusciamo ad avere buone relazioni con l’Iran, la Turchia e gli altri nostri vicini.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Avete delle informazioni sul fatto che i servizi segreti occidentali finanziano dei combattenti ribelli qui in Siria?

 

BACHAR AL-ASSAD: No. Quello che sappiamo finora è che forniscono un sostegno ai terroristi per quel che riguarda le conoscenze, attraverso la Turchia e talvolta attraverso il Libano, per lo più. Ma ci sono degli altri servizi segreti, non occidentali, ma regionali che sono molto attivi, più di quelli occidentali, sotto la supervisione dei servizi di informazione occidentali.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Qual è stato il ruolo di Al Qaeda in Siria finora? Controlla alcune forze della coalizione dei ribelli?

 

BACHAR AL-ASSAD: Non penso che cerchino di controllare. Vogliono i loro regni o emirati nella propria lingua, ma attualmente stanno provando principalmente a terrorizzare la gente attraverso esplosioni, omicidi, attentati suicidi e cose del genere, per spingere la gente alla disperazione e accettare la realtà per quella che è. Vanno dunque avanti una tappa alla volta verso l’obiettivo finale, che è il cosiddetto Emirato Islamico di Siria, da dove poter promuovere la loro ideologia nel resto del mondo.

 

SOPHIE SHEVARNADZE: Tra coloro che si battono contro di voi e sono contro di voi, a chi parlereste?

 

BASHAR AL-ASSAD: Noi parliamo a chiunque abbia il desiderio autentico di aiutare la Siria e non perdiamo il nostro tempo con chiunque voglia utilizzare la crisi siriana per i propri interessi.

 

Bashar Al-Assad mentre parla con Sophie Shevardnadze di Russia Today
 

SOPHIE SHEVARNADZE: Ci sono state spesso accuse, non contro di Lei, ma contro le forze governative, di crimini di guerra contro i civili stessi. E d’accordo che le forze governative hanno commesso crimini di guerra contro i civili?

 

BASHAR AL-ASSAD: Noi ci battiamo contro il terrorismo, mettiamo in opera i dettami della nostra Costituzione e proteggiamo il popolo siriano. Ritorniamo a quello che è successo in Russia dieci anni fa: si combatteva il terrorismo in Cecenia e altrove, dove i terroristi hanno attaccato teatri, scuole… e l’esercito russo ha protetto il popolo. Dite che è stato un crimine di guerra? No… Due giorni fa, Amnesty International ha riconosciuto i crimini di guerra commessi qualche giorno prima dall’esercito dei ribelli, quando hanno catturato dei soldati e li hanno condannati a morte per esecuzione. Human Rights Watch ha ripetutamente denunciato i crimini di questi gruppi terroristici. Questo è il primo punto.  In secondo luogo, avere un esercito che compie crimini contro il suo popolo è privo di logica: l’esercito siriano è composto dal popolo siriano. Se ordinaste di commettere dei crimini contro il vostro stesso popolo, l’esercito si dividerebbe, si disintegrerebbe.  In terzo luogo, in Siria l’esercito non può resistere per venti mesi in condizioni difficili senza un sostegno popolare. Come ci può essere questo sostegno se uccidi la tua gente? Ciò è contraddittorio. Ecco la mia risposta.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Quando ha parlato per l’ultima volta a dirigenti occidentali?

 

BASHAR AL-ASSAD: Prima della crisi.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Ad un certo momento, hanno provato a dirLe che, se voi avesse lasciato il Suo posto, allora ci sarebbe stata la pace in Siria?

 

BASHAR AL-ASSAD: No, non direttamente. Ma direttamente o indirettamente, si tratta di una questione di sovranità e solo il popolo siriano può parlare di questo. Chiunque parli attraverso i  media, in una dichiarazione, direttamente o indirettamente, non ha senso e nessun peso in Siria.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: All’estero si dice che anche nel caso in cui decidesse di lasciare la Siria non avrebbe un posto dove andare. Dove andrebbe?

 

BASHAR AL-ASSAD: In Siria. Andrei dalla Siria in Siria. È il solo posto dove posso vivere. Non sono una marionetta. Non sono stato creato dall’Occidente per andare in Occidente o in qualsiasi altro Paese. Io sono Siriano, fatto in Siria, io devo vivere e morire in Siria.

 

Bashar Al-Assad mentre parla con Sophie Shevardnadze di Russia Today
 

SOPHIE SHAVARNADZE: Pensa che a questo punto potrebbe esserci una possibilità per una discussione e per la diplomazia oppure adesso solo l’esercito può fare qualcosa?

 

BASHAR AL-ASSAD: Ho sempre creduto nella diplomazia e nel dialogo anche con persone che non ci credono. Dobbiamo continuare a provare. Se riuscirà o meno, dobbiamo sempre cercare un successo parziale. Bisogna cercare un successo parziale prima di aspettare un successo completo anche se bisogna essere realisti: non possiamo pensare che il solo dialogo possa permetterci di realizzare qualcosa, poiché le persone che hanno commesso questi atti sono di due tipi: primo, coloro che non credono al dialogo, soprattutto gli estremisti e i fuorilegge incriminati anni prima della crisi, per i quali il governo è il nemico naturale dal momento che sarebbero imprigionati se in Siria ci fosse una situazione normale; la seconda categoria è quella di coloro che sono sostenuti dall’estero. Essi si sono impegnati con persone che li pagano e li riforniscono di armi. Dobbiamo essere realisti. Ma c’è anche la terza categoria, quella di coloro che sono o attivisti o politici che accettano il dialogo. Questo è il motivo per cui abbiamo continuato il dialogo per mesi, anche con i militanti, e molti di loro hanno lasciato cadere le armi e sono tornati alla loro vita normale.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Pensa che un’invasione di una forza straniera sia imminente?

 

BASHAR AL-ASSAD: Credo che il prezzo di questa invasione sarà più alto di quello che il mondo possa permettersi, perché se ci sono dei problemi in Siria – e noi siamo l’ultimo baluardo della laicità e della stabilità nella regione – ci sarà un effetto domino dall’Atlantico al Pacifico e si conoscono le implicazioni sul resto del mondo. Non penso che l’Occidente imboccherà questa strada; ma, nel caso, nessuno è in grado di dire cosa succederà.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Presidente, si sente in colpa per qualcosa? Quale è stato il Suo errore più grande?

 

BASHAR AL-ASSAD: Sul momento, ad essere franchi, non saprei. Anche prima di prendere una decisione considero sempre il fatto che una parte sarà sbagliata, ma non si può parlare subito degli errori. Talvolta, soprattutto durante le crisi, non si vede ciò che è giusto o sbagliato. Non sarei, dunque, oggettivo nel parlare di errori adesso, perché siamo ancora nel bel mezzo della crisi.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Al momento quindi non ha rimpianti?

 

BASHAR AL-ASSAD: No. Quando tutto è chiaro si può parlare dei propri errori. Ma per forza di cose si commettono errori, è normale.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Se oggi fosse il 15 marzo 2011, giorno in cui le manifestazioni sono cominciate, cosa farebbe di diverso?

 

BASHAR AL-ASSAD: Farei quello che ho fatto il 15 marzo, esattamente la stessa cosa: chiederei alle diverse parti di avere un dialogo e di opporsi ai terroristi, perché è così che è cominciata. Non è cominciata con delle proteste. Le manifestazioni sono state l’ombrello, la copertura. Ma all’interno di queste manifestazioni alcuni militanti hanno cominciato a sparare sui civili e sull’esercito allo stesso tempo. Forse, a livello tattico, avremmo potuto fare alcune cose in modo diverso. Ma come Presidente non decido le tattiche, prendo sempre la decisione a livello strategico. La cosa è diversa.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Presidente Al-Assad, come vede se stesso  tra dieci anni?

 

BASHAR AL-ASSAD: Vedo attraverso il mio Paese, io non mi vedo, io vedo il mio Paese tra dieci anni. È così che mi posso vedere.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Si vede in Siria?

 

BASHAR AL-ASSAD: Io devo essere in Siria. La mia posizione non è importante. Non mi vedo come presidente oppure no, non è questo che mi importa. Posso vedermi in questo Paese, un Paese sicuro, una Paese stabile e prospero.

 

SOPHIE SHAVARNADZE: Presidente siriano Bashar Al-Assad, grazie per averci concesso questa intervista.

 

BASHAR AL-ASSAD: Grazie ancora per essere venuti in Siria.

 

 

Traduzione di Andrea Turi

 

LA SHELL E I “RIBELLI” SIRIANI

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Totalmente sconosciuto al grande pubblico internazionale solo una settimana fa, Sheikh Moaz al-Khatib è stato nominato presidente della Coalizione nazionale siriana, che rappresenta l’opposizione  filooccidentale al governo di Damasco. Descritto da una intensa campagna di pubbliche relazioni come un’alta personalità morale senza legami partigiani o economici, in realtà è sia un membro dei Fratelli musulmani che un dipendente della compagnia petrolifera Shell.

 
 
 

Sheikh Ahmad Al-Khatib Moaz
 
La frammentazione dell’esercito dell’opposizione siriana riflette i conflitti tra gli Stati che cercano un “cambio di regime” a Damasco. Particolarmente noto è il Consiglio Nazionale (CNS), anche noto come Consiglio di Istanbul perché è stato creato lì. Controllato con pugno mano di ferro dal DGSE francese e finanziato dal Qatar. I suoi membri, che hanno avuto il diritto di soggiornare in Francia e varie agevolazioni, sono costantemente messi sotto pressione dai servizi segreti che gli dettano qualsiasi intervento. Il Comitato di Coordinamento Locale (CCL) è formato da civili locali che sostengono la lotta armata. Infine, l’Esercito libero siriano (ELS), inquadrato principalmente dalla Turchia, incorpora la maggior parte dei combattenti, tra cui le brigate di al-Qaida. L’80% delle sue unità riconosce come guida spirituale il takfirista saudita Sheikh Adnan al-Arour.

Cercando di recuperare un ruolo egemone e di ristabilire l’ordine in questa cacofonia, Washington ha invitato la Lega Araba a convocare una riunione a Doha, per liquidare il CNS e costringere il maggior numero possibile di piccoli gruppi ad aderire a una singola struttura: la Coalizione nazionale delle forze di opposizione e della rivoluzione. Dietro le quinte, l’ambasciatore Robert S. Ford ha distribuito cariche e prebende. In ultima analisi, è emersa alla presidenza della Coalizione una personalità che non era mai stata citata dalla stampa: Sheikh Ahmad Moaz al-Khatib.


Lo Sheikh Ahmad Moaz al-Khatib


 
 

L’ambasciatore Robert S. Ford

Robert S. Ford è considerato il massimo esperto di Medio Oriente presso il Dipartimento di Stato.E’ stato assistente di John Negroponte dal 2004 al 2006, quando il capo delle spie in Iraq applicava il metodo che aveva sviluppato in Honduras: l’uso intensivo degli squadroni della morte e dei Contras. Poco prima degli eventi in Siria, è stato nominato dal Presidente Obama ambasciatore a Damasco, insediandolo nonostante l’opposizione del Senato. Immediatamente applicava il metodo di Negroponte in Siria, con i risultati che conosciamo. La moglie dell’ambasciatore Robert S. Ford, Alison Barkley, sovrintende alla logistica dell’ambasciata degli Stati Uniti in Arabia Saudita.
 
Se la creazione della Coalizione nazionale serve a Washington per riprendersi il controllo dell’opposizione armata, non affronta la questione della rappresentatività. Subito le varie componenti dell’ELS si sono dissociate. In particolare, la Coalizione esclude l’opposizione ostile alla lotta armata, tra cui il Coordinamento Nazionale per il Cambiamento Democratico di Haytham al-Manna.

La scelta di Sheikh Ahmad Moaz al-Khatib risponde a un bisogno apparente: per essere riconosciuti dai combattenti è necessario che il presidente della Coalizione sia un religioso, ma per essere accettato dall’Occidente, deve apparire un moderato. Soprattutto in questo periodo di intensi negoziati, é necessario che questo presidente possa contare su forti competenze per discutere sul futuro del gas siriano, ma non deve parlarne in pubblico. Gli spin doctors statunitensi hanno subito rinnovato il fascino di Sheikh Ahmad Moaz al-Khatib. Alcuni media ne hanno già fatto un leader “modello”. Quindi, un grande giornale statunitense lo descrive come “un prodotto unico della sua cultura, come Aung San Suu Kyi in Birmania” [1].

Ecco il ritratto che ne traccia Agence France Presse (AFP):

“Lo sceicco Ahmad Al-Khatib Moaz, l’uomo del consenso. Nato nel 1960, lo sceicco Ahmad Moaz al-Khatib è un moderato religioso, un tempo imam della Moschea degli Omayyadi di Damasco, e non appartiene ad alcun partito politico. E’ questa indipendenza e la sua vicinanza a Riad Seif, ispiratore dell’iniziativa per una vasta coalizione, che ha fatto di lui un candidato ampiamente riconosciuto per la leadership dell’opposizione. Sufi dell’Islam, il religioso ha studiato relazioni internazionali e diplomazia, e non è legato ai Fratelli musulmani o a una qualsiasi forza di opposizione islamista.Più volte arrestato nel 2012 per aver chiesto pubblicamente la caduta del regime di Damasco, gli è stato proibito di parlare in moschea dalle autorità siriane, ed ha trovato rifugio in Qatar. Originario di Damasco, ha svolto un ruolo decisivo nella mobilitazione nella periferia della capitale, soprattutto a Douma, molto attiva sin dall’inizio della mobilitazione pacifica nel marzo 2011.”Shaykh al-Khatib è una figura di spicco che ha un reale sostegno popolare”, ha detto Khaled al-Zayni, membro del Consiglio nazionale siriano (CNS)” [2].

La verità è ben diversa. In realtà, non vi è alcuna prova che lo sceicco Ahmad Moaz al-Khatib abbia mai studiato relazioni internazionali e diplomazia, ma ha un retroterra ingegneristico in geofisica e ha lavorato per sei anni presso al-Furat Petroleum Company (1985-91). Questa società è una joint venture tra l’azienda nazionale e le compagnie petrolifere estere, tra cui l’anglo-olandese Shell, con il quale ha mantenuto dei legami. Nel 1992 ha ereditato dal padre, sceicco Muhammad Abu al-Faraj al-Khatib, la carica di prestigioso predicatore della Moschea degli Omayyadi. È stato subito  sollevato dal suo incarico e gli è stato proibito di predicare in tutta la Siria. Tuttavia, questo episodio non accadde nel 2012 e non ha nulla a che fare con gli eventi in corso, ma avvenne venti anni fa, sotto Hafez al-Assad. La Siria allora sosteneva l’intervento internazionale per liberare il Kuwait; a parte il “rispetto del diritto internazionale”, Damasco voleva farla finita con il rivale iracheno e  avvicinarsi all’Occidente. Lo sceicco, a sua volta, si era opposto a “Desert Storm” per gli stessi motivi enunciati da Usama bin Lade, al quale si richiamamava all’epoca, tra cui il rifiuto della presenza occidentale nella terra saudita, considerata un sacrilegio. Ciò lo portò a pronunciare discorsi antiebraici e antioccidentali.


Ahmad Moaz Al-Khatib vestito elegantemente e senza cravatta all’incontro con François Hollande

Successivamente, lo sceicco ha continuato l’attività di educazione religiosa, in particolare presso l’Istituto olandese a Damasco. Ha intrapreso numerosi viaggi all’estero, soprattutto nei Paesi Bassi,  Regno Unito e Stati Uniti. Infine, si stabilì in Qatar. Nel 2003-04 è tornato in Siria come lobbista della Shell per l’aggiudicazione di concessioni su petrolio e gas. Era ritornato in Siria agli inizi del 2012, per istigare il quartiere di Douma (sobborgo di Damasco). Arrestato, poi graziato, ha lasciato il paese a luglio e si è stabilito a Cairo. La sua famiglia è di tradizione sufi, ma a differenza delle pretese di AFP, è un membro dei Fratelli musulmani e l’ha anche dimostrato alla fine del suo discorso inaugurale a Doha. Con la solita tecnica della Fratellanza, adatta non solo la forma ma anche la sostanza del suo discorso al pubblico. A volte, è a favore di una società multi-religiosa, a volte per il ripristino della sharia. Nei suoi scritti ha definito il popolo ebraico come “nemico di Dio” e i musulmani sciiti come infedeli, epiteto che equivale alla condanna a morte.

In ultima analisi, l’ambasciatore Robert S. Ford ha giocato bene. Washington, ancora una volta ha ingannato i suoi alleati. Come in Libia, la Francia si è assunta tutti i rischi, ma dal grande accordo che si annuncia la Total non trarrà alcun beneficio.

 

NOTE:

[1] “A model leader for Syria?” editoriale del Christian Science Monitor, 14 novembre 2012.
[2] “Un religieux, un ex-député et une femme à la tête de l’opposition syrienne”, AFP, 12 novembre 2012.

 


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

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Sommario del numero XXVIII (4-2012)

 

Lo strumento fondamentalista

“Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”. Questa frase, che Samuel Huntington colloca in chiusura del lungo capitolo del suo Scontro delle civiltà intitolato “L’Islam e l’Occidente”1, merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che ad essa è stata riservata finora.

Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un fondamentale ed esistenziale confronto tra difesa e rifiuto di “diritti umani”, “democrazia” e “valori laici”. Scrive infatti Huntington: “Fino a quando l’Islam resterà l’Islam (e tale resterà) e l’Occidente resterà l’Occidente (cosa meno sicura) il conflitto di fondo tra due grandi civiltà e stili di vita continuerà a caratterizzare in futuro i reciproci rapporti”2.

Ma la frase riportata all’inizio non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre l’indicazione di un alleato tattico: il fondamentalismo islamico. È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, allorché Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una pratica di questo genere era già stata inaugurata.

“È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”3.

L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.

Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”4. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”5.

L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gl’interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.

Il fondatore di An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il collaborazionismo islamista abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle relazioni tra gli USA e il mondo islamico. A un giornalista del “Figaro” che gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei il dirigente islamista tunisino ha risposto di sì, perché “non esiste un passato coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra, niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e islamisti contro il nemico bolscevico ha aggiunto la menzione del contributo inglese6.

 

 

La “nobile tradizione salafita”

L’islamismo rappresentato da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista, è quello che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”7.

Ritornare al puro Islam dei “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn), facendo piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli: è questo il programma della corrente riformista che ha i suoi capostipiti nel persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e nei suoi discepoli, i più importanti dei quali furono l’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Muhammad Rashid Rida (1865-1935).

Al-Afghani, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di altissime cariche, il 3 giugno 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito degl’Inglesi.

“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”8: questo l’esplicito riconoscimento del ruolo di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne dato da Lord Cromer (1841-1917), uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano. Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto”9 ed affermava in una fatwa che “non era lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettavano la religione islamica e consentivano ai musulmani di praticare il loro culto”10, Muhammad ‘Abduh trasmetteva all’ambiente musulmano le idee razionaliste e scientiste dell’Occidente contemporaneo. ‘Abduh sosteneva che nella civiltà moderna non c’è nulla che contrasti col vero Islam (identificava i ginn con i microbi ed era convinto che la teoria evoluzionista di Darwin fosse contenuta nel Corano), donde la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici e culturali del pensiero moderno.

Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista”11 in grado di creare un nuovo califfato. Nel 1897 Rashid Rida aveva fondato la rivista “Al-Manar”, la quale, diffusa in tutto il mondo arabo ed anche altrove, dopo la sua morte verrà pubblicata per cinque anni da un altro esponente del riformismo islamico: Hasan al-Banna (1906-1949), il fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.

Ma, mentre Rashid Rida teorizzava la nascita di un nuovo Stato islamico destinato a governare la ummah, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, in cui vigeva un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.

 

 

La setta wahhabita

La setta wahhabita trae il proprio nome dal patronimico di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), un arabo del Nagd di scuola hanbalita che si entusiasmò ben presto per gli scritti di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima in Siria e in Egitto, Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). Sostenitore di ottuse interpretazioni antropomorfiche delle immagini contenute nel linguaggio coranico, animato da un vero e proprio odium theologicum nei confronti del sufismo, accusato più volte di eterodossia, Ibn Taymiyya ben merita la definizione di “padre del movimento salafita attraverso i secoli”12 datagli da Henry Corbin. Seguendo le sue orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo (shirk) la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e, in genere, tutti quegli atti che, a loro giudizio, equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un essere umano o un’altra creatura, cosicché considerarono politeista (mushrik), con tutte le conseguenze del caso, anche il pio musulmano trovato ad invocare il Profeta Muhammad o a pregare vicino alla tomba di un santo. I wahhabiti attaccarono le città sante dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; abolirono la celebrazione del genetliaco del Profeta; taglieggiarono i pellegrini e sospesero il Pellegrinaggio alla Casa di Dio; emanarono le proibizioni più strampalate.

Sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro dietro esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti si divisero tra le due dinastie rivali dei Sa’ud e dei Rashid e per un secolo impegnarono le loro energie nelle lotte intestine che insanguinarono la penisola araba, finché Ibn Sa’ud (‘Abd al-’Aziz ibn ‘Abd ar-Rahman Al Faysal Al Su’ud, 1882-1953) risollevò le sorti della setta. Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando un “quasi protettorato”13 sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa’ud riuscì ad occupare Mecca nel 1924 e Medina nel 1925. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue dipendenze”, secondo il titolo che nel 1927 gli venne riconosciuto nel Trattato di Gedda del 20 maggio 1927, stipulato con la prima potenza europea che riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.

“Le sue vittorie – scrisse uno dei tanti orientalisti che hanno cantato le sue lodi – lo han reso il sovrano più potente d’Arabia. I suoi domini toccano l’Iràq, la Palestina, la Siria, il Mar Rosso e il Golfo Persico. La sua personalità di rilievo si è affermata con la creazione degli Ikhwàn o Fratelli: una confraternita di Wahhabiti attivisti che l’inglese Philby ha chiamato ‘una nuova massoneria’”14.

Si tratta di Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della rivolta araba antiottomana del 1915, il quale “aveva occupato alla corte di Ibn Saud il posto del deceduto Shakespeare”15, per citare l’espressione iperbolica di un altro orientalista di quell’epoca. Fu lui a caldeggiare presso Winston Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Mumbay.

Con la fine del secondo conflitto mondiale, durante il quale l’Arabia Saudita mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe aggiunto e poi sostituito quello nordamericano. In tal senso, un evento anticipatore e simbolico fu l’incontro che ebbe luogo il 1 marzo 1945 sul Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente Roosevelt e il sovrano wahhabita; il quale, come ricordava orgogliosamente un arabista statunitense, “è sempre stato un grande ammiratore dell’America, che antepone anche all’Inghilterra”16. Infatti già nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saoudi Arabian Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione dell’oro.

 

 

I Fratelli Musulmani

Usurpata la custodia dei Luoghi Santi ed acquisito il prestigio connesso a tale ruolo, la famiglia dei Sa’ud avverte l’esigenza di disporre di una “internazionale” che le consenta di estendere la propria egemonia su buona parte della comunità musulmana, al fine di contrastare la diffusione del panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e – dopo la rivoluzione islamica del 1978 in Iran – dell’influenza sciita. L’organizzazione dei Fratelli Musulmani mette a disposizione della politica di Riyad una rete organizzativa che trarrà alimento dai cospicui finanziamenti sauditi. “Dopo il 1973, grazie all’aumento dei redditi provenienti dal petrolio, i mezzi economici non mancano; verranno investiti soprattutto nelle zone in cui un Islam poco ‘consolidato’ potrebbe aprire la porta all’influenza iraniana, in particolare l’Africa e le comunità musulmane emigrate in Occidente”17.

D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel 1928 dall’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949) si basa su un terreno dottrinale sostanzialmente comune, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti, anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”18 e in quanto tali recano inscritta fin dalla nascita nel loro DNA la tendenza ad accettare, sia pure con tutte le necessarie riserve, la moderna civiltà occidentale. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna ed esponente dell’attuale intelligencija musulmana riformista, così interpreta il pensiero del fondatore dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione (‘che è stato un apporto positivo’, tenuto conto della specificità della religione cristiana e dell’istituzione clericale)”19. L’intellettuale riformista ricorda che il nonno, nella sua attività di maestro di scuola, si ispirava alle più recenti teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente: “Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante interesse all’educazione moderna e il loro modo di affrontare le esigenze e la preparazione all’apprendimento, fondate su metodi saldi tratti da studi sulla personalità e la naturalità del bambino  (…) Dobbiamo approfittare di tutto ciò, senza provare alcuna vergogna: la scienza è un diritto di tutti (…)”20.

Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata in maniera ufficiale la disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini fondamentali di contrasto con l’Islam. In Libia, in Tunisia, in Egitto i Fratelli hanno goduto del patrocinio statunitense.

Il partito egiziano Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa della Fratellanza e da essa controllato, si richiama ai “diritti umani”, propugna la democrazia, appoggia una gestione capitalistica dell’economia, non è contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il suo presidente Muhammad Morsi (n. 1951), oggi presidente dell’Egitto, ha studiato negli Stati Uniti, dove ha anche lavorato come assistente universitario alla California State University; due dei suoi cinque figli sono cittadini statunitensi. Il nuovo presidente ha subito dichiarato che l’Egitto rispetterà tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con Israele); ha compiuto in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale e ha dichiarato che intende rafforzare le relazioni con Riyad; ha dichiarato che è un “dovere etico” sostenere il movimento armato di opposizione che combatte contro il governo di Damasco.

Se la tesi di Huntington aveva bisogno di una dimostrazione, i Fratelli Musulmani l’hanno fornita.

 

 

 

NOTE:

1. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.

2. Ibidem, p. 310.

3. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.

4. Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, UTET, Torino 2010, p. 219.

5. “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter- faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm)

6. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

7. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

8. Cit. in: Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

9. Cit. in: Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2004, p. 65.

10. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., p. 23.

11. Cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 143.

12. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

13. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

14. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

15. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

16. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

17. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm. Sulla presenza dei Fratelli Musulmani in Occidente, cfr. Karim Mezran, La Fratellanza musulmana negli Stati Uniti, in: I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo, cit., pp. 169-196; Stefano Allievi e Brigitte Maréchal, I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, ibidem, pp. 197-240.

18. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

19. Tariq Ramadan, op. cit., pp. 350-351.

20. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, 19 sett. 1929, cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 352.

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

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È uscito il numero XXVIII (4/2012) della rivista di studi geopolitici “Eurasia”, un volume di 280 pagine intitolato:

 

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve sommario per ciascuno di essi.

 

 

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM? di Claudio Mutti

 

 

HYBRIS TALASSOCRATICA E GIUSTA MISURA di Fabio Falchi

È l’hybris, il “logos tremendo”  della talassocrazia ateniese che Tucidide descrive nel famoso dialogo tra i Meli e gli Ateniesi: giusto è quel che è necessario, non viceversa. Viene posta così, in un’ottica definibile come “realistica”, la questione del rapporto tra il Politico e l’Etica, intesa come appartenenza alla propria terra, come il “dimorare” di un popolo. Inevitabile quindi la condanna della talassocrazia ateniese – che, in quanto “smisurata” volontà di potenza, non può non  condurre la Città alla rovina – e naturale che proprio alla luce  di ciò che i Greci denominavano “giusta misura” si riveli l’hybris su cui si fonda un’altra e ben più temibile talassocrazia.

 

INTEGRALISMO E DISINTEGRAZIONE  di Paolo Sampaoli

Capita spesso di vedere usato il termine “ultra-ortodosso” per designare alcune manifestazioni religiose, specialmente con riferimento alle cosiddette “tre religioni monoteistiche”: la cosa è piuttosto paradossale poiché di fatto gli ambienti cui si attribuisce una simile qualifica sono del tutto minoritari all’interno delle rispettive tradizioni, e spesso vengono considerati come “eretici” da quelle stesse scuole che per secoli ne hanno rappresentato l’ “ortodossia”. Può essere interessante studiare brevemente alcuni antecedenti storici di certe forme ideologiche moderne, che amano presentarsi come “radicalmente islamiche”, ma che offrono invece i tratti di dottrine eterodosse già apparse nel passato, fino dai primi secoli dell’Islam, le quali sembrano costituire quasi degli archetipi destinati a giocare un ruolo disintegrativo nella stessa tradizione da cui apparentemente derivano.

 

NEOCOLONIALISMO E MONDO ISLAMICO di Ali Reza Jalali

L’attuale situazione del mondo islamico, ed in particolare del Vicino Oriente, con guerre permanenti, ingerenze straniere, l’emergere di gruppi reazionari, non può non essere analizzata alla luce degli interessi mondiali in gioco in questa zona del globo. I gruppi radicali spesso sono il frutto di una politica dell’imperialismo volta al perseguimento della famigerata politica del “divide et impera”. Ovviamente questa situazione caotica non è frutto di politiche recenti, ma è il risultato di un processo di disgregazione intrapreso da diverso tempo. Gli attori e le vittime possono cambiare, ma l’interesse strategico rimane il dominio della regione.

 

LA LOTTA DELL’ISLAM CONTRO L’USURA di Antonino Galloni

Le tre principali religioni monoteistiche hanno cercato, fin dai primordi, di stabilire un rapporto tra fede ed economia fondato sull’equilibrio e volto ad evitare pericolose degenerazioni. L’Islam, in particolare, è la religione che ha elaborato il più rigido sistema di restrizioni all’attività finanziaria, legando indissolubilmente il credito alle reali necessità popolari. La deriva del sistema produttivo capitalistico rende estremamente attuale questo argomento.

 

L’IMPERIALISMO USA GL’ISLAMISTI di Eric Walberg

Fin dagli anni Cinquanta la classe politica dirigente degli USA vide nel wahhabismo un’ideologia funzionale ai suoi interessi geopolitici, che non avrebbe mai rappresentato un reale pericolo per Israele o per i regimi filoamericani del Vicino Oriente. La manipolazione degli islamisti entrò in una nuova fase negli anni Settanta, quando, ancor prima dell’intervento sovietico in Afghanistan, la CIA mise in piedi una rete operativa segreta in collaborazione con agenzie saudite, pachistane, iraniane ed egiziane.

 

LA DOTTRINA DEL GIHAD di Solimano Mutti

Questo saggio intende offrire innanzitutto una rassegna delle fonti primarie che hanno costituito la base per l’elaborazione della dottrina del gihàd da parte dei giuristi musulmani. Il lavoro consiste quindi, in gran parte, in una versione commentata dei brani coranici concernenti il gihàd e dei più significativi hadith relativi al medesimo tema. Nel caso dei versetti coranici la versione è stata eseguita sul testo arabo, traslitterato in caratteri latini in maniera semplificata. Volutamente compilativo e “tecnico”, il saggio intende presentare  i testi nella loro nuda oggettività, al fine di rendere possibile una comprensione del significato del gihàd quale esso emerge dalla polisemia del termine utilizzato nelle fonti. L’immagine che ne risulta è quella di una dottrina articolata e complessa, la quale non può essere ridotta alle semplificazioni e alle distorsioni che sono circolate sia nell’ambito occidentale sia in quello musulmano. Infatti, se è vero che l’Occidente ha percepito il gihàd (anzi “la” gihàd, secondo il bizzarro cambiamento di genere grammaticale subìto dal termine nella lingua italiana) come una fanatica “guerra santa” finalizzata alla conversione forzata dei non musulmani, è altrettanto vero che non meno distorte appaiono alcune interpretazioni del gihàd che hanno conosciuto una certa fortuna nello stesso mondo islamico. Basterebbe citare, a tale proposito, l’uso strumentale che del concetto in esame è stato fatto da alcuni gruppi politico-militari appartenenti alla variegata galassia del modernismo islamico. Si pensi, per esempio, al movimento dei Mojahedin-e Khalq-e Irani, che evoca il gihàd già nella propria denominazione; agli appelli al gihàd lanciati da organizzazioni patrocinate dalla CIA; al “gihàd sociale” teorizzato dall’intellettuale riformista Tariq Ramadan ecc. ecc. Al fine di delineare un profilo della concezione islamicamente ortodossa del gihàd, l’autore fa riferimento all’elaborazione “classica” della Sciarìa, ossia della Legge divina secondo l’Islam: tanto a quella che ha avuto luogo nel quadro dei riti giuridici tradizionali dell’Islam sunnita (malikita, sciafeita, hanafita, hanbalita), quanto a quella che ha preso forma nell’ambito sciita.

 

UNA “DORSALE VERDE NEI BALCANI”? di Stefano Vernole 

Per condurre la loro strategia nell’ex Jugoslavia, finalizzata all’insediamento di nuove basi militari in un paese storicamente neutrale e all’allargamento della NATO verso oriente, Washington e Londra hanno finanziato, addestrato militarmente e sostenuto mediaticamente il micronazionalismo albanese e i gruppi salafiti. Belgrado, considerata avamposto geopolitico russo, ne ha pagato le conseguenze maggiori. Lo “scontro di civiltà” fomentato tra il mondo ortodosso e quello islamico ha sconvolto tutta la regione, a vantaggio degl’ interessi economici e militari atlantisti.

 

AMBIGUITÀ DELL’”ISLAM TURCO” di Aldo Braccio

Ampiamente diffuso in tutto il mondo, il movimento religioso-politico creato dal pensatore di Erzurum ha rappresentato – al momento dell’affermazione dell’AKP – il segno della riscossa islamica in Turchia, dopo la pluridecennale intolleranza degli ambienti laico-kemalisti allineati all’”Occidente”. Ora però l’ambiguità e la debolezza di fondo del pensiero güleniano ha favorito il suo recupero da parte dell’ideologia occidentale, che lo ha utilizzato come sostegno per la svolta involutiva e filoatlantica recentemente impressa dal governo di Ankara alla politica estera.

 

GULEN, ERDOGAN, ERGENEKON E LA CIA di Alessandro Lattanzio

Fethullah Gülen è un influente ex-imam turco, il quale ha fondato e dirige, assieme al suo vice Nurettin Veren, un movimento religioso (MFG o Movimento Fethullah Gülen) che ha sede in Turchia e vanta 4 milioni di seguaci in tutto il mondo. Nel 1998 Gülen fuggì negli USA, per evitare le indagini circa il suo coinvolgimento in un golpe in Turchia. Bill e Hillary Clinton, e la CIA, lo accolsero e lo presentarono come uno “straordinario studioso e pacifico riformatore laico dell’Islam”. Oggi Barack Obama ha nominato Dalia Mogahed suo consigliere sull’Islam. Ovviamente Mogahed è un gülenista.

 

IL “GRANDE GIOCO” CENTROASIATICO di Giacomo Gabellini

«Israele è la miccia sempre accesa. Quanto è lunga la miccia e fino a dove può bruciare? La polveriera non è in Medio Oriente. Il Medio Oriente al massimo è la seconda parte della miccia. La polveriera si trova in un punto imprecisato della cosiddetta “area turanica” (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Kirghizistan, Azerbaigian, Uzbekistan, Pakistan), che da secoli rappresenta il ventre molle della Russia ma (attenzione) anche della Cina. Dalle etnie uigure (turche) si risale verso lo Xinjiang, uno dei più grandi bacini minerari e petroliferi del mondo. Da lì si controlla tutta l’Eurasia. Si controllano corridoi del terzo millennio. Da quei corridoi eurasiatici passano gli oleodotti e i gasdotti, passano le vie della droga, passano i mercanti di schiavi che riforniscono le industrie e i commerci di tutto il mondo» (Samuel Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta)

 

XINJIANG: ESTREMISMO WAHHABITA E SECESSIONISMO di Andrea Fais

In Cina la comunità musulmana conta 20 milioni di fedeli appartenenti a varie nazionalità; almeno la metà di loro è stanziata nel territorio della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, nodo strategico della Via della Seta, che rappresenta per Pechino una delle più promettenti prospettive sociali, politiche ed economiche degli ultimi vent’anni. Qui l’estremismo wahhabita si è innestato sulle pulsioni secessioniste sostenute ed alimentate da centrali statunitensi.

 

LA GUERRA D’ALGERIA NON È FINITA di Gilles Munier

Conquistata l’indipendenza, l’Algeria dichiarò l’Islam religione di Stato, ma l’intelligencija musulmana fu marginalizzata. Houari Boumedienne riequilibrò la situazione, introducendo il diritto islamico nel codice civile come fonte sussidiaria del diritto ed assegnando a noti intellettuali islamici posti di responsabilità e di guida. Ciononostante i Fratelli Musulmani intensificarono la loro opposizione. Oggi il regime algerino si trova in difficoltà, ma nessuno è in grado di prevedere quando avrà luogo l’esplosione che incendierà il paese.

 

LA MASSONERIA IN EGITTO di Emanuela Locci

In Egitto la massoneria è stata un veicolo formidabile della penetrazione occidentale, un’organizzazione elitaria che ha influito sulla cultura politica locale per tutto il corso del XIX secolo e fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando Nasser sciolse tutte le logge, vedendo nell’organizzazione massonica un veicolo di interessi stranieri. La vita massonica in Egitto è ripresa soltanto nel 2007, quando è stata fondata la Grande Loggia Regolare d’Egitto, che dipende direttamente dalla Grande Loggia Regolare d’Inghilterra.

 

LA MASSONERIA IN TUNISIA di Emanuela Locci

Italiani e francesi si contendono il controllo della Tunisia, un tempo territorio dell’Impero Ottomano. Stretti fra cosmopolitismo e interesse nazionale, i massoni francesi in Tunisia si muovono in un campo minato, dovendo difendere le loro prerogative nei confronti sia della popolazione locale sia delle altre comunità straniere presenti nella nazione nordafricana. Dagli esordi alla metà dell’Ottocento, la massoneria arriva all’indipendenza della Tunisia, attraversando due guerre mondiali e subendo lo scioglimento ordinato prima dal regine di Vichy e poi dalla neonata repubblica indipendente tunisina.

 

“RISVEGLIO ISLAMICO”: IL SENSO DI UNA DEFINIZIONE di Enrico Galoppini

Quello che segue è l’intervento del nostro redattore Enrico Galoppini, preparato in occasione della Conferenza dal titolo “Il risveglio islamico” tenutasi a Teheran il 18 e 19 settembre 2011. Tale intervento era riservato ad uno dei seminari a latere della conferenza vera a propria, ma per ragioni di tempo non è poi stato esposto. Il  taglio del presente scritto non corrisponde a quello dei contributi di norma ospitati sulla rivista, ma riteniamo che costituisca un documento, utile a suo modo a fare chiarezza circa la differenza tra “Islam” e “islamismo”.

 

INTERVISTA ALL’HUJJATULISLAM HAJJ ABBAS DI PALMA a cura di Claudio Mutti

 

INTERVISTA A OMAR MIH, RAPPRESENTANTE DEL FRONTE POLISARIO a cura di Anna Maria Turi

 
 
GEOPOLITICA DELL’ACQUA IN PALESTINA di Michele Gaietta

Dopo essere stato colpito duramente dallo scoppio della seconda intifada e dalla perdita di priorità strategica nell’agenda politica internazione del post-11 settembre, il processo di pace israelo-palestinese sembra essersi definitivamente arenato nella frattura apertasi tra Hamas e Fatah. Un quadro, quello attuale, frutto di un progressivo deterioramento che rende velleitarie molte proposte finalizzate a rilanciare negoziati a partire dalle storiche questioni che hanno a lungo alimentato l’ostilità degli attori coinvolti. In questa logica s’inserisce la riflessione sul ruolo che, potenzialmente, potrebbe avere la questione delle risorse idriche che, da fonte di conflittualità, potrebbe divenire strumento di  cooperazione. Le peculiarità della questione idrica rispetto ad altri elementi di attrito tra israeliani e palestinesi deriva dalla sua duplice natura. L’acqua, infatti, oltre ad essere un’essenziale fonte di vita dotata di un valore simbolico direttamente proporzionale alla sua scarsità, è anche un bene il cui prelevamento e consumo possono essere razionalizzati tramite criteri di efficienza ed economicità. Disponendo d’adeguati finanziamenti, investimenti e tecnologie, il conflitto idrico tra israeliani e palestinesi potrebbe essere parzialmente disinnescato liberando così nuovi spazi negoziali per affrontare questioni il cui esito dipende, esclusivamente, da variabili di natura politico-strategica.

 

CINA-USA: L’ALBA DI UNA NUOVA GUERRA FREDDA di Andrea Fais 

Malgrado le frasi di circostanza pronunciate da Hillary Clinton durante l’ultimo vertice dell’AIPAC, appare presumibile che il teatro marittimo di confronto del XXI secolo non sarà l’Oceano Pacifico, bensì l’Oceano Indiano. Le forti alleanze strette da Pechino con Teheran, Islamabad e Rangoon lasciano supporre quali potrebbero essere i reali motivi della razionalizzazione delle truppe nel Sud Est asiatico e in Australia stabilita dalla nuova dottrina militare degli Stati Uniti, nonché della rinnovata alleanza di Washington con le petro-monarchie del Golfo e con la Fratellanza Musulmana: contenere la Cina e bloccarne i tentativi di cooperazione con i Paesi del Vicino Oriente e dell’Africa.

 

CINA E AFRICA di Luca Favilli

Il saggio tenta di evidenziare il contrasto tra il sempre maggiore appoggio della Cina agli interventi dell’ONU e la parallela strategia economica e politica attuata nel Continente africano. Si cerca di mettere in luce i limiti della partecipazione cinese all’azione internazionale di mantenimento della pace, che si distingue per essere dettata da interessi politici ed economici che in larga parte si pongono in conflitto con i principi e i fini che stanno alla base degli stessi interventi delle Nazioni Unite.

 

LA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO: LO SCANDALO GEOLOGICO di Francesca Dessì 

La Repubblica Democratica del Congo, ricchissima di risorse naturali, è stata ribattezzata “scandalo geologico” e “paradosso della ricchezza”.  Coltan, petrolio, diamanti, oro, niobio, cobalto, nichel.. sono solo alcuni dei minerali presenti nel sottosuolo congolese. Un patrimonio minerario che rappresenta una maledizione per la popolazione civile, vittima da oltre vent’anni di una guerra che non si è mai sopita ma che ha assunto solo forme diverse. Si tratta di conflitti per il possesso delle zone minerarie che coinvolgono gruppi ribelli, élite politiche e grandi multinazionali.

 

STRATEGIA E GEOPOLITICA DELL’AMERICA LATINA di Miguel Á. Barrios

Parte terza

 
 

L’islamismo contro l’Islam?

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EURASIA 4/2012 (ottobre-dicembre 2012), 273 pagine

 

Editoriale 

Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?

Geofilosofia

Fabio Falchi, Hybris talassocratica e giusta misura

Dossario

Paolo Sampaoli, Integralismo e disintegrazione
Ali Reza Jalali, Neocolonialismo e mondo islamico
Mahdi Darius Nazemroaya, Il capitalismo contro l’Islam
Antonino Galloni, La lotta dell’Islam contro l’usura
Eric Walberg, L’imperialismo USA gl’islamisti
Solimano Mutti, La dottrina del gihàd
Stefano Vernole, Una “dorsale verde” nei Balcani?
Aldo Braccio, Ambiguità dell’”Islam turco” 
Alessandro Lattanzio, Gülen, Erdogan, Ergenekon e la CIA
Giacomo Gabellini, Il “grande gioco” centroasiatico
Andrea Fais, Xinjiang: estremismo wahhabita e secessionismo
Gilles Munier, La guerra d’Algeria non è finita
Emanuela Locci, La massoneria in Egitto
Emanuela Locci, La massoneria in Tunisia

Documenti

Enrico Galoppini, “Risveglio islamico”: il senso di una definizione

Interviste

Intervista all’hujjatulislam Abbas Di Palma
Intervista a Omar Mih, rappresentante del Fronte Polisario

Continenti

Michele Gaietta,  Geopolitica dell’acqua in Palestina
Andrea Fais, Cina-USA: l’alba di una nuova guerra fredda
Caterina Ghiselli,  L’esercito di terracotta del XXI secolo
Luca Favilli, Cina e Africa
Francesca Dessì, La Repubblica Democratica del Congo
Miguel A. Barrios, Strategia e geopolitica dell’America Latina (terza parte)

 
 

 
 


LO SCOPO DELL’AGGRESSIONE SIONISTA

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Qualche ingenuo potrebbe credere che l’attuale aggressione israeliana contro Gaza, con armi statunitensi finanziate direttamente o indirettamente con denaro arabo, sia una reazione al lancio di un razzo che ha colpito un obiettivo militare in Israele, a seguito dell’ennesima provocazione nel contesto di un blocco che dura da cinque anni, in violazione del diritto internazionale e umanitario. Diritto e regole che non hanno posto nello spirito colonialista sionista…

Le vere ragioni di questa operazione israeliana dal simbolico nome “colonna di nubi” o “pilastro della difesa” sta nel fatto che la “linea di attacco” contro arabi e musulmani approfitti del sistema di dipendenza e sottomissione necessario per far avanzare il progetto di liquidazione dell’”Asse della Resistenza”, e quindi anche il progetto di liquidare la “causa palestinese” voluto da Israele e dai suoi sostenitori. Questo è l’obiettivo principale di tale operazione, che gli esecutori non possono ammettere pubblicamente per paura di cadere negli errori delle guerre del 2006 [contro il Libano] e del 2009 [contro Gaza], dove l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo, apparentemente predefinito, portò alla sconfitta d’Israele. È per questo che l’attacco è stato lanciato senza specificare il suo “obiettivo finale”. Tuttavia, vediamo molti obiettivi militari, politici e strategici.

 

 
Obiettivi militari

Israele vuole porre fine al consolidamento delle forze della resistenza a Gaza, ora che i suoi dirigenti hanno rifiutato di prendere il sentiero tracciato dagli eventi in Siria e di obbedire a coloro, che tra di loro si schierarono con gli “urbani”, essenzialmente rappresentati dai dirigenti del Qatar notoriamente asserviti a Stati Uniti e Israele, i cui tre obiettivi principali sono:

1. Liquidazione dei leader militari e politici ribelli, per fare spazio a chi ha capitolato partecipando al programma occidentale, il che significa che a Gaza i leader recalcitranti che si rifiutano di disarmare sono minacciati.

2. Distruzione, per quanto possibile, dell’arsenale missilistico che la Resistenza ha accumulato dall’”Operazione Piombo Fuso” contro Gaza nel 2008 – 2009.

3. Addomesticare la situazione a Gaza per raggiungere uno status quo che paralizzi, limiti o distrugga la Resistenza, come accade in Cisgiordania a causa della repressione imposta dagli “organi della sicurezza di Oslo” in collaborazione con i servizi di sicurezza israeliani.

 

 
Obiettivi strategici e militari

Israele e l’Occidente, sotto la guida degli Stati Uniti, desiderano testare i governi appena usciti dal tunnel della fasulla “primavera araba”[1], per garantirsi della validità della loro transizione. “Il Potere mondiale a noi, in cambio di uno locale per voi”[2], prima di precipitarsi in ulteriori impegni ancor più importanti, politicamente e militarmente, a causa della crisi in Siria, soprattutto perché è ormai certo che il raggiungimento dei loro obiettivi in Siria gli impone di garantirsi le stesse disposizioni da questi governi, creati in fretta e sotto pretesti religiosi, in particolare per quanto riguarda la liquidazione della Resistenza a Gaza. Ma Israele ha obiettivi più immediati, in rapporto sia con le elezioni parlamentari che con la raccolta di informazioni utili su organizzazione militare, armi e piani adottati dalla Resistenza per fortificare il proprio fronte interno, nel 2006 e 2009, ripristinando la deterrenza e il prestigio israeliani, prima di una qualsiasi azione contro il Libano, la Siria, o l’Iran.

 

 
Un piano in quattro fasi

Per raggiungere i suoi obiettivi, sembra che Israele abbia adottato un piano abbastanza flessibile da consentirgli di adattarsi a ogni eventualità, così da poterlo sospendere in qualsiasi momento e senza subire un’altra sconfitta, se non riesce a raggiungere il suo obiettivo finale; rioccupare temporaneamente la Striscia di Gaza. Siamo convinti che questo piano dovrebbe avvenire in più fasi:

1. Il primo passo è, come abbiamo visto, sufficientemente elastico, grazie soprattutto all’aviazione. Si tratta della liquidazione del maggior numero possibile di leader e razzi depositati a Gaza, con l’argomento eterno di colpire solo terroristi e salvare i civili! A questo punto, Israele potrebbe ritenere di aver raggiunto il suo obiettivo, uccidendo Ahmad al-Jaabari, uno dei leader più importanti della Resistenza, e presumibilmente distrutto gran parte dell’arsenale immagazzinato.

2. Un secondo passo dovrebbe seguire, se l’ambiente locale e internazionale è pronto, senza dimenticare che la decisione israeliana dipenderà anche dalla risposta della Resistenza. La sua attuazione prevederebbe, probabilmente, di assediare la Striscia di Gaza per una profondità da 3 a 5 km, per impedire per quanto possibile l’uso di razzi e distruggere il maggior numero di tunnel, impedendo i rifornimenti. Anche in questo caso, Israele potrebbe affermare di aver raggiunto il suo obiettivo.

3. Un terzo passo sarebbe controllare fasce di 2-3 Km di larghezza all’interno di Gaza, anche per dividere il campo in diversi compartimenti che sarà sufficiente circondare senza impegnarsi in un confronto diretto con i combattenti, nel mezzo delle zone residenziali.

4. Una quarta fase permetterebbe l’occupazione della Striscia di Gaza e l’eliminazione dell’organizzazione della Resistenza, ricordando l’operazione adottata nel 1982 in Libano. Inoltre, Israele ha iniziato a preparare gli ultimi due passaggi richiamando 75.000 riservisti [3] e condizionando l’opinione internazionale ad accettare la sua decisione e le relative conseguenze!

Questo è ciò che possiamo dedurre dalla condotta delle operazioni sul terreno, e ora è diventato molto chiaro che la sospensione o il proseguimento dell’aggressione contro il suo obiettivo finale, dipende da due fattori:

1. Il primo fattore è la performance della Resistenza, in particolare la gestione dei suoi lanci, sufficienti per terrorizzare il nemico e produrre l’effetto dissuasivo ricercato. Qui, ricordiamo che non è necessario intensificare il fuoco, perché la loro funzione non è distruggere ma scoraggiare. Su questo punto, riteniamo che il risultato sia positivo, per il momento, tanto più che alcune sorprese hanno confuso il campo avversario, tra cui gli attacchi di precisione su obiettivi nella zona di Tel Aviv.

2. Un secondo fattore è la risposta regionale e, in particolare, dell’Egitto, che potrebbe pesare quasi quanto le prestazioni della Resistenza, anche se si nota, al momento della stesura di questa analisi, che i pronunciamenti internazionali e regionali di alcuni paesi arabi, tendono a favorire Israele e a incoraggiarne la continuazione dell’aggressione, ricordando, ancora una volta, l’ambiente della guerra del 2006 contro il Libano.

Detto questo, la questione è se la complicità di questi paesi arabi contro Gaza si manifesterà anche contro la Siria, ora che abbiamo assistito al tradimento della “Lega”. Come spiegare altrimenti la loro sottomissione a Israele, quando hanno tirato fuori gli artigli contro la Siria e il popolo siriano? Questo è il nostro parere e la nostra preoccupazione, senza alcun dubbio; l’Egitto ha minacciato di congelare o annullare gli accordi di Camp David, rompere l’assedio di Gaza riaprendo senza condizioni il valico di Rafah, permettere alla Resistenza di difendersi con le armi, mentre gli “urbani” continueranno a cooperare con gli Stati Uniti sulle questioni arabe e regionali, a partire dal dossier siriano; tanto più che questi paesi arabi non si rivolgeranno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per condannare gli attacchi israeliani e imporgli di smetterla di opporsi al riconoscimento della Palestina come Stato osservatore.

Senza tale presa di posizione, crediamo che le loro dichiarazioni siano vacue e con l’unico scopo d’incoraggiare Israele a continuare la sua aggressione, a conferma della loro collusione con il nemico. D’altra parte, non è possibile fare affidamento sui pii desideri dell’Occidente o sulle dichiarazioni israeliane sperando nella fine dell’aggressione. Questa aggressione non si fermerà che con la deterrenza armata della Resistenza, sostenuta da un vero Asse e dale posizioni ferme dei paesi arabi, a partire dall’Egitto.

 

 
 
* Il Dottor Amin Hoteit è un analista politico, esperto di strategia militare e Generale di brigata libanese in pensione. Copyright © 2012 Global Research

FONTE: http://www.mondialisation.ca/gaza-but-ultime-de-lagression-israelienne-en-fonction-des-circonstances/5312374?print=1

 

NOTE:

[1] Agression israélienne contre Ghaza. L’Occident teste ses alliés «islamistes» – http://www.legrandsoir.info/agression-israelienne-contre-ghaza-l-occident-teste-ses-allies-islamistes.html

[2] Syrie : Les signes avant-coureurs de la faillite de l’Occident!? – http://www.mondialisation.ca/syrie-les-signes-avant-coureurs-de-la-faillite-de-loccident/5305261

[3] Israël rappelle 75 000 soldats sous les drapeaux pendant que les bombardements se poursuivent à Gaza – http://www.mondialisation.ca/israel-rappelle-75-000-soldats-sous-les-drapeaux-pendant-que-les-bombardements-se-poursuivent-a-gaza/5312286


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

PREPARAZIONE DEL GRANDE TRADIMENTO CONTRO LA SERBIA

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La stampa russa oggi ha fatto trapelare al pubblico i “dettagli  della piattaforma per il Kosovo” del governo della Serbia. Questi dati indicano chiaramente che si tratta di “capitolazione incondizionata della Serbia davanti all’Occidente”, in violazione del diritto internazionale.

Si chiarisce così che Belgrado ha ormai completamente rinunciato alla risoluzione n. 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e alle alte istanze giuridiche internazionali, cedendo infine alle pressioni degli Stati Uniti e della Germania affinché accetti l’ammissione dello Stato del Kosovo nelle Nazioni Unite.

I media russi hanno propriamente riferito di un nuovo “piano” del governo serbo, in base al quale la Serbia acconsentirebbe all’ingresso del Kosovo all’ONU in qualità di Stato sovrano.

In pratica la Serbia non riconoscerà ufficialmente l’indipendenza del Kosovo ma dalle voci diplomatiche che trapelano in Russia si percepisce come una simile capitolazione di Belgrado costringerà la maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea, anche quelli che finora non hanno riconosciuto il Kosovo, a riconsiderare questo tema.

Nel documento si rileva che Mosca ha sempre sottolineato di voler appoggiare qualsiasi soluzione concordata con Belgrado.

Per l’opinione pubblica della Serbia, il governo di Belgrado ha impostato la questione sulla sorta di una soluzione simile a quella della Germania all’inizio della Guerra Fredda.

Si prevede che, d’altra parte, la Serbia, come contro-favore, riceva dall’Unione Europea una data di inizio dei  negoziati per la sua adesione alla Comunità Europea, dove chiaramente sarà definito che la Serbia potrà aderire solo rinunciando a quella parte del suo territorio nazionale.

Rossiskaja Gazeta cita una fonte anonima del Ministero della Difesa della Federazione Russa, specificando che la diplomazia russa non è riuscita a convincere la parte serba che per la Serbia sarebbe più conveniente “congelare” a tempo indeterminato il conflitto in Kosovo, in modo che il Paese non si debba impegnare in nuovi negoziati con l’Unione Europea e gli Stati Uniti; questi ultimi esigono una piena rinuncia della Serbia alla propria integrità nazionale e alla sovranità sulla regione kosovara in cambio di “una vaga promessa” in relazione all’avvio delle trattative per l’ingresso nel mercato comune europeo, sottolineando il fatto che la Turchia è in tale “lista” da ben tredici anni e la Macedonia da sette, senza alcuna concreta prospettiva di adesione all’Unione Europea nel prossimo futuro.

La diplomazia russa è quasi certa che Belgrado abbia già accettato l’ingresso del Kosovo nelle Nazioni Unite come membro a pieno titolo, ed ha preparato un piano alternativo che potrebbe accelerare il riconoscimento internazionale di Abkhazia e Ossezia del Sud.

Fino ad oggi, la Russia non ha attivamente insistito sul riconoscimento di queste repubbliche caucasiche, prendendo in considerazione la situazione della Serbia relativamente al Kosovo, ma se la Serbia darà il suo via libera al riconoscimento del Kosovo, la Russia non avrà più nessun obbligo morale ad astenersi dalla campagna per il riconoscimento internazionale dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud.

Il Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa ritiene che in questo caso, dopo una sua iniziativa, almeno venti Paesi potrebbero a breve termine riconoscere l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia.

Tra questi Paesi figurano Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Cuba, Ecuador, Zimbabwe e diversi altri Stati dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia, come riporta in un commento Rossiskaja Gazeta, indagando sulla “piattaforma del governo serbo”.

 

 
Sasha Pjevovic (16.11.2012)

 

 

Riferimento: “Rossijskaâ Gazeta”, Aleksandr Samožnev, Serbiâ gotova otkazatsâ ot prav suverennogo gosudarstva, 5.11.2012.

 

Fonte: http://www.akademediasrbija.com/index.php?option=com_content&view=article&id=6225:2012-11-16-09-51-14&catid=38:cat-komentari-vesti&Itemid=54

 

Traduzione dal serbo a cura di Gordana Soprana

LA PROIEZIONE POLITICA E STRATEGICA DELLA NUOVA CINA

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Il 15 novembre scorso è calato il sipario sul XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese. A pochi giorni di distanza dalle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, l’evento ha senza dubbio catalizzato l’attenzione degli osservatori internazionali intenti a cercare di capire le configurazione politica della futura dirigenza che, a partire dall’anno prossimo, prenderà in mano le redini della nazione asiatica. Nella fretta di fornire quante più indiscrezioni e indicazioni possibili, molta parte della stampa europea si è dimenticata di sottolineare e sintetizzare in modo esaustivo il discorso inaugurale del presidente uscente Hu Jintao. A dieci anni di distanza dalla sua elezione a segretario generale e a quasi dieci dalla sua ascesa alla più alta carica istituzionale della Repubblica Popolare, Hu Jintao ha specificato con una lunga e complessa analisi i sentieri del Partito, le vie politiche, economiche e difensive attraverso cui il governo dovrà necessariamente transitare per raggiungere gli obiettivi fissati.

 

 

 

LE DIRETTRICI GENERALI

La relazione di Hu Jintao può essere suddivisa in almeno dodici parti, ad ognuna delle quali corrisponde una serie di indicazioni e di traguardi di grande importanza per le sorti della Cina[1]:

1. Nel bilancio dei cinque anni trascorsi dal XVII Congresso (2007), Hu Jintao ha riassunto in breve tutti i risultati raggiunti dal grande lavoro svolto.

  • Lo stato delle politiche di riforma e apertura alla luce della rapida crescita economica ottenuta grazie al XII Piano Quinquennale
  • Il potenziamento dello sviluppo industriale ed agricolo
  • La crescita qualitativa del livello di vita della popolazione
  • Lo sviluppo di un sistema legislativo moderno e coerente con l’opera di costruzione della democrazia popolare nel quadro dell’edificazione del socialismo con caratteristiche cinesi
  • Lo sviluppo della cultura a tutti i livelli e della ricerca scientifica
  • L’estensione all’intera popolazione dei fondamentali piani assicurativi e assistenziali
  • La modernizzazione delle Forze Armate nel contesto delle nuove condizioni di confronto militare e nel quadro della missione storica che detengono
  • L’intensificazione della cooperazione politica ed economica con i territori ad amministrazione speciale (Hong Kong e Macao) e con Taiwan, finalizzata alla loro progressiva e completa reintegrazione nella nazione cinese
  • La crescita della capacità diplomatica internazionale della Repubblica Popolare Cinese
  • L’importanza della concezione scientifica nello sviluppo teoretico del paradigma del Partito, identificato dalla continuità tra il marxismo-leninismo, il pensiero di Mao Zedong, la teoria di Deng Xiaoping e la tesi della triplice rappresentanza (Jiang Zemin)

2. Rafforzare le conquiste del socialismo con caratteristiche cinesi nelle nuove condizioni storiche e politiche, attraverso:

  • La conservazione del popolo nel ruolo di motore e attore della nazione
  • La prosecuzione dell’edificazione e dello sviluppo delle forze produttive, secondo un piano di razionalizzazione (armoniosa) e diversificazione della crescita economica
  • Il rafforzamento delle politiche di riforma a tutti i livelli, della sperimentazione e dell’innovazione sul piano economico, politico e tecnologico
  • La salvaguardia della giustizia sociale e del benessere generale attraverso il rafforzamento del concetto di uguaglianza di tutti i cittadini per quanto riguarda diritti e doveri
  • Lo sviluppo di un equo sistema di redistribuzione della ricchezza nazionale verso tutte le fasce sociali
  • La crescita dell’armonia sociale e dei meccanismi volti alla soddisfazione delle esigenze generali al fine di costruire una società stabile e ordinata
  • Il perseguimento di una politica di sviluppo pacifico attraverso le linee di una cooperazione internazionale dal mutuo vantaggio
  • La continua e incessante riaffermazione del principio in base al quale il Partito rappresenta il popolo e l’autorità ne è emanazione diretta

3. Completare la costruzione di una società moderatamente prospera in tutti gli aspetti e approfondire i nuovi margini per le riforme di apertura a tutti i livelli.

4. Accelerare il miglioramento dell’economia socialista di mercato e il cambiamento del modello di sviluppo, attraverso un’attenta regolazione in ambito economico e produttivo tra il ruolo (fondamentale) del settore statale e quello (complementare) del settore privato.

5. Estendere la democrazia popolare e sviluppare un sistema assembleare sempre più partecipativo a tutti i livelli, sulla via del socialismo con caratteristiche cinesi.

6. Sviluppare un sistema educativo ed etico in linea coi principi-guida del socialismo con caratteristiche cinesi:benessere, civiltà, armonia, indipendenza, uguaglianza, giustizia, legalismo, patriottismo, impegno, integrità e solidarietà.

7. Rafforzare lo sviluppo sociale e migliorare il benessere della popolazione attraverso riforme e miglioramenti nelle politiche di gestione economica.

8. Migliorare le politiche ambientali, per difendere i tratti geografici e geologici della nazione.

9. Accelerare il processo di modernizzazione e informatizzazione delle Forze Armate e delle strutture difensive nel loro complesso.

10. Arricchire l’esperienza accumulata durante l’applicazione della linea “un Paese, due sistemi” per quel che riguarda la riunificazione progressiva e definitiva dei territori di Hong Kong, Macao e Taiwan con la Repubblica Popolare Cinese.

11. Procedere nella promozione della nobile causa della pace internazionale e dello sviluppo umano, seguendo incessantemente i “Cinque Principi della Coesistenza Pacifica” (Zhou Enlai), al fine di contribuire allo sviluppo e al miglioramento delle capacità di mediazione e di dialogo nel contesto delle Nazioni Unite.

12. Rendere il lavoro del Partito ancora più scientifico sotto tutti gli aspetti.

 

La relazione di Hu Jintao ha ribadito tutti i punti fondamentali espressi già durante lo scorso anno, in occasione delle celebrazioni per il 90° anniversario dalla fondazione del Partito Comunista Cinese (1 luglio 1921), e costituisce un documento importantissimo per comprendere l’eredità politica con la quale dovrà necessariamente rapportarsi il neoeletto segretario generale Xi Jinping non appena entrerà effettivamente in possesso della carica presidenziale all’inizio dell’anno prossimo. Da parte sua, il discorso di presentazione alla stampa di Xi Jinping, è stato molto più sintetico e si è limitato alle formalità imposte dal cerimoniale. Tuttavia, dopo aver presentato i nuovi sei membri che lo affiancheranno nella composizione del Comitato Centrale del Partito (Li Keqiang, Zhang Deijiang, Yu Zhengsheng, Liu Yunshan, Wang Qishan e Zhang Gaoli), Xi ha ricordato il fondamentale contributo internazionale della Cina negli oltre 5.000 anni della sua civiltà e ha sottolineato le sofferenze più recenti patite dal popolo cinese[2], con un implicito riferimento al “secolo delle umiliazioni” (1839-1949). Ha infine elencato in sintesi le speranze e le aspirazioni sociali ed economiche del popolo cinese, paragonando la cifra delle responsabilità e degli oneri di cui il Partito dovrà farsi carico, alla pesantezza del Monte Tai[3], secondo la celebre usanza dei leader politici di ricorrere ad efficaci figure retoriche riferite ai più antichi luoghi naturali del Paese.

 

 

 

LE DIRETTRICI STRATEGICHE

Se Hu Jintao ribadisce l’importanza dei “Cinque Principi di Coesistenza Pacifica” quale guida per la Repubblica Popolare Cinese lungo i numerosi e promettenti sentieri della sua politica estera, Xi Jinping non potrà esimersi dall’adozione di una strategia globale che consenta di proiettare, in modo pacifico e sostenibile, l’emergente potenza economica cinese. L’ascesa pacifica del Paese, rimarcata da Hu Jintao nella sua relazione, dovrà dunque bilanciarsi con un’attenta ricerca di spazi di cooperazione sempre più vasti, senza preclusioni e senza limitazioni di natura pregiudiziale o politica, proprio come indicato da Deng Xiaoping trent’anni fa. Le basi costruite da Jiang Zemin e Zhu Rongji nell’opera di pacificazione e normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Socialista del Vietnam e con gli altri Paesi dell’ASEAN e nello sviluppo di solide relazioni con i Paesi Africani (FOCAC), sono state chiaramente cementate negli ultimi anni dal lavoro del presidente Hu Jintao e del primo ministro Wen Jiabao. I lodevoli risultati raggiunti grazie ai piani di cooperazione con il Sud del Mondo hanno permesso a Pechino di presentare la sua win-win strategy come un biglietto da visita decisivo nella capacità di attrarre le dirigenze politiche indigene, gran parte delle quali ormai disilluse dai fallimenti della fase unipolare, che ha contrassegnato gli ultimi vent’anni di storia.

Da almeno due anni, nei principali documenti strategici della Repubblica Popolare Cinese, il concetto di globalizzazione economica viene affiancato a quello di multipolarizzazione del mondo, con l’evidente scopo di sottolinearne il rapporto di reciproca corrispondenza. Hu Jintao afferma in tal senso: “Oggigiorno il mondo sta subendo profondi e complessi mutamenti, ma la pace e lo sviluppo restano le principali istanze dei nostri tempi. Le tendenze globali verso il multipolarismo e la globalizzazione economica si stanno espandendo. Il cambiamento culturale sta aumentando, e la società informatica sta emergendo rapidamente. Sono in atto nuove svolte importanti nel quadro della rivoluzione scientifica e tecnologica. La cooperazione globale si sta espandendo su vari livelli e su tutti i fronti. Le economie emergenti e i Paesi in via di sviluppo stanno acquistando una forza sempre più grande, orientando il bilanciamento dei rapporti di forza internazionali nella direzione di una stabilizzazione della pace mondiale”[4]. Questa lettura ribalta completamente la prospettiva teorica occidentale più recente che, soprattutto negli anni Novanta, aveva frettolosamente (e opportunisticamente) interpretato la fine della Guerra Fredda (ed il crollo del blocco sovietico) come la diretta emersione di una necessità in base alla quale il modello politico ed economico degli Stati Uniti si sarebbe dovuto riprodurre ed espandere nell’intero pianeta. All’epoca, Bill Clinton ricorse alla mitologia della globalizzazione, concepita alla stregua di un “dogma” politico, di un meccanismo che, come sottolinea Zbigniew Brzezinski, risentì chiaramente di una concezione storica deterministica, perfettamente compatibile con la (auto)convinzione statunitense di essere una nazione indispensabile per il mondo, una nazione in cui la politica estera poté essere pensata come una vera e propria estensione della politica interna[5].

Hu Jintao, tuttavia, ribadisce che alle grandi opportunità multipolari che il processo di “mondializzazione” dei commerci e delle tecnologie presenta, si affianca anche una pericolosissima moltiplicazione dei fattori di rischio presenti nel pianeta: “Il mondo è ancora lontano dall’essere pacificato. La crisi finanziaria mondiale sta imprimendo un impatto devastante sul pianeta. Lo sviluppo economico mondiale è oscurato da crescenti fattori di instabilità e incertezza […] Ci sono ancora segnali di un egemonismo in aumento, di politiche aggressive e di neo-interventismo […] Istanze di livello internazionale come la sicurezza alimentare, la sicurezza energetica e industriale e la sicurezza informatica stanno diventando sempre più pressanti”[6].

Le minacce costituite da un egemonismo praticato in modo sempre più sofisticato ma non meno aggressivo del passato, da un rinnovato interventismo militare da parte delle principali potenze della NATO e dalla forza logistica, tecnologica ed informatica conseguita dalle reti del terrorismo transnazionale – tutt’altro che tramontato dopo la (presunta) cattura ed uccisione di Osama bin Laden – emergono come priorità basilari nella lettura del presidente Hu Jintao. È comprensibile, dunque, il quadro generale delle motivazioni che spingono il Ministero della Difesa della Repubblica Popolare ad intensificare le sue attività, a modernizzare le sue strutture strategiche e ad espandere il suo raggio di sorveglianza.

Anche in questo caso, i compiti cui Xi Jinping dovrà assolvere sembrano già segnati dal corso politico degli ultimi dieci anni: “Costruire una forte difesa nazionale e un potente esercito, commisurato al peso internazionale della Cina e capace di rispondere alle richieste della sua sicurezza e dello sviluppo dei suoi interessi, è un compito strategico nel cammino di modernizzazione del Paese […] Dobbiamo instancabilmente adempiere al principio in base al quale il Partito esercita il comando assoluto sulle Forze Armate e continuare ad educare il nostro Esercito attraverso il sistema teorico del socialismo con caratteristiche cinesi”[7]. L’importanza attribuita all’integrazione tra il settore delle tecnologie informatiche (IT) e il settore militare, mostra come l’Esercito Popolare di Liberazione sia pienamente in grado di proiettarsi nel contesto del XXI secolo, aumentando le sue capacità tattico-operative ed innovandole in linea con il paradigma delle caratteristiche cinesi. In tal senso, sarà fondamentale per il governo centrale mantenere un accorto criterio di proporzione tra le spese militari e le spese sociali.

A partire dal 2001, la Repubblica Popolare Cinese ha destinato alla Difesa fondi sempre più consistenti, chiaramente commisurati alla crescente richiesta di sicurezza collettiva dopo i tragici avvenimenti dell’Undici Settembre. In soli dieci anni, il budget militare cinese è aumentato del 214%, passando da 41,176 miliardi di dollari a 129,272[8], mostrando dunque di poter assumere numerosi impegni ed oneri anche nel quadro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai: ogni anno, infatti gli stati maggiori di Russia, Cina, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan conducono addestramenti congiunti per migliorare reciprocamente le rispettive capacità tattico-operative nella lotta al terrorismo, al separatismo, all’estremismo, al contrabbando e al narcotraffico.

 

 

 

GLI SVILUPPI MILITARI RECENTI

La Cina lancia la sua prima portaerei. A settembre di quest’anno, ha ufficialmente fatto il suo ingresso in servizio la prima portaerei cinese della storia. Si tratta della Liaoning, ossia l’ex portaerei sovietica Varjag, acquistata dall’Ucraina nel 1998 e rimessa a nuovo dal comparto militar-industriale cinese. Si tratta di una volontà espressa dalla Commissione Militare Centrale sin dal 1987 ed inseguita con forza al fine di difendere non solo gli interessi marittimi regionali ma anche quelli oceanici. Classe Kuznetsov, la Liaoning potrà ospitare un numero elevato di cacciabombardieri J-15, Su-33 (fabbricazione russa) e, pare, anche un prototipo del nuovo velivolo stealth J-31.

Il caccia “invisibile” J-31. Per alcuni noto anche come J-21, è stato recentemente fotografato nell’aeroporto militare di Shenyang in fase di sperimentazione. Si tratta di un caccia monoposto con caratteristiche stealth, che potrebbe essere stato pensato dagli ingegneri cinesi come un oggetto destinato al mercato, vista la sua capacità di sostituire i vecchi MiG-29 sovietici[9], ancora in dotazione a molti eserciti dei Paesi arabi.

Il missile balistico DF-21D come potenziale arma letale nel sea-denial. Lo sviluppo della sua prima portaerei e la volontà espressa dal presidente Hu Jintao di potenziare le capacità navali delle Forze Armate, non sono fattori che possono modificare radicalmente la natura tellurocratica della potenza cinese. Inoltre, l’odierno strapotere navale degli Stati Uniti (11 portaerei in servizio, 3 in costruzione) sarà pressoché irraggiungibile, almeno per i prossimi trenta o quaranta anni. Perciò lo sviluppo marittimo della Cina va al momento inquadrato in una quasi esclusiva logica di sea-denial. Rientra in questo quadro il missile Dong-Feng  21D, che si ritiene sia capace di una gittata superiore a 2.000 km e dotato di una testata MARV a guida terminale, in grado di evitare i potenziali intercettori nemici, “verosimilmente dotata di carica perforante (per penetrare i ponti corazzati delle portaerei)”[10]. Se le capacità che molti analisti occidentali temono, fossero confermate dai fatti, la sua capacità antinave sarebbe devastante per qualunque portaerei nemica.

Il tunnel segreto dei missili e la Cina come terza potenza nucleare. A dire il vero è ancora un’ipotesi, eppure le numerose foto satellitari scattate negli ultimi anni hanno indotto diversi analisti occidentali a pensare che in alcune aree della Cina vi siano reticoli formati da enormi gallerie sotterranee, che costituirebbero una specie di grande “metropolitana” per testate missilistiche, realizzata addirittura a partire dal 1967 quando avrebbe avuto lo scopo di trasferire rapidamente truppe e armi da una parte all’altra delle aree coinvolte. In questi sotterranei, i missili a testata nucleare scorrerebbero attraverso una vera e propria tela di binari: l’ipotesi verosimile è che, nel suo “arsenale segreto” sotterraneo, l’Esercito Popolare di Liberazione disponga, attualmente, di un numero elevato ma imprecisato di missili, che varia dai 100 agli 818, secondo quanto stabilito dalla DIA statunitense[11]. In base ad altri studi, tuttavia, si stima che la Cina possa disporre addirittura di 3.000 testate: qualunque sia il numero esatto, è ormai dato quasi per certo il sorpasso cinese ai danni di Francia e Gran Bretagna per quanto concerne il numero di testate nucleari in dotazione, confermandosi al terzo posto mondiale dopo Russia e Stati Uniti.

 

 

 

CONCLUSIONI

È presumibile che le priorità di breve e medio termine di Pechino siano tutte finalizzate a riconquistare, attraverso una sapiente miscela di soft e hard power, la sovranità perduta nei suoi scenari marittimi: Taiwan, le Isole Penghu, le Isole Diaoyu e le Isole Spratly. Tra le opzioni soft rientrano la cooperazione economica (Consensus 1992 con Taiwan, Accordi delle 16 Parole d’Oro con il Vietnam, CAFTA con i Paesi dell’ASEAN, ASEAN+3 con Giappone e Corea del Sud), l’interscambio tecnologico e la condivisione bilaterale nell’ambito del know-how in genere; tra le opzioni hard gli interventi militari diretti (che Pechino tende a voler evitare e a considerare solo in extrema ratio) e indiretti quali, ad esempio, la deterrenza, il sea-denial o la semplice pressione, come già tentato nei confronti di Taiwan in occasione delle tesissime esercitazioni aeronavali del 1995-1996.

 

 

*Andrea Fais è giornalista e saggista, e si occupa di geopolitica, geostrategia e questioni internazionali, principalmente in riferimento alle aree della Russia, della Cina, dell’India e dell’Asia Centrale. E’ autore del libro “L’Aquila della Steppa. Volti e prospettive del Kazakistan” (Edizioni All’Insegna del Veltro, 2012); coautore, assieme a Marco Costa ed Alessandro Lattanzio, del libro “La Grande Muraglia. Pensiero Politico, Territorio e Strategia della Cina Popolare” (Anteo Edizioni, 2012); e coautore, assieme a Diego Angelo Bertozzi, del libro “Il Risveglio del Drago – Politica e Strategie della Rinascita Cinese” (Edizioni All’Insegna del Veltro, 2011).

 

 

 

Note

1. (cfr.) Xinhua, Full text of Hu Jintao’s report at 18th Party Congress, 17 novembre 2012.

2. CNN, Xi Jinping’s first public address, 15 novembre 2012.

3. Ibidem.

4. Xinhua, Full text of Hu Jintao’s report at 18th Party Congress, XI. Continuing to Promote the Noble Cause of Peace and Development of Mankind, 17 novembre 2012.

5. Z. Brzezinski, L’Ultima Chance, Salerno Editore, Roma, 2008, p. 67.

6. Xinhua, Full text of Hu Jintao’s report at 18th Party Congress, XI. Continuing to Promote the Noble Cause of Peace and Development of Mankind, 17 novembre 2012.

7. Xinhua, Full text of Hu Jintao’s report at 18th Party Congress, IX. Accelerating the Modernization of National Defense and the Armed Forces, 17 novembre 2012.

8. SIPRI database, China military expenditures, 2011.

9. N. Sgarlato, Nuovo caccia da Shenyang, “Aeronautica&Difesa” n. 313, novembre 2012, p. 30.

10. E. De Gaetano, Dong-Feng DF-21D, il primo missile balistico antinave, “Aeronautica&Difesa” n.311, settembre 2012, pp. 60-61.

11. A.E. Cesarano, Cina terza potenza nucleare?, “Aeronautica&Difesa” n. 313, novembre 2012, p. 54.

IL NUOVO PERÙ DI OLLANTA HUMALA

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Negli ultimi 24 mesi il Perù si è trovato ad affrontare continui mutamenti che hanno pian piano ridefinito la sua politica interna ed estera. All’interno di una macro-area estremamente complessa ,come quella Latinoamericana, l’elezione del presidente Humala insieme alla continua ridefinizione dell’assetto di governo hanno prodotto movimenti significativi all’interno dello scacchiere geopolitico sub regionale che sembrano consegnare al paese andino un ruolo fondamentale nella concreta formazione,se pur in stato embrionale, di un area indiolatina.

 

 

Il Perù svolta a sinistra.

I primi dati ” a boca de urna” che emergevano dalle elezioni presidenziali del 2011 avevano suscitato negli osservatori internazionali e non solo grande sorpresa. Il paese per la prima volta si mostrava estremamente polarizzato. Il voto lasciava trasparire come esistesse, in misura non più marginale, un Perù Humalista ed uno Fujimorista. Sembrava oramai evidente uno scollamento tra i cittadini ed il ceto politico che veniva accusato di non essere riuscito ,in  un periodo di forte crescita economica, ad attuare le necessarie manovre riguardanti la redistribuzione del reddito. Nonostante l’economia peruviana regalasse dati costantemente positivi ed il numero degli individui che si collocavano al di sotto della soglia di povertà fosse sceso significativamente,(1) la sperequazione socio-economica cresceva soprattutto tra ”costeña” (creoli) ed i ”chola”(indigeni) mettendo in tensione anche il rapporto centro-periferia nel paese andino. Un voto di protesta ed insoddisfazione che consegnava a Ollanta Humala e Keiko Fujimori la sfida nel secondo turno. Se il primo era direttamente riconducibile ad una linea chavista, l’ allora trentacinquenne Keiko rappresentava un ritorno nostalgico ai valori della gestione attraverso la ”mano dura” del padre Alberto. Il periodo che seguì fu caratterizzando dalla ricerca di un posizionamento da parte dei partiti che erano usciti sconfitti dalla prima tornata elettorale.

La destra peruviana,  rappresentante dell’elite economica nazionale e dell’industria estrattiva nonché portatrice degli interessi statunitensi nella macroarea, andava quindi appiattendosi sulla figura della figlia d’ ”el chino”.

La sinistra  si era assemblata attorno alla figura dell’ex-militare progressista, fondatore del Partito Nacionalista Peruano. Ollanta Humala era alla sua seconda candidatura (2) , dal 2006 le sue posizioni si erano decisamente temperate, le allusioni alle politiche chaviste che lo avevano politicamente definito nel passato lasciavano sempre maggiore spazio ad un immagine più conciliante: quella del presidente brasiliano Lula.

Alla fine il candidato di nuova ispirazione lulista prevalse. Decisivo, probabilmente,fu l’appoggio di Aleandro Toledo e Vargas Llosa, fondamentale fu d’altro canto, il desiderio della stragrande maggioranza del popolo peruviano di nuove politiche di rottura. Traspariva in misura sempre più netta  l’esigenza di una proposta politica almeno apparentemente inclusiva e redistributiva, capace di prestare maggiore attenzione a temi quali l’emarginazione sociale e l’economia sommersa ed informale.

 

Humala svolta a destra.  

Ollanta Humala si insediò tra l’entusiasmo generale durante la celebrazione delle ”feste partrie”. Nel primo anno, il bilancio della presidenza Humala vede all’attivo tre cambi di governo, l’ultimo formatosi alla fine di luglio 2012. Un evidente segnale di instabilità fatta di scandali veri o presunti, accuse di corruzione ed equilibrismi tra destra e sinistra, nel tentativo di raccogliere il consenso di un elettorato ritratto di un paese diviso.Se bene siano state introdotte novità attraverso una rinnovata attenzione per le politiche sociali come programmi in difesa dell’infanzia e della terza età, un innalzamento, se pur misero, del salario minimo, e sia stata approvata la ”ley de consulta”( legge che obbliga il Governo centrale a consultare le comunità indigene per i progetti che riguardano i territori tradizionali attraverso l’apertura di tavoli di discussione),lo sfondo costante che ha accompagnato questo primo anno sono stati senza ombra di dubbi i conflitti ambientali.

Primo tra tutti, capace di canalizzare l’attenzione internazionale e produrre una sollevazione popolare dai toni tal volta anche molto aspri, il ”proyecto Minas Congra”(4)che prevede il drenaggio di quattro lagune nella regione di Cajamarca: Perol e Mala che nascondono giacimenti auriferi e Azul e Chica le cui aree verrebbero desinate ad enormi depositi per contenere la terra da riporto. La sparizione di queste lagune provocherebbe ingenti danni ambientali e andrebbe probabilmente a trasformare la mappa idrografica dell’intera regione, mettendo a repentaglio, oltre all’ecosistema, la sopravvivenza delle comunità indigene che vivono ancora di agricoltura ed allevamento. Un conflitto che non si muove solo sulla messa in tensione del rapporto tra popolazione della regione e governo centrale ma crea attriti anche tra quest’ultimo e l’ amministrazione locale,  andando ad intaccare la già traballante intesa di governo. Nello specifico caso si è pertanto creato l’antagonismo tra il Ministero dell’Ambiente e quello dell’Energia e l’Estrazione Mineraria. Le contestazioni al ”proyecto Conga” da parte delle comunità che abitano l’area si sono moltiplicate nelle quattro province della regione. Decine di cortei hanno attraversato le strade delle città ed i manifestanti si sono fronteggiati aspramente con le forze dell’ordine. Scontri che hanno provocato decine di feriti e di fatto lanciato un messaggio chiaro e deciso al Governo e al Presidente Humala: la popolazione della Cajamarca non accetterà nessuna mediazione. La medesima posizione è stata appoggiata ed espressa più volte anche dagli amministratori locali e dallo stesso presidente della regione. La reazione del Presidente peruviano fu decisa: constatando l’impossibilità di portare avanti una trattativa con il Governo regionale e considerando i continui tafferugli nell’area, veniva dichiarato a partire dal 14 dicembre 2011 lo stato d’eccezione nella regione di Cajamarca(5).

Questa decisione sancì per molti la definitiva svolta a destra di Humala. Nei mesi successivi la frattura tra il Presidente e le forze politiche appartenenti al mondo dell’associazionismo, che avevano di fatto costruito la sua campagna elettorale (svolgendo un ruolo fondamentale nella sua vittoria) si acuirono fin a ridefinirsi in un’effettiva contrapposizione.

 

Il Perù nell’ Alleanza del Pacifico

Nella primavera del 2012 Cile, Perù, Colombia e Messico hanno firmato un accordo che sancisce la nascita dell’ Alleanza del Pacifico. L’ accordo  prevede una più profonda integrazione delle economie dei quattro paesi al fine di sviluppare nuovi rapporti commerciali nell’area del così detto Pacifico-Latinoamericano. Sebastian Pinera inaugurava questa nuova alleanza alla presenza non solo del messicano Felipe Calderon, del peruviano Ollanta Humala e della Colombia rappresentata dal suo Presidente Juan Manuel Santos (firmatari dell’accordo) ma anche dei presidenti di Costa Rica e Panama, giunti a Panaral(Cile) in qualità di osservatori interessati.

”Dall’alto di Paranal, nel deserto più arido del mondo e sotto il cielo più chiaro, abbiamo firmato un patto ufficiale dando alla luce l’Alleanza del Pacifico”. Con queste parole il Presidente cileno salutava le firme che avrebbero portato alla ratifica e quindi alla nascita di un blocco latinoamericano ( proposto nel 2011 in un incontro svoltosi a Lima) che conta oltre 200 milioni di consumatori ed un prodotto interno lordo che supera i 2 miliardi di dollari. L’accordo ambisce alla costituzione di un integrazione economica nell’area che vada al di la dei soli scambi commerciali e riesca a stabilire un livello di connessione assai più profondo. Un area, quella toccata dai paesi dell’Alleanza del Pacifico, con un potenziale più che significativo. L’allora presidente messicano Calderon, pose l’accento sull’importanza di rapportarsi con le economie di nuovo sviluppo quali Cile e Perù capaci negli ultimi anni di palesare variazioni positive del tasso di crescita.  Nel caso specifico il Perù implementerà la sua capacità ,e possibilità di commerciare con l’Asia rafforzando non solo le proprie relazioni economiche con paesi che compongono l’area andina ma riuscendo a gettare più di uno sguardo oltreoceano. Tutto il Governo Peruviano ha espresso grande soddisfazione rispetto a questa nuova opportunità ribadendo che il libero commercio è uno dei modi più efficaci per costruire e contribuire alla pace tra gli Stati in quanto la partnership definta dall’Alleanza del Pacifico si definisce fin da subito come uno spazio di libera circolazione di beni,servizi, capitali e persone.

Anche l’economista peruviano Jorge Gonzalez Izquierdo ha espresso la sua soddisfazione per la chiusura dell’accordo. Una collaborazione economica con l’Asia del Pacifico infatti rappresenterebbe per il Perù il futuro del commercio estero e dei centri finanziari andando a definire, attraverso nuovi circuiti internazionali, una maggiore probabilità di aumento delle importazioni/esportazioni e degli investimenti.

Alla vigilia dell’accordo l’obbiettivo identificato da tutti i paesi membri come prioritario era senza dubbio il rafforzamento e lo sviluppo del piano ”mas rapida de integracion”( integrazione più veloce) per contribuire al lavoro delle reti economiche preesistenti in America Latina quali : la Comunità andina (CAN) ed il Mercato Comune del Sud (MerCoSur).

Al di la delle reazioni interne ai paesi fondatori l’obbiettivo che si pone questa nuova alleanza è chiaro cosi come lo sono le sue possibilità. Un nuovo blocco di tali proporzioni economiche si pone, nei fatti, come una piattaforma strategica verso le nuove rotte dell’Asia. In merito si è espresso anche il presidente statunitense Obama che, all’interno del discorso di Camberra, ha rilanciato con forza l’asse del Pacifico come priorità nella politica estera e geostrategica degli Usa. Risulta comunque interessante evidenziare come, negli ultimi anni, la proiezione verso le rotte asiatiche dei paesi latinoamericani non sia una novità. La Cina ad esempio ha rafforzato con decisione i suoi investimenti nella macroarea definendosi come uno dei principali interlocutori per quanto riguarda l’export in Brasile e Cile e in misura lievemente minore proprio in Perù ,Cuba e Costa Rica. Di fatto i problemi che in più occasioni sono stati segnalati dai presidenti latinoamericani rimangono: i rapporti commerciali con il pacifico si riducono(se così si può dire) sempre all’export di materie prime che necessito di manifattura per essere immerse nel mercato finale delle merci, non consentendo, di fatto, il superamento della distinzione tra paesi esportatori di materie prime e paesi manifatturieri.

Fondamentale per provare ad apprendere a pieno la potenza che potrebbe esprimere l’Alleanza del Pacifico è l’analisi della sua struttura: la presenza di tre paesi sud americani (Cile, Perù e Colombia) ed uno centro-americano (il Messico) allude direttamente ad una nuova geometria indiolatina che mira direttamente alla costruzione di rapporti sempre più solidi con la già pluricitata Asia, pur con una spiccata propensione verso il nord rappresentato dagli USA.

 

Conclusioni 

Il Perù si candida a ricoprire un ruolo nell’Alleanza del pacifico, e non solo per  un economia in forte crescita ma anche e soprattutto per la valenza geopolitica del paese andino. Il presidente Humala in primo sa che nella stessa costituzione e collocazione geografica del suo paese si nasconde quella che potrebbe rivelarsi l’elemento più importate ed efficace di cui disporre. Il Perù infatti si mostra come un paese estremamente eterogeneo che tiene  allo stesso tempo al suo interno una dimensione marittima, andina ed equatoriale. Il suo accesso diretto al mare (che si materializza in una costa di oltre tremila Km- che rappresenta un enorme potenziale per le attività riguardanti la pesca) e la proiezione internazionale del Rio delle Amazzoni collegano il Paese all’Oceano atalentico. Il Perù si definisce come la ”Porta d’ingresso” sul Pacifico per i paesi dell’altantico del sud che non  hanno accesso ad esso: non ultimi il Brasile, l’Argentina, la Bolivia, il Paragiay e l’Uruguay. Per questo, ma non solo, l’Alleanza indiolatina appena definita costituisce un vero e proprio spartiacque per i rapporti nella macroarea latinoamercana, candidandosi a ridefinire i rapporti geopolitici che l’hanno caratterizzata, rimettendo in primo piano il legame tra le due americhe e la necessita di riaprire un dialogo con attori vecchi e nuovi del panorama continentale che sembrano non accontentarsi più di un ruolo marginale ma che ambiscono a definirsi come fondamentali ed indispensabili per la crescita e lo sviluppo della macroarea.

 

 

*Tiziano Ceccarelli laureando in Cooperazione e Sviluppo presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

 

 

NOTE

1  http://www.larepublica.pe/columnistas/cristal-de-mira/la-delgada-linea-de-la-pobreza-08-04-2011

2  la prima fu nel 2006 dove perse contro il candidato aprista Alan Garcia

3  le ”feste patrie” clebrano l’indipendensa del Perù dalla dominazione spagnola nel 1821.

4:http://www.pdfhost.net/index.phpAction=Download&File=39375bb3362671ac73d4d97caadde676

5 http://peru21.pe/2011/12/15/actualidad/levantan-estado-emergencia-cajamarca-2003343

PARAGUAY E MERCOSUR: LE CONSEGUENZE REGIONALI DELLA SOSPENSIONE

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Con la destituzione di Fernando Lugo e l’insediamento temporaneo di Federico Franco alla presidenza della repubblica, la sintesi del futuro politico del Paraguay è legata ad una data precisa: le elezioni del 21 aprile 2013. Qui troverà compimento la dialettica nata all’indomani del 22 giugno scorso: quando alla tesi di democrazia sospesa con l’uscita di scena dell’ex vescovo a seguito di impeachment, gridata dalle organizzazioni regionali Mercosur e Unasur, ha fatto da contrappeso interno l’antitesi del nuovo presidente spalleggiato dall’Oas, i quali hanno ribadito la normale transizione al potere secondo la legge costituzionale. Sarà dunque compito dei cittadini paraguayani farsi motore della storia del Paese e voltare pagina con il voto di primavera per ristabilire in concreto la normalità; in special modo nelle relazioni estere regionali, minate dalla sospensione del Paraguay come membro del Mercosur. Tuttavia il nuovo governo in carica sta intrecciando nuove politiche, sia interne che estere, in un modo tale che il corso delle sue relazioni in Sud America possa già definirsi nel breve e medio periodo e quindi prima del voto.

La cronaca estiva è nota: durante la riunione di Mendoza (Argentina), a fine giugno, al Paraguay è stata notificata la sospensione momentanea dal tavolo dei processi decisionali del Mercato Comune del Sud  e dall’Unione delle Nazioni Sudamericane, come azione punitiva per il rovesciamento di Lugo: avvenuta sì nel rispetto formale dei principi giuridici del Paraguay – su una tesi alquanto generalista -  ma ribaltando di fatto il volere del popolo che aveva scelto un presidente di centro-sinistra, e che ora, si ritrova guidata da un liberale trasformista di destra (golpe morbido, rivoluzione parlamentare due delle tante definizioni date all’accaduto). La sospensione ha avuto subito le sue conseguenze mettendo in evidenza l’importanza geostrategica di un territorio all’apparenza di secondo piano che possiede il Pil più basso tra i membri effettivi del Mercosur (36 miliardi di dollari) e rappresenta, in proporzione, appena l’1,5% del Pil del confinante Brasile e pressappoco dell’intero mercato comune (1).

L’impossibilità di riproporre il veto, confermato sempre dal 2005, all’ingresso nell’area di libero scambio del rampante Venezuela, ha lasciato campo a Chavez che, profittando dell’empasse, ha ottenuto per Caracas lo status di membro effettivo del Mercosur: il 31 luglio ne è stata ufficializzata l’adesione. Tutto molto velocemente dunque perché gli interessi del Mercosur, con o senza Paraguay, sono in espansione e avere Caracas tra i partner (la terza economia sudamericana) rende ancor più appetibile la regione per gli investimenti di capitali esteri. A tal proposito tornando alla calda estate del Mercosur il 26 giugno, a tre giorni dal summit argentino, il premier cinese Wen Jiabao si era detto interessato ad un accordo di libero scambio con il mercato sudamericano per interessi comuni e potenziale da sviluppare. A tali condizioni il Paraguay ora appare un partner più scomodo con un presidente di destra meno che mai prono alle esigenze di potere del Mercosur e interessato invece a procacciarsi investitori esteri più vicini, sia in termini politici che geografici. La stessa ideologia di Franco appare in contrasto con l’obbiettivo regionale di creare un Mercosur sempre più “comune” in termini politici, ed indirizzato verso una congiunzione economica interstatale. La sospensione quindi assume connotati di interesse geopolitico, preventivi ad una espansione del Mercosur sui mercati asiatici e fondato sull’asse Argentina-Brasile-Venezuela. In tutto ciò il Paraguay non si è fatto comunque schiacciare passivamente dal peso dei giganti confinanti, e ha riproposto la propria indipendenza e sovranità a scapito di un’interferenza esterna che si sta avvalorando con le sanzioni dei blocchi regionali (Mercosur e Unasur) esprimenti un potere non sfiancato dagli interessi nordamericani, al contrario dell’Organizzazione degli Stati Americani dall’ampio respiro atlantista. Le tensioni restano alte soprattutto con l’Argentina: a fine settembre il ministero degli Esteri ha denunciato lo status di sospensione come dannoso per l’economia e come un forte impedimento alla difesa degli interessi del Paese(2). Ad inizio novembre poi l’affondo contro Buenos Aires si è fatto più duro e specifico da parte della delegazione parlamentare al Mercosur: <<Le misure di controllo alla frontiera sono illegali e lesive della proprietà privata>>(3). Il Paraguay si riferisce alle perquisizioni sistematiche riguardanti i mille container che giornalmente transitano in Argentina – principalmente dai porti – rallentando il commercio con danni sensibili e mettendo in atto un sabotaggio velato delle merci in violazione delle sanzioni comminate che dovevano riguardare le conseguenze politiche e non economiche dell’avvicendamento alla presidenza. Il braccio di ferro prosegue sui tavoli dei tribunali: Franco sta chiedendo pareri agli organi giudiziali anche del Wto oltre che del Mercosur, ma la partita è destinata a giocarsi almeno fino a primavera. Queste azioni tuttavia tendono anche a far guadagnare consensi alla compagine politica di Franco tra la popolazione giustificando l’isolamento come punizione per aver rispettato la Costituzione e nello stesso tempo mostrando forza politica all’elettorato: è stata commissionata nel frattempo la stima dei danni commerciali alla Capex, la camera paraguayana delle esportazioni, e il ministro del Commercio ha iniziato a chiedere il boicottaggio dei prodotti argentini.  Comunque la politica interna paraguayana di Franco e la speranza di vittoria della sua coalizione non si giocheranno le carte solo sul piano delle relazioni commerciali, ma anche su quello energetico, lasciando molto probabilmente inalterato il problema dei campesinos, facenti parte di un elettorato storicamente ostile.

Le priorità sono altre: uscire dall’isolamento regionale e introdurre capitali esteri. Le mosse del nuovo governo parlano chiaro: puntare in questi mesi sulle basi da porre per un nuovo sviluppo industriale e largo spazio ai latifondisti. Non sarà Franco ad abbassare il rapporto percentuale tra terra e proprietà (98% delle terre coltivabili in mano al 2% dei cittadini), ma l’obbiettivo che il presidente si è posto è quello di intaccare la percentuale d’incidenza dell’industria sul Pil (attualmente inferiore al 10%)(4). Il governo sarà impegnato, almeno fino a primavera, nell’aumentare la propria indipendenza industriale attraverso petrolio, gas ed elettricità. Ne Chaco (il polmone verde del Paraguay) il governo ha deciso di trivellare ed esplorare nuovi giacimenti di petrolio e forse non è proprio un caso se la società che investirà i propri capitali è la più grande del Brasile. Ingraziarsi il vicino meno intransigente è la cosa migliore visti anche i nuovi accordi per la diga di Itaipú volti ad un maggiore approvvigionamento idroelettrico indispensabile a fronteggiare il fabbisogno dell’industria dell’alluminio paraguayano. Questo nuovo accordo merita di essere segnalato anche per un suo secondo effetto: si tratta di nuove risorse per l’industria paraguayana che tuttavia sguarnirebbero il Brasile che condivide le turbine e in sostituzione delle quali necessiterebbe di maggiore petrolio(5).

La via tracciata da Franco è decisa: visto l’isolamento dal Mercosur che è il maggior mercato di sbocco delle merci paraguyane, è necessario immettere capitali di investitori stranieri che aiutino a sviluppare l’industria e la logistica. Un modo, quello delle relazioni bipartisan regionali, che se rafforzate a dovere potrebbero eludere il boicottaggio argentino e le sanzioni Mercosur. Restano per ora sottotraccia i capitali degli Stati Uniti d’America, comunque ben protetti e remunerati attraverso le multinazionali che controllano l’agricoltura (il 40% del Pil) e che potranno avere tranquillità nell’investire, visto l’accantonamento del problema dei senza terra. Dal punto di vista agricolo la tensione sociale, sfociata ad inizio estate con il massacro dei sin tierra a Curuguaty non si è placata e l’arrivo di Franco, malvoluto dagli stessi agricoltori, non ha ovviamente risolto la situazione né placato gli animi anche se episodi di violenza feroce non si sono più ripetuti. Per comprendere la situazione ad est di Asunción basta leggere il bollettino del Ministero degli Affari Esteri italiano: <<Continuano a verificarsi atti violenti, principalmente legati al narcotraffico ed alle proteste dei campesinos o carperos (agricoltori senza terra), che reclamano una riforma agraria. Questa situazione produce ancora un certo grado di insicurezza nei Dipartimenti di Concepción, San Pedro, Amambay, Canindeyú, Alto Paraná e Itapúa, per cui si sconsiglia ai connazionali di recarsi in tali zone del Paese>> (6). Aggravio della situazione invece per i nativi del Chaco: è in fase di stallo la trattativa per il recupero delle terre interrotta dalla destituzione di Lugo -  come denuncia Amnesty International che da tempo monitora il problema (7). Da questo punto di vista appare ovvio che i diritti di sfruttamento delle grosse società sui campi non saranno intaccati  e sarà maggiormente potenziato il controllo sui territori per spegnere i focolai.

La nuova direzione del Paraguay a guida liberale  sarà senza ostacoli? Dipenderà certo dalle prossime elezioni. Franco riuscirà a far dimenticare Lugo e a consegnare il Paese in mano ad una coalizione di centrodestra? Dalla sua dipartita dalla presidenza l’ex vescovo ha usato toni forti denunciando al mondo il golpe in contrapposizione al comportamento tenuto durante le fasi dell’impeachment: toni bassi e istituzionali e remissione alla volontà del Parlamento(8). Ma mentre Lugo combatteva la sua battaglia il Partido Colorado già sceglieva il suo prossimo candidato e compattava il centrodestra, vista l’impossibile candidatura di Franco per ragioni costituzionali. La sinistra paraguayana invece sembra dipendere dalla ancora inespressa volontà di Lugo: la tentazione di ricandidarsi è forte e a suffragare la tesi è la mancanza ancora oggi di un leader vero nel Frente Guasù. Di certo Lugo non sparirà dalla politica: la nomina a capolista al Senato pare la mossa più probabile, anche perché la ricandidatura alla presidenza scatenerebbe l’attuale amministrazione pronta ad impugnarla davanti la Corte Suprema per manifesta incostituzionalità. La mancanza quindi di coesione sta lasciando ampio margine di manovra al Partido Colorado che ha già le idee chiare e le sta esprimendo con l’attuale presidente Franco.

 

*Salvatore Rizzi, dottore in Scienze della Politica e corrispondente per il quotidiano Latina Oggi.

 

NOTE

(1)http://www.indexmundi.com/map/?v=65&l=it

(2)http://eleconomista.com.mx/economia-global/2012/09/16/paraguay-demanda-reparacion-danos-mercosur

(3)http://www.neike.com.py/afirman-que-se-propone-destruir-el-comercio-paraguayo-de-exportacion/

(4)http://www.rapportipaesecongiunti.it/rapporto-congiunto.php?idpaese=66

(5)http://www.businessweek.com/news/2012-09-26/paraguay-reclaiming-energy-from-brazil-in-franco-industrial-push

(6)http://www.viaggiaresicuri.it/index.php?id=322&tx_ttnews[tt_news]=10198

(7)http://rapportoannuale.amnesty.it/sites/default/files/Paraguay_0.pdf

(8)http://www.pressenza.com/it/2012/07/intervista-esclusiva-al-presidente-ferndando-lugo/

 

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